
A poco più di due settimane dalle elezioni, non sappiamo ancora chi sarà il prossimo presidente degli Stati uniti. I sondaggi dicono Obama, ma anche nel 2004 dicevano Kerry e tutti ci ricordiamo come andò invece a finire.
Conviene dunque stare ai fatti certi.
La prima certezza è che quella di Bush sarà l’uscita di scena di uno sconfitto: non ha vinto né in Iraq né in Afghanistan, non controlla affatto il Medio Oriente, mentre la Russia è passata dall’amico ubriacone ad una leadership decisa a ricostruire una potenza non più subordinata. E il sigillo definitivo di questa serie di sconfitte è arrivato con la crisi finanziaria in atto.
La seconda certezza è che il nuovo presidente, chiunque esso sia, si troverà davanti all’impellente necessità di riorientare la politica imperiale di Washington.
La terza certezza è che la belva ferita cercherà il riscatto con un rilancio della propria aggressività. In nessun caso, cioè, gli Usa accetteranno pacificamente il ridimensionamento del proprio ruolo di dominatori planetari.
Fin qui le certezze. Ma cosa cambierà a seconda che vinca Obama piuttosto che McCain? Questa è una domanda importante, perché se è certo che gli indirizzi di fondo sono simili, diversa potrà essere la forma del rilancio imperialista.
McCain appare come la brutta copia di Bush, dal quale cerca disperatamente di prendere le distanze per una palese questione di immagine. Obama ha evidentemente buon gioco nell’apparire più “nuovo”, più “dinamico”, più “moderno”. Ed è soltanto in questo vantaggio che risiedono le sue possibilità di vittoria.
Sulla crisi finanziaria, ad esempio, Obama sembra aver poco da dire. Del resto il piano “salvabanche” di Bush è stato approvato anche dal Partito Democratico, secondo l’antica tradizione bipartisan che regola la democrazia imperiale americana.
Alcune differenze vi saranno certamente, dato che attengono non tanto a diverse visioni ideologiche, quanto piuttosto ad un dibattito trasversale che percorre l’intera classe dirigente americana.
Rilanciare l’impero in difficoltà, ma come?
Per McCain il modo migliore è quello di proseguire la Guerra Infinita scatenata da Bush combattendola (e vincendola) su tutti i fronti: Iraq ed Afghanistan in primo luogo, proseguendo l’espansione ad est della Nato in secondo luogo, piegando l’Iran con le buone o (più verosimilmente) con le cattive.
Per Obama gli obiettivi restano gli stessi, ma con due differenze: trovare un accordo che consenta il ritiro dall’Iraq per concentrarsi su Afghanistan e Pakistan da un lato; ricercare un maggior coinvolgimento dell’Europa nel confronto con la Russia dall’altro.
Quel che è chiaro è che non si tratta di uno scontro tra “falchi” e “colombe” (così come ci viene dipinto dal circo mediatico della provincia italiana, specie da quello di sinistra), ma tra due diverse linee tattiche che perseguono il medesimo obiettivo strategico.
Per Obama, ad esempio, il ritiro dall’Iraq è funzionale ad un maggior dispiegamento sul fronte afghano-pakistano, dove è arrivato a teorizzare la necessità di attacchi sempre più profondi all’interno dello stesso territorio del Pakistan.
Sull’Iran, come sul sostegno ad Israele, non vi sono vere differenze, se non quelle secondarie che servono ad alimentare la campagna elettorale ed a motivare i rispettivi elettorati.
Sull’Iran, McCain ha detto che: “in realtà c’è una sola cosa peggiore dell’opzione militare, ed è un Iran dotato di armi nucleari” (New York Times, “Election 2008”). Ed Obama, parlando all’American Israel Public Affairs Committee (Aipac), ha detto apertamente: “Farò ogni cosa in mio potere per impedire che l’Iran acquisisca armi nucleari, ogni cosa”.
Sulla Palestina non esistono vere differenze tra i due (salvo la maggiore o minore propensione ad indicare la via del negoziato). Entrambi hanno condannato l’incontro di Jmmy Carter con i leader di Hamas, hanno respinto ogni ipotesi di trattativa con Hezbollah, hanno ribadito il pieno sostegno politico e militare ad Israele. Obama ha però fatto un passo in più, affermando che “Gerusalemme resterà la capitale di Israele e deve rimanere indivisa”, una posizione che ha suscitato più di una sorpresa, dato che nessuno Stato, neppure gli Usa, riconosce Gerusalemme come capitale di Israele.
Sul confronto con la Russia, acutizzatosi dopo l’aggressione georgiana nei confronti dell’Ossezia del sud, la linea di McCain appare più aggressiva. Già in una sua dichiarazione del 2007 (vedi Le Monde Diplomatique, ottobre 2008) si poteva leggere che: “Le nazioni occidentali devono riconoscere la Nato, come fronte unito dal Baltico al mar Nero, che aprirà le braccia a tutte le democrazie che vogliono difendere la libertà”.
Ma ad una minore esposizione diretta su questo versante, fa riscontro per Obama la scelta del suo consigliere di politica internazionale: quel Zbigniew Brzezinski, russofobo con l’ossessione del rinascente potere di Mosca, che teorizza la necessità di concentrarsi sulla Russia come nemico principale.
Egli apriva così un’intervista alla Stampa dello scorso 13 settembre: “Diamo missili anti-carro ed armi anti-aeree alla Georgia per difenderla dalle mire di Putin”. Un Putin precedentemente hitlerizzato come si usa fare con un nemico da mettere nel mirino. In una intervista ripresa dal Corriere della Sera il 19 agosto, il consigliere di Obama così si esprimeva: “Sfortunatamente, Putin sta avviando la Russia su una rotta che ricorda da vicino quella di Stalin e di Hitler sul finire degli anni ‘30”.
Da questo rapido esame delle posizioni dei due candidati alla Casa Bianca si evince che la differenza principale sta in un una maggiore dinamicità della prospettiva delineata da Obama rispetto a McCain.
Obama infatti mette nel conto alcuni passi indietro per poter compiere un vero rilancio della strategia imperiale nel suo complesso. Detto in altri termini, Obama sembra dirigersi verso una guerra di movimento, mentre McCain appare fermo nella guerra di posizione determinatasi dopo l’impaludamento delle armate a stelle e strisce in Iraq ed Afghanistan.
Quel che è certo è che chiunque vincerà il 4 novembre tenterà il rilancio. E dovrà farlo in tempi molto brevi. Sarà questo, probabilmente, lo snodo che detterà lo sviluppo dell’agenda mondiale dei prossimi anni.
Un rilancio dell’aggressività americana è in ogni caso prevedibile, con buona pace dei nostrani diffusori di illusioni che tifano Obama, sempre sulla base di quella logica del “meno peggio” che in realtà, proprio perché illusoria, prepara sempre il peggio.
La Redazione