I media italiani ed esteri danno oggi un grande risalto all’approvazione da parte del governo Al Maliki dell’accordo con gli Stati Uniti per la permanenza di questi ultimi anche dopo la scadenza del mandato ONU. L’accordo, su cui nei prossimi giorni dovrà esprimersi il Parlamento, è stato approvato dal governo iracheno con 27 voti favorevoli su 28 ministri presenti; non è dato sapere le ragioni dell’assenza di ben 10 ministri. I punti nodali oggetto di una lunga negoziazione fra la Casa Bianca e il governo iracheno investivano la flessibilità o meno del calendario per il ritiro e la giurisdizione in cui far ricadere i soldati e i contractors americani che commettono crimini in Iraq, che fino ad ora godono – e non solo in Iraq – di una sostanziale impunità.

Sul primo punto risulta che gli Stati Uniti, che puntavano a scadenze procrastinabili, dovranno invece ritirare le truppe dalle città e dai villaggi entro la metà del 2009, mentre entro il 31 dicembre 2011 è previsto il ritiro dalle basi. Quanto al secondo  la soluzione non è invece chiara, in quanto dalla stampa si apprende solo che sarà costituito un comitato tecnico per indagare su eventuali violazioni. L’accordo garantirebbe inoltre che il territorio iracheno non potrà essere usato per lanciare attacchi verso i paesi confinanti, come recentemente è accaduto nei confronti della Siria.

In Occidente la principale considerazione dei media è che gli occupanti hanno dovuto negoziare una via d’uscita onorevole: non hanno potuto decidere di restare nel Paese senza alcuna copertura, hanno dovuto anche rinunciare a valutare l’opportunità o meno di ritirarsi alla scadenze previste e il ritiro riguarderà anche  le basi. Su quest’ultimo punto segnaliamo alcuni  mal di pancia nell’intellighentia occidentale: Daniel Pipes, direttore dell’Istituto del Medio Oriente e consulente di Casa Bianca e Congresso, ritiene che gli Stati Uniti debbano comunque mantenere a tempo indeterminato alcune basi strategiche, soprattutto per arginare l’influenza di Iran e Siria; il filosofo della politica Michael Walzer afferma che sarebbe necessaria una base nel Kurdistan iracheno, per garantire un assetto costituzionale effettivamente federale e scongiurare lotte interne.
Sul versante iracheno si registrano parecchie “perplessità”, che peseranno nell’imminente dibattito parlamentare per l’approvazione dell’accordo e nelle prossime elezioni provinciali previste per gennaio, da cui sono escluse non a caso le province curde. Già in sede di approvazione governativa si sono registrate numerose assenze ed ha votato contro l’accordo il ministro per gli affari delle donne Nawal al Samarrai’e, appartenente all’Iraqi Islamic Party, sunnita, affermando che l’accordo dovrebbe esser sottoposto ad un referendum popolare. Una volta in Parlamento l’accordo dovrebbe trovare l’approvazione delle componenti politiche curde e di quelle sciite che fanno capo all’Ayatollah Alì al Sistani, mentre l’Iraqi Accord Front, la maggiore coalizione sunnita, insiste anch’essa per un  referendum popolare. Netta è invece la contrarietà delle forze politiche riconducibili al leader della Resistenza sciita Muqtada al Sadr, che si opporranno in Parlamento e sulle piazze. E non saranno sole perchè l’accordo, nonostante i suddetti  mal di pancia occidentali, viene percepito come la nuova foglia di fico (dopo il mandato ONU in scadenza) che permette all’invasore di restare e sancisce quindi una palese violazione di sovranità: il popolo iracheno continuerà  giustamente a resistere e a lottare per il ritiro totale ed incondizionato delle forze di occupazione.

La Redazione

Fonti: english.aljazeera.net; El Paìs; Corriere della Sera; Associated Press; Reuters; Agence France Presse.