Risoluzione approvata dal Comitato Politico Internazionale del Campo Antimperialista

Vienna 4 febbraio 2008 

1. Contrariamente a larga parte della sinistra, sia internazionale che venezuelana, noi sostenemmo il «Movimento Quinta Repubblica». Successivamente (1998) salutammo l’elezione a Presidente della Repubblica di Hugo Chavez Frias come una eccezionale vittoria antimperialista, come l’inizio di una fase nuova e positiva non solo per il Venezuela ma per tutta l’America Latina.
2. Per la prima volta dopo decenni, in un paese decisivo per gli equilibri geopolitici del continente, saliva al potere un leader che si dichiarava radicalmente ostile non solo all’imperialismo, quello USA in particolare, ma anche al marcio sistema oligarchico e bipartitico venezuelano, espressione di un capitalismo dipendente e corrotto. Quello di Chavez non era quindi solo un antimperialismo di facciata. A chi lo condannava come un militare demagogo e un politico populista, egli rispose infatti indicando come necessario non solo lo sganciamento dalla morsa neocolonialista, ma l’edificazione di un sistema sociale che riscattasse i poveri delle città e delle campagne dallo stato si servile sfruttamento e di emarginazione sociale in cui erano confinati. Le ripetute vittorie elettorali mostrarono senza ombra di dubbio che Chavez non era una meteora e che l’enorme  consenso che egli aveva ottenuto in seno agli strati sociali oppressi era destinato a consolidarsi.
3. L’oligarchia capitalista venezuelana, inizialmente spiazzata dalla folgorante marcia di Chavez, una volta compreso che era davanti ad un fenomeno di lunga durata, con il deciso appoggio di Whashington, commise un fatale errore, tentò di riprendersi il potere con il Golpe dell’aprile 2002. I golpisti vennero infatti travolti da una grande e combattiva mobilitazione popolare e furono obbligati a compiere una fulminea e umiliante ritirata. Col suo atto di forza l’oligarchia aveva precipitato il paese sull’orlo della guerra civile, una guerra il cui esito, malgrado l’appoggio nordamericano, poteva sfociare in una disfatta strategica.
4. Ma era solo una ritirata tattica. Dopo pochi mesi il variopinto fronte reazionario riprovò a cacciare Chavez con un insidioso sabotaggio petrolifero che mise il paese in ginocchio. Questo fronte perse anche questa seconda volta, ma cadde in piedi. Esso mostrò di possedere enormi risorse nonché stabili basi sociali, un consenso non solo nelle élite colte e nella gerarchia ecclesiastica, non solo nella burocrazia statale e nella piccola borghesia commerciale, ma pure in settori della classe operaia sindacalizzata e tradizionalmente corporativa.
5. In un contesto ormai definitivamente polarizzato tra chavisti e antichavisti, l’oligarchia tentò il terzo assalto a Miraflores. Questa volta sfindando il Presidente sul terreno elettorale, promuovendo un «referendum revocatorio» allo scopo di cacciarlo dal potere. Esso si svolse nell’agosto 2004. Con una percentuale di votanti altissima e senza precedenti (il 70%), votarono col MVR e per Chavez il 60% dei cittadini. Un successo enorme. Tanto più significativo visto l’appoggio sfrontato che USA e UE diedero al blocco anti-chavista e di quello della gran parte dei mezzi di comunicazione di massa, interni e internazionali.
6. Questa clamorosa vittoria politica, ottenuta su un terreno tradizionalmente favorevole alle forze reazionarie —quello elettorale e plebiscitario, che in quanto fondato sulla delega passiva dei cittadini accentua la forza egemonica e corruttrice dei notabili politici e della classe dominante—, mentre scompaginò la coalizione anti-chavista produsse nel campo opposto una «vertigine del successo», l’illusione dell’imbattibilità, la errata convinzione che si sarebbe potuti procedere sulla via di radicali trasformazioni sociali senza fare ricorso alla rottura rivoluzionaria, passando per una serie successi e legittimazioni elettorali.
7. La vittoria dell’agosto 2004 spinse comunque il governo e il blocco chavisti a procedere più speditamente sulla via della cosiddetta «Rivoluzione Bolivariana». Oltre ad una politica estera che malgrado i suoi limiti era sostanzialmente antimperialista, il governo propose e stimolò profonde trasformazioni della struttura sociale del paese. Non si trattava soltanto di approntare radicali riforme della struttura sociale  (la redistribuzione della ricchezza nazionale per emancipare gli oppressi dallo stato di miseria ed emarginazione sociali), ma pure di profondi mutamenti degli assetti istituzionali affinché gli ultimi diventassero i primi, affinché il potere politico e amministrativo cessasse di essere una prerogativa della nomenklatura burocratico-notabilare (in larga parte fedele alla vecchia oligarchia) e passasse in mano alle organizzazioni popolari di base.
8. Come Campo Antimperialista abbiamo sostenuto pienamente questo processo di trasformazione sociale e istituzionale, come tutte le riforme volute e rese esecutive dal governo chavista. Non abbiamo condannato a priori (e non lo facciamo oggi) alla direzione venezuelana il tentativo (più pragmatico che dettato da ragioni teoriche) di passare al socialismo attraverso una serie graduata di riforme rivoluzionarie. Abbiamo anzi apprezzato il tentativo di sperimentare un’avanzata verso il socialismo senza infrangere le regole democratiche, evitando ove possibile lo scontro armato. Sappiamo che nessuna misura sociale o politica, per quanto sacrosanta, può essere duratura senza una solida egemonia, senza il più ampio consenso popolare. Abbiamo però messo in guardia quanto rischioso fosse sfidare le costanti e le «leggi» della storia; che essa procede per salti e strappi violenti; che la quantità è destinata a trasformarsi in qualità; che ad un certo punto del processo di trasformazione la rottura sarebbe diventata inevitabile; che nessun atto di fede verso la democrazia da parte della rivoluzione avrebbe potuto mai convincere l’oligarchia a togliersi di mezzo (vedi la catastrofe cilena del 1973).