Sull’ultimo congresso di Rifondazione Comunista

E’ certo un bene che il VII. Congresso del PRC si sia concluso con la momentanea sconfitta dell’ala destra Bertinotti-Vendola. Ci auguriamo che questa «svolta a sinistra» non sia solo di facciata, che aiuti a ricostruire un fronte non solo anticapitalista ma anche antimperialista. Questa svolta è il segnale che la maggioranza di questo partito, per quanto eteroclita, ha tuttavia sconfitto la frazione il cui grado di compattezza è pari alla sua eteronomia. Non v’è infatti alcun dubbio che dietro al velo delle iperboliche contorsioni semantiche (terreno sul quale Vendola riesce addirittura a superare l’inFausto) si nasconda non solo l’introiezione della controrivoluzione culturale postmoderna, quanto dell’agenda politica e istituzionale bipolare e postdemocratica che da questa consegue. Bastava dare una sbirciata a tutti (tutti!) gli organi di stampa capitalisti per farsi un’idea di chi fossero gli sponsor di Vendola: nessuna testata esclusa tutte hanno esecrato l’elezione di Ferrero.

Che la sgangherata maggioranza che ha eletto Ferrero a segretario possa reggere l’assalto che le verrà portato dal vasto fronte post-anti-comunista noi, però, dubitiamo. Non è sufficiente un raddrizzamento tattico, ci vorrebbe una radicale svolta strategica, ma questo implica essere profondamente rivoluzionari nell’animo ed il coraggio di liberarsi da una tradizione politica opportunista e incartapecorita. Due qualità che che i momentanei reggenti sono ben lungi dal possedere.

Tra i concitati momenti del Congresso, uno su tutti è infatti spiccato per la sua emblematicità: quando l’inFausto, brandendo il proprio carisma, è salito sul palco a compiere il suo esorcismo. Ebbene, malgrado l’assenza di ogni autocritica, nonostante lo sfrontata reiterazione del cupio dissolvi, ovvero della richiesta dell’autodisfacimento, egli è stato accompagnato da una ossessiva e bipartizan standing ovation che ha dato la misura di quanta carne viva e materia grigia la metastasi bertinottiana abbia divorato nel frattempo e di quanto la maggioranza sia politicamete inconsistente. Per un attimo il guru si è illuso che il suo rito gli riconsegnasse il partito, che offrendo ad esso il suo sangue si compisse l’atto conclusivo della trasmutazione. Il miracolo non c’è stato. I chierici lo hanno tradito. Ma questo non è l’ultimo atto dello psicodramma. Al posto di un partito ora ne abbiamo due. Lo scontro diventerà fatricidio e porterà il PRC prima alla paralisi poi allo spappolamento.

Che i chierici, dopo aver per anni osannato alle mirabolanti profezie del vate, sappiano sopravvivere senza di lui ed evitare l’autodissoluzione ne dubitiamo. I chierici evocano una modestissima rinascita, un ritorno a prima del congresso di Venezia. Che in punto di morte Ferrero, Russo Spena e Mantovani facciano ammenda per essere stati tutti culo e camicia con l’inFausto quando con le Tesi di Venezia demolì anche sul piano formale la tradizione comunista, fa loro onore, ma un ritorno a prima di Venezia è solo un pietoso ritirar fuori dall’armadio un vestito dal rosso appena un po’ meno sbiadito. Il PRC non si impantanò nel riformismo, ovvero non divenne un partito-protesi del sistema istituzionale imperialistico, tra gli acquitrini lagunari. Il PRC, riformista, ci nacque, e il suo movimentismo bertinottiano era solo un opportunistico e momentaneo camuffamento per raccattare consensi elettorali, proprio al fine di rientrare con più forza nelle stanze dei bottoni. Per questo la maledizione dell’inFausto alla fine si invererà, Rifondazione, dopo il supplizio del 13 aprile, è destinata a tirare le cuoia. Ogni accanimento terapeutico, ogni tentativo di tenerla in vita artificialmente fallirà. E’ come frustare un cavallo morto.

La domanda che ci si deve porre è un’altra: cosa prenderà il suo posto? A contendersi eredità, spoglie e spazio non sono in pochi, dentro e fuori questo partito. Ne vedremo delle belle! Anzitutto l’eredità, che è stata il vero oggetto del contendere del VII. Congresso. Se se le son date di santa ragione, se i colpi bassi sono stati numerosi (fino al punto che la fase congressuale pareva una squallida pantomima di quelli correntizi della vecchia DC), non era tanto per nobili ragioni politiche, quanto, appunto, per stabilire a chi spettasero i gioielli di famiglia, ovvero chi dovesse tenersi simbolo, cassa, contributi, sedi, assessorati, e chincaglieria varia.
Ed è sempre questa disputa che può spiegare il labile spessore programmatico delle cinque mozioni, precipitato addirittura sottoterra a Chianciano Terme.
Alcuni si son quindi incazzati per la parole di Nunzio D’Erme, che ad un cronista avrebbe confessato: «E’ meglio di Vendola, no? Pure se a me non è che frega un c… So’ ubriaco e sto qui solo perché mi pagano l’albergo». Invece varrebbe la pena di riflettere su queste parole le quali, apparentemente demenziali e dissacratorie, sono un metro infallibile per misurare fino a che punto di cinismo siano giunti, oltre i riformisti d’ogni parrocchia, le loro appendici antagoniste.
Se scroccare tre giorni di pensione a Chianciano val bene la rottura di coglioni di un congresso, fino a che punto questi potranno arrivare per arraffare voti e tornare prima possibile nelle istituzioni come stampelle e goderne quindi delle prebende?

Campo antimperialista, Notiziario del 29 luglio 2008