Dietro le linee 

Il bilancio di un quinquennio e i nostri compiti futuri
 
TRENTADUE TESI PER IL RILANCIO DEL CAMPO ANTIMPERIALISTA
orientamento e direttive adottate dalla Assemblea Generale Straordinaria del Campo Antimperialista – Sez. Italiana. 

Trevi 6 maggio 2007

Prima parte
UN’IDEA FORTE E I SUOI PUNTI DEBOLI
Crollo doppio
1. Materializzatasi nel biennio 2000-2001 dopo quasi un decennio di gestazione, l’invenzione del Campo Antimperialista si è rivelata una delle poche idee giuste partorite dalla sinistra rivoluzionaria occidentale dopo lo sconquasso epocale allegoricamente sancito dal crollo dell’URSS. Sulla base di un diverso paradigma prendeva corpo una terza prospettiva rispetto alle due principali tendenze operanti negli anni ’90. Alla più potente, che consisteva nell’approdo definitivo nel campo imperialistico e dichiarava l’abbandono irreversibile di ogni finalità rivoluzionaria, corrispondeva quella contraria che riteneva intangibile il patrimonio dottrinale del movimento comunista (a sua volta dicotomicamente diviso nelle due principali correnti di pensiero: quella che considerava come imperativo stringente la ricostruzione del partito d’avanguardia dei comunisti e quella opposta che faceva invece affidamento sulla autosufficiente spontaneità della classe operaia).

2. Il punto di forza della corrente principale era il suo realismo simbiotico: dal riconoscimento delle profonde mutazioni sociali e politico-culturali avvenute in seno all’Occidente questa ricavava non soltanto la scomparsa di ogni irriducibile antagonismo di classe ma anche l’idea di un capitalismo eterno al quale non restava che adattarsi, nella convinzione che ogni fine fosse finito e che il solo scopo plausibile fosse normarlo eticamente. Se questa tendenza si è rivelata egemone e pervasiva non è stato certo per un accidente, ma perché in essa si rispecchiava effettivamente la grande maggioranza dell’ormai decrepito e imborghesito movimento operaio.

3. La seconda tendenza aveva il suo punto di forza nel suo simbolismo identitario: lo spaesamento indotto dalla globalizzazione e lo sconcerto causato dalla furia fondamentalista, con la quale il vecchio movimento operaio cancellava storiche radici e aspirazioni, producevano la spinta contraria e specularmente integralista protesa a riaffermare fideisticamente il postulato della congenita missione rivoluzionaria del proletariato (di quello dei paesi capitalisticamente più avanzati anzitutto), nella convinzione che la vittoria del capitalismo-imperialista fosse solo momentanea e che una crisi rivoluzionaria fosse nuovamente all’orizzonte. Alimentava questa tendenza il disadattamento, più ancora che dei residuali strati sociali che il sistema capitalista non era riuscito ad inglobare e a cetomedizzare nel ventennio ’70-’80, quello di settori di aristocrazia del lavoro che la globalizzazione neoliberista, nella sua inarrestabile avanzata, spingeva verso una ri-proletarizzazione imperfetta.
La terza strategia…

4.Di fronte a queste due tendenze mainstream la proposta del Campo esibiva una dirimente alterità strategica. Essa non si limitava a riconoscere che la vittoria del capitalismo imperialista era epocale, ma sottolineava che quest’ultima s’era data, più ancora che per il crollo dell’alternativa esterna costituita dai mummificati sistemi di socialismo reale, per quello dell’alternativa interna rappresentata dal movimento operaio e dalla sua avanguardia comunista, ovvero dalla progressiva assimilazione strutturale del proletariato occidentale nel sistema capitalistico, più precisamente in quello imperialistico. Esso non solo aveva cessato di incarnare il lato antagonistico del sistema, era all’opposto diventato, come aveva intuito Che Guevara, un partner, un socio in affari della borghesia imperialistica nella sua politica di saccheggio dei paesi e dei popoli oppressi. Ne conseguivano due postulati: che fino a prova contraria non si poteva più fare affidamento su questo “proletariato” per rovesciare il sistema, e che l’antagonismo sopravviveva anzitutto come antimperialismo, attivo in quelle aree del mondo sottoposte al saccheggio occidentale. Più precisamente si rappresentava in quei movimenti di liberazione nazionale che lottavano per lo sganciamento dal sistema imperialistico il cui dominio, dopo il crollo dell’URSS, era diventato ancor più esasperante —e per questo tali lotte di liberazione antimperialiste si sarebbero non solo consolidate, sarebbero diventate protagoniste della scena mondiale.

5. Un evento scioccante giunse a confermare questa visione spingendoci a fare della nostra intuizione un vero teorema politico: la rivolta zapatista del 1994 —tanto più significativa in quanto andava in direzione contraria alla capitolazione all’imperialismo implicita negli “Accordi di Oslo” coi quali l’O.L.P. accettava un negoziato a perdere con l’entità sionista. Alle interpretazioni di quella insurrezione che andavano per la maggiore (quella ostile la liquidò come una senile recrudescenza terzomondista, quella apologetica fece sua la rappresentazione iperbolica che ne diede il subcomandante Marcos), noi opponemmo che quella sollevazione era anzitutto una diagnosi della globalizzazione, una denuncia del carattere imperialistico di quest’ultima, uno iato che annunciava e confermava che il tritacarne liberista globale faceva delle “periferie” del sistema il fronte principale di battaglia. Che non si trattava dunque di una tardiva replica delle vecchie lotte di liberazione ma della lieta novella della rinascita in forme nuove ma non meno radicali della lotta antimperialista. Che la ritirata strategica delle forze rivoluzionarie, iniziata alla fine degli anni ’70, non era certo conclusa ma si imbatteva in un tornante storico. A questa analisi facevamo poi seguire un terzo dirimente dato: che la funzione delle forze rivoluzionarie occidentali non poteva, per un intero periodo storico, che essere ausiliaria, di supporto da dietro le linee alle trincee più avanzate.

6. Chi abbia visto giusto apparve subito chiaro. La seconda metà degli anni ’90, mentre in Occidente regnò una mortifera pace sociale, fu segnata dalla comparsa di un’ondata gigantesca di lotte popolari, di rivolte e sommosse che squassarono il Sud del mondo, fino alla seconda eroica Intifada in Palestina.
La forza della nostra tesi non stava però solo nel suo realismo analitico, consisteva nel fatto che negava l’avvento di una lunga pace mondiale, che anzi sottolineava come dominante la tendenza al conflitto e alla guerra, che indicava con precisione i principali fattori di contrasto e le forze che tendevano a rappresentarli. Che essa segnalava la funzione ausiliaria degli anticapitalisti nei paesi imperialisti non come passeggera, ma come duratura, la stella polare di una lunga marcia.

… e i suoi punti deboli

7. Ma questa terza posizione aveva una triplice debolezza la quale spiega perché non avremmo potuto conoscere una crescita davvero consistente. Ridava senso storico alla lotta antagonista ma non possedeva la potenza escatologica identitaria che ebbe l’ideale della rivoluzione comunista. Forniva una speranza, ma essa era debole rispetto alla fulgida certezza di un futuro socialista del periodo precedente. Offriva una risposta strategica al dilemma di come uscire dall’impasse, ma questa risposta non godeva della pervasiva efficacia universalistica dei messaggi di liberazione sociale sorti nel secolo decimonono.
[Quando dici ad un militante occidentale —cresciuto con l’idea che l’Europa sia faro di civiltà e imperituro punto focale della lotta rivoluzionaria— che quel centro non c’è più, quando lo collochi sul retroscena, è come se lo privassi della sua ragion d’essere. Questa debolezza del nostro discorso risulterà poi raddoppiata dal fatto che tra le varie Resistenze proprio quella islamica risulterà quella trainante e dirompente. Trainante per la sua capacità offensiva, dirompente proprio per la sua straordinaria capacità identitaria —radicalmente indigesta per gli ambienti rivoluzionari occidentali impregnati fino al midollo di un secolarismo irriducibile].