L’unica cosa positiva, quando si saranno chiuse le urne negli Stati Uniti, è appunto che si saranno chiuse, ponendo con ciò fine a questo interminabile tormentone. Sin dalle primarie infatti, cioè da almeno un anno a questa parte, tutti i mezzi di informazione italiani non hanno fatto che parlare delle elezioni americane. Non sarebbe pazzesco che il 3 novembre ci sia chi si rechi alle urne anche qui da noi, convinto che si tratti di scegliere il nostro presidente.
Che i media italioti abbiano dato questa ossessiva centralità alla competizione Obama-MacCain non è un caso, corrisponde invece ad un preciso disegno politico e ideologico. Un disegno che ha due figure simboliche in primo piano, entro una prospettiva non meno icastica.
La prima figura, quella che giganteggia in primo piano, sono gli Stati Uniti, raffigurati non solo come il paese più potente, ma come l’Impero unico, il basamento su cui si regge tutto l’edificio del sistema capitalistico mondiale. La seconda figura, genuflessa ai piedi dalla prima, è l’Europa, rappresentata come un vassallo. La prospettiva che fa da sfondo non è meno imperativa: certe nubi fosche che si addensano all’orizzonte non fanno che confermare che il solo e luminoso futuro possibile per l’umanità è a stelle e strisce.
Il servilismo della nostra stampa sistemica verso Washington è cosa nota. Ma questa volta si è passato il segno. I disastri del bushismo in politica estera così come il cataclisma finanziario (di cui l’amministrazione Bush porta incancellabili pesantissime responsabilità), lungi dallo spingere la pletora dei filoamericani a sfumare le loro pulsioni americaniste, ha obbligato i pennivendoli a rincarare la dose. Siamo ormai allo stadio di un americanismo compulsivo.
Un primo esempio tra i tanti, quello di Angelo Panebianco, una delle penne più importanti del Corriere della Sera.
Così scrive il 20 ottobre:«La mia ipotesi è che un mondo multipolare sarebbe più pericoloso, con più rischi di guerra. E’ stato il predominio indiscusso dell’America a favorire la diffusione della democrazia nel mondo (ci sono oggi più democrazie che in passato). Con un ridimensionamento, sia pur relativo dell’America, quel processo perderebbe la spinta propulsiva».
Ha dell’incredibile lo spessore mistificante di questo ragionamento. Panebianco, compiendo una sfrontata apologia della dottrina guerrafondaia dei Neocon, giustifica l’ingrossamento dei fiumi di sangue provocato dalla politica aggressiva di Bush, considerandolo come un prezzo inevitabile, come un mezzo per raggiungere lo scopo: l’esportazione della “democrazia”. Non crediate che Panebianco non sappia che la democrazia si puo’ declinare in tante maniere, né che il diritto di una nazione all’autodeterminazione (dagli USA violato sistematicamente e per ultimo in Iraq e in Afghanistan), sia la madre di tutti i diritti democratici. Il nostro lo sa perfettamente, come sa altrettanto bene che l’esportazione della democrazia è un volatile rivestimento simbolico dei ben più materiali e rapaci interessi imperiali.
Ci pensa Ferrara, su Il Foglio del 20 ottobre, a dare sostanza alla “democrazia” che gli americani hanno in casa loro e che vorrebbero imporre con la forza urbi et orbi. Lo fa con poche efficaci pennellate, prendendo come spunto lo stagnino che ha rimbeccato Obama in diretta e che negli ultimi scampoli di campagna elettorale fa da spalla a McCain.
Sentiamo: «Joe the Plumber vuole comprare il business per cui lavora, desidera migliorare il suo status, sa di dovere vivere e morire con il Dio della sua famiglia che gli alita lo spirito alle spalle e il peso individuale dei propri peccati, ma prima della fine vuole cavarsela. Fare meglio di un altro. Consumare il mondo, gli anni, le cose, l’esistenza…. Debito e rischio sono l’essenza del capitalismo, antico e moderno, e l’unica cura di questo sistema di economia e di vita è quella di crescere e crescere ancora».
Avete capito bene: “Consumare il mondo, gli anni, le cose, l’esistenza….crescere e crescere ancora”. La democrazia americana non è la forma in cui una comunità politica decide liberamente cosa fare di sé, come ottenere il bene comune, il suo destino. Qui democrazia è sinomimo pensiero unico, di business, il luogo ove è degno di considerazione solo l’individuo atomizzato, ridotto a rivestimento della meta-cosa che tutte le altre contiene, il danaro. La democrazia è il perimetro di gioco dove tutto è permesso pur di arrampicarsi sù per la piramide sociale. Consuma e cresci, cresci e consuma, tutto il resto alla merda! Di qui la radice congenitamente imperialistica di una simile visione del mondo (una folle mistura di calvinismo puritano e di nichilismo): siccome questo modello sociale non è evidentemente estendibile a tutta l’umanità, pena l’apocalisse, the american way of life non si tocca! che gli altri vadano alla malora. E ove gli altri si ribellino ci penseranno le armate imperiali a ridurli a ragione.
Dovrebbe essere chiaro ora perché il nostro antimperialismo è anche antiamericanismo. Siamo a priori con ogni popolo che resista contro ogni imperialismo, ma siamo a fortiori contro l’imperialismo americano, non solo perché e’ il vero pilastro su cui poggia tutto l’odierno edificio capitalistico; siamo contro la concezione del mondo e dell’uomo che promana dagli USA, e alla quale sono aggrappati tutti i borghesi e gli aspiranti tali del mondo intero. Per loro “Joe the Plumber” rappresenta il simbolo di ciò che è e solo può essere, per noi, figli di Platone e Gesù, di Aristotele e Marx, esso incarna il mondo come disgraziatamente è diventato e come non dovrebbe più essere.
Per quanti sforzi facciano i democratici italiani nel presentare Obama come alternativo a McCain, la loro disputa non è tra opposte visioni del mondo, si svolge entro il perimetro ideologico della “missione americana”. I due candidati sono due varianti del medesimo “pensiero unico” imperialistico, del paradigma tracciato da “Joe lo stagnino”. Chi vivrà vedrà. Vedrà che quale che sia il presidente che la plebe nordamericana sceglierà, esso non potrà che farsi tutore della supremazia americana, gendarme del mondo unipolare.
Lo sanno bene i paladini italioti dell’americanismo, tutti non per caso schierati dalla parte di Obama, Ferrara e Panebianco compresi. La parola a quest’ultimo, il quale, senza peli sulla lingua, dopo avere spaventato i suoi lettori che ogni “allargamento dell’Atlantico” avrebbe conseguenze catastrofiche, afferma: «Come farebbe un’Europa che non diventi un super-Stato a fronteggiare il mondo multipolare, plausibilmente dominato dalla competizione fra grandi imperi? Sarebbe un vaso di coccio. Per difendere indipendenza e libertà, dovrebbe restare legata agli Stati Uniti e alla loro egemonia liberale. Se il blocco transatlantico resistesse, esso resterebbe comunque, anche con l’America in ripiegamento, la più importante concentrazione di potere politico, economico e militare».
Non abbiamo dubbi che le classi dominanti europee la pensino allo stesso modo. Ci vorrà una rivoluzione europea per liberarci da questi vassalli e con loro della sudditanza all’Impero.
PS
Mentre scrivo le agenzie battono due notizie emblematiche.
La prima è che il Pentagono ha avviato un programma per inviare unità speciali di pronto intervento in ogni punto del globo, facendole viaggiare nello spazio a bordo di razzi (vedete a che serve la ricerca spaziale?), in modo da farle arrivare a destinazione in meno di due ore e per aggirare il problema dell’attraversamento degli spazio aerei nazionali.
La seconda è che gli americani hanno compiuto nel Waziristan due attacchi missilistici utilizzando dei Droni. Venti morti accertati. Secondo fonti pakistane tutti civili. Secondo gli americani tutti esponenti di al Qaeda dei talibani.
Moreno Pasquinelli