I militari nelle scuole ad “insegnare” la Prima Guerra Mondiale
Non sappiamo se gli ufficiali delle tre forze armate e dei carabinieri, inviati dal governo italiano in 200 licei italiani al fine di celebrare il 4 novembre, citeranno il “Bollettino della Vittoria” stilato dal gen. Diaz. Sappiamo però qual è lo scopo assegnatogli dal ministro della Difesa La Russa: “celebrare la vittoria in quella guerra e risvegliare negli italiani i sentimenti di orgoglio e di unità nazionale”.
La madre di tutte le guerre imperialiste verrà certo presentata ai liceali italiani come l’ultima tappa del Risorgimento, il momento in cui si è compiuta l’unità nazionale. Non è difficile immaginarsi come i docenti in divisa calpesteranno la storia, nascondendo la realtà di una guerra d’aggressione, crudele come poche altre, con le proprie stesse truppe trattate da carne da cannone.
Certo, la stessa cosa avveniva in tutta Europa, ma questo non intacca minimamente le responsabilità della classe dirigente italiana dell’epoca.
In quanto a quella attuale, essa non perde occasione per dimostrare la sua vera natura.
Le “lezioni” dei militari stanno iniziando in questi giorni: non ci resta che augurarci un sonoro no di studenti ed insegnanti di fronte a questo insulto alla storia ed alla scuola pubblica. Ci auguriamo insomma che le scuole italiane, già in forte fermento contro la politica del governo, battano un colpo rifiutando questa indecenza.
Su questo tema proponiamo un articolo dello storico Angelo d’Orsi, pubblicato su Liberazione del 21 ottobre.
La Redazione
4 novembre: vogliamo festeggiare la canea nazionalista?
di Angelo d’Orsi
Il novantesimo anniversario della fine della Prima Guerra mondiale è stato poco ricordato in Italia; assai di più, altrove. Per esempio in Francia. Ma come? Non certo con parate e cerimonie, o con conferenze di generali; o concerti tricolorati. L’anniversario è stato l’occasione per convegni, pubblicazioni scientifiche, seminari; si è, insomma, colto il pretesto della data, per avviare ricerche innovative, per fornire nuove riflessioni, dare ulteriori approfondimenti rispetto al lavoro, sempre in progress, della storiografia.
Che, sul conflitto 1914-’18, ha prodotto finora una enorme quantità di studi, ma, come sempre, davanti ai tornanti decisivi della storia, non cessa di produrne. Anzi, su quella guerra che gli stessi contemporanei definirono “grande”, gli stessi oggetti e i parametri della ricerca sono andati radicalmente cambiando a partire dagli anni Sessanta dello scorso secolo, quando, in sostanza, si celebrava il cinquantennio.
Si cominciarono a scoprire le decimazioni, i processi sommari, la vera e propria guerra nella guerra che le gerarchie, a cominciare da quell’inetto pericoloso che fu Luigi Cadorna (comandante in capo fino all’autunno ’17, ossia alla rotta disastrosa di Caporetto), condussero contro la truppa: che, come è noto, era formata essenzialmente di contadini analfabeti, i quali sugli altipiani delle Tre Venezie si facevano ammazzare senza nemmeno sapere perché. Si studiò poi la vita (se vita la si può chiamare) di trincea: fango, pidocchi, fame, infezioni, epidemie, dissenteria… E la morte che si affacciava repentina, benché sempre attesa e temuta, portando via ogni giorno, ogni notte – con un colpo d’obice che cadeva all’improvviso sulle teste di quegli uomini che conducevano un’esistenza da topi – il suo bottino di sangue. L’atrocità immane, le carneficine, la pulsione distruggitrice che si scatenò sul Vecchio Continente, travolse non solo i corpi, ma le menti dei soldati, e spesso anche dei civili, che con quella guerra cominciarono a essere pesantemente coinvolti dalle operazioni militari.
Gli storici passarono dunque a studiare le malattie psichiatriche, i ricoveri coatti, dopo aver studiato le mutilazioni, e l’impossibile rientro nella cosiddetta “vita civile” dei milioni di smobilitati. Quella guerra fu un gigantesco trauma per l’Europa, innanzi tutto, ma non solo per l’Europa; lo fu nel suo inizio, ma lo fu anche nella sua conclusione, per gli strascichi di rancori e risentimenti, di problemi sociali ed economici, di difficoltà di reinserimento per i combattenti, per l’abitudine alla violenza che dal campo di battaglia tracimò nel campo della politica, trasformando gli avversari politici in nemici militari, in «nemici interni», contribuendo in modo decisivo a una tremenda radicalizzazione e a una fortissima ideologizzazione dell’azione politica. Ne nacque, certo, un nuovo, importante protagonismo delle masse, prima di allora, perlopiù, largamente inerti e subordinate, e che, dopo la guerra, oscillarono tra adesione ai socialismi e ai nazionalismi. Se la doppia rivoluzione russa fu il frutto “buono” di quel conflitto (a prescindere dalle sue inquietanti “deviazioni”), fascismo e nazismo ne furono i frutti velenosi: gli uni e l’altra, esempi di quel grandioso fenomeno di mobilitazione delle masse cui accennavo. Si aggiunga che l’Italia entrò in quella guerra con una piroetta diplomatica che ci trasformò da allora nei traditori per antonomasia (alleati all’Austria e alla Germania ci schierammo con la Francia, Gran Bretagna e Russia), ma soprattutto vi entrò contro la volontà del Parlamento, e dell’intero Paese, che non era affatto preparato: né tecnicamente, né economicamente, né sul piano dell’opinione pubblica, a gettarsi allo sbaraglio. Fu, come avrebbe notato un grande storico, Luigi Salvatorelli, un vero e proprio colpo di Stato del re Vittorio Emanuele III: la prima delle tante scelte sciagurate che condannarono la dinastia sabauda a finire nella spazzatura della Storia.
Madre di tutte le guerre moderne, quella guerra, che mostrò come si potesse realizzare tecnologicamente la morte di massa: con l’uso di gas tossici, da tutte le parti belligeranti; con battaglie di massa, condotte con armi per allora modernissime e potenti, che si risolvevano in mostruose carneficine; esempio eccelso degli effetti della “seduzione” che la guerra e la violenza resa giuridicamente lecita, o comunque tollerata, esercitano, anche nelle forme estreme: si pensi all’uso delle parti anatomiche strappate, recise, sottratte ai corpi dei nemici uccisi per farne dei simpatici gadget o souvenir da portare a casa, o intanto, da tenere su di sé, addirittura come portafortuna. E si pensi al vergognoso bellicismo di cui quasi tutti gli intellettuali dei diversi Paesi diedero prova, scrivendo pagine tremende, di cui forse avrebbero dovuto chiedere perdono; cosa che, naturalmente, non si sognarono di fare. Amiamo la guerra! , di Giovanni Papini, costituisce un esempio emblematico di quel «tradimento dei chierici» che anni dopo Julien Benda avrebbe denunciato, sulla scia di un altro grande intellettuale francese, Romain Rolland, che aveva invitato letterati e studiosi, artisti e scienziati a non cadere nella «canea nazionalista».
Fu insomma, quella «guerra interimperialistica», per usare la categoria di Lenin, anche l’avvio di una gigantesca “guerra civile europea” che sarebbe terminata nel 1945: la “seconda Guerra dei Trent’anni”, secondo molti studiosi. Come la prima, foriera di tempeste i cui effetti ancora gravano su di noi. C’è dunque da celebrare? Difficile anche solo pensarlo, alla luce appunto delle conoscenze storiche: celebrare poi una “vittoria”, significa celebrare la “sconfitta” di qualcun altro; quel qualcun altro che magari oggi è nostro partner nell’Unione Europea o con il quale abbiamo scambi commerciali e culturali importanti. Solo l’ignoranza arrogante e presuntuosa dei nuovi vertici politici delle nostre Forze Armate può spingersi a un tale traguardo: grottesco, innanzi tutto; ma altresì pericoloso.