Il 6 settembre Asif Ali Zardari, vedovo di Benazir Bhutto e co-presidente del Partito del Popolo Pakistano, è stato eletto Presidente del Pakistan. Il consesso dei grandi elettori (i membri del Parlamento, del Senato e dei Parlamenti provinciali) gli ha dato un rotondo 70% di preferenze. Sconfitti i candidati delle due Leghe Musulmane (si fa per dire), quella del deposto presidente Musharraf e l’altra, guidata da un altro ex-presidente, Nawaz Sharif.

Zardari è famigerato come «Mister 10%», nel senso che quando era ministro della compagine guidata da sua moglie, pigliava una tangente fissa del dieci per cento su ogni lavoro appaltato dal governo. Zardari ha un altro soprannome, «il padrino», non nel senso di genitore piccolo di statura ma, appunto nel senso che è un mafioso di prima cartella.

Che cambia In Pakistan con questo nuovo presidente?

Non è questa la sede per chiederci cosa cambierà rispetto alle politiche economiche e sociali in un paese devastato dai conflitti sociali, religiosi e tribali, dalla miseria e dal malaffare. E’ facile predire che per i diseredati e i lavoratori poco cambierà, se non in peggio, mentre le diverse caste che dominano il paese continueranno ad arricchirsi a spese del popolo, intascando il pizzo che anzitutto gli Stati Uniti pagano per sorreggere uno Stato che sembra un assurdo geo-politico e che non sopravviverebbe un solo mese se non portasse all’incasso proprio questa sua assurdità.

 Non sarebbe diventato presidente «il padrino», alias Zardari, se Bush e la conventicola Neocon che occupa la Casa Bianca non avessero fortemente perorato la sua candidatura. Alle prese con una stragrande maggioranza della popolazione tenacemente antiamericana, con una forte influenza e popolarità della Resistenza afghana, Musharraf aveva dato segni di insubordinazione al padrone americano. Il quale, appunto, si è vendicato sponsorizzando prima la vittoria elettorale del Partito del Popolo Pakiistano di Benazir Bhutto, e successivamente, eliminata quest’ultima in un attentato, sostenendo in maniera plateale Zardari. Malgrado quest’ultimo si sia fatto innumerevoli nemici tra le file del sistema oligarchico e notabilare pakistano, il sistema ha dovuto fare buon viso a cattivo gioco, ha dovuto ubbidire agli Stati Uniti.

Di patate bollenti Zardari ne prende in consegna diverse, tutte collegate tra loro. Quella più grossa è certamente il rapporto col gigante indiano, di cui il contenzioso su Jammu e Kashmir è un aspetto. Ma quelle che rischiano di ustionarlo subito sono quelle che si trovano sul fianco occidentale. No, non solo del rapporto con l’Afghanistan, ma pure dell’approccio verso le due turbolente provincie del Waziristan, in quelle della Fronitera del Nord-Ovest, come nell’immenso Baluchistan. Qui la maggioranza dei cittadini è Pashtun, la stessa nazionalità che popola l’Afghanistan meridionale e orientale e che costituisce la spina dorsale della guerriglia contro le truppe d’occupazione. Il problema per Zardari non è tanto e solo che i «suoi pashtun», infischiandosene della martellante propaganda antiterroristica, aiutano come possono i loro fratelli dall’altra parte della frontiera. In tutto il fianco occidentale del Pakistan le comunità tribali sono ostili al governo centrale, di fatto si autoamministrano e proteggono questa loro autoamministrazione con  proprie milizie.

Contro queste milizie «tribali», che la propaganda liquida spesso come bande di terroristi fondamentalisti, già Musharraf, su richiesta americana,  lanciò a più riprese l’esercito pakistano. Senza tuttavia riportare mai successi significativi. Zardari, in quanto proconsole voluto da Washington, dovrà perseguire ma con più decisione l’offensiva, nel tentativo di disarmare le milizie pashtun e di riportare le zone sotto il controllo centrale. C’è da scommettere che anche lui fallirà nell’impresa: sono note la determinazione e la capacità di combattere delle indomite comunità pashtun.

Gli Stati Uniti hanno messo nel conto questa impotenza dell’esercito pakistano (i cui soldati sono in buona parte pashtun e non amano sparare addosso ai propri connazionali) e per questo da almeno un anno compiono unilaterali azioni di guerra nel Pakistan occidentale, spesso senza nemmeno chiedere l’assenso di Islamabad. In un anno gli USA hanno effettuato almeno dodici bombardamenti sui villaggi Pashtun, falcidiando nella maggioranza dei casi civili inermi. Questi attacchi hanno causato vere e proprie sommosse, nonché minato il residuo consenso di cui godeva Musharraf. Si vocifera che Zardari, pur di ottenere l’avallo USA alla sua elezione, abbia stipulato un patto segreto per consentire alle truppe d’occupazione americane di varcare la frontiera afghana per dare la caccia ai guerriglieri e ai talibani.

Ma agli USA l’avallo di Islamabad non è più sufficiente. Siccome l’occupazione in Afghanistan traballa, c’è bisogno di un appoggio pakistano ben più deciso e corposo. Sia sul piano militare che su quello politico. Quello che gli Stati Uniti chiederanno a Zardari non è solo di appoggiare Karzai, ma anche di smobilitare le forze che tiene occupate sul fronte orientale con l’India per concentrarle tutte a occidente, per combattere la guerriglia pashtun,  anche oltre la frontiera con l’Afghanistan, se necessario. Gli americani hanno capito che non si battono i pesci talibani senza toglierli l’acqua pashtun nella quale vivono. Per questo tentano da una parte di negoziare e mercanteggiare un accordo con i pashtun «buoni», dall’altra di intensificare la lotta armata contro quelli «cattivi». Una strategia che difficilmente avrà successo se non sarà pienamente sostenuta dal Pakistan.

La Redazione