A cinque anni dalla manifestazione del 13 dicembre in sostegno alla Resistenza irachena

Chi avesse visitato l’Iraq prima della aggressione anglo-americana del marzo 2003 (alcuni di noi lo fecero a più riprese), non poteva non rendersi conto della drammaticità della situazione. L’embargo genocida in atto sin dal 1991 aveva letteralmente messo in ginocchio il paese. Larghe fasce della popolazione alla fame, penuria di beni di prima necessità, di medicinali, di attrezzature, mancanza di risorse per far funzionare l’apparato pubblico. La fragilità del regime baathista saltava agli occhi. Come avrebbe potuto questo paese al collasso respingere o anche solo contenere l’attacco del più potente esercito d’ogni tempo?

Che le forze armate irachene avrebbero resistito poco a noi pareva chiaro. Ma di un’altra cosa eravamo convinti: che l’occupazione angloamericana, malgrado la probabilmente rapida vittoria campale, avrebbe molto presto dovuto fare i conti con una capillare e tenace Resistenza guerrigliera. Così, già prima dell’attacco, nel contesto delle grandi mobilitazioni contro la guerra, non ci limitammo a difendere l’Iraq, lanciammo una fatidica campagna “Con il popolo iracheno che Resiste” e proponemmo il campo estivo dell’agosto 2003 come un’occasione mondiale di appoggio alla Resistenza. Che avessimo visto giusto, dopo, ce lo riconosceranno tutti. Intanto lo indicavano i fatti. Non erano passate due settimane dalla conquista di Baghdad che gli americani iniziarono a subire, in diverse zone del paese, i primi attacchi da parte della guerriglia. Sarà un crescendo di azioni, sempre più audaci e spettacolari. E non era vero che stavano combattendo solo i “rimasugli” della Guardia repubblicana di Saddam Hussein, al contrario! La gioventù era la forza motrice della Resistenza e l’Intifada palestinese il loro modello. In pochi mesi si andavano strutturando, soprattutto nelle zone a maggioranza sunnita, diversi gruppi guerriglieri: l’Islam il loro riferimento simbolico.

E’ in questo contesto che si svolgeva ad Assisi il nostro campo estivo, è lì che lanciammo la campagna «Dieci Euro per la Resistenza Irachena» e un appello per una manifestazione nazionale «Con il popolo iracheno che resiste!». E’ in quel Campo che invitammo esponenti della Resistenza così come alcuni volontari che combatterono per difendere Baghdad.

Quel campo estivo e le due campagne ottennero immediatamente un’eco formidabile. Furono costretti a parlarne un po’ tutti i giornali italiani, come pure vari media internazionali. Ma assieme alle luci della ribalta mediatica avemmo altre due morbose ostili attenzioni: una prevista, l’altra un po’ meno. La prima fu quella di tutti gli apparati di sicurezza imperialisti, non solo quello italiano; l’altra fu quella di gran parte dei gruppi dirigenti della sinistra ufficiale, sia istituzionale che antagonista. Per quanto possa sembrare incredibile è un fatto che si costituì una specie di fronte unito il quale aveva un duplice obbiettivo: isolare il Campo per tagliare le gambe alla campagna in appoggio alla Resistenza irachena.

La perfetta similitudine degli argomenti, la sconcertante simmetra degli attacchi, poteva giustificare una spiegazione inquietante, ovvero che dietro alla contro-campagna per spazzarci via vi fosse un’unica intelligenza, un’unica centrale. In prima fila a darci addosso c’erano alcune grandi penne di alcuni grandi quotidiani nazionali, alcuni ambienti politici della destra americanista, nonché il Ministero degli interni del governo Berlusconi, in particolare il sottosegretario Mantovano. Che questa conventicola di giornalisti (Magdi Allam, Renato Farina, Introvigne, ecc) e politici facesse capo al SISMI di Niccolò Pollari e Pio Pompa (poi rimossi e rinviati a giudizio per aver collaborato con la CIA al sequestro dell’imam Abu Omar), non è un mistero per nessuno.

Ma quale fu l’argomento, l’accusa principale per delegittimarci e sputtanarci? Presto detto: noi saremmo stati il fulcro di un nascente “fronte rosso-bruno”, punta di diamante di un “complotto nazi-islamo-comunista” (Magdi Allam) colluso a sua volta con Al-qaida. Ovviamente si trattava di una menzogna, ma per la menzogna, come si sa, vale il detto che a forza di dirla e ripeterla, i più alla fine finiscono per crederci. Così a partire dalla fine di settembre fino alla manifestazione del 13 dicembre 2003 fu uno tsunami di accuse calunniose e attacchi virulenti. L’obbiettivo era evidente: creare un clima di sospetto attorno al Campo, intimidire i tantissimi che ci stavano aiutando. Tantissimi dicevamo, indignati a maggior ragione poiché nel frattempo il governo Brlusconi aveva  deciso di aggregarsi in Iraq agli occupanti anglo-americani. 

Mentre la prevista manifestazione del 13 dicembre era alle porte il contingente italiano subiva l’ attacco devastante di Nassiryia. La campagna contro di noi diventava al calor bianco. Dal momento che non ci facemmo intimidire, che dicemmo che quell’attacco era da considerarsi una legittima azione di Resistenza, venimmo messi all’indice come filo-terroristi. Così, mentre gli apparati dello Stato stringevano i tempi per darci addosso e portarci il colpo degli arresti (che verranno pochi mesi dopo, il 1 aprile 2004), raggiungeva la massima intensità anche la campagna tesa ad isolarci da sinistra. Corriere della Sera, Repubblica, l’Unità, Il giornale, Libero, e con loro gli altri organi di stampa focalizzano i loro attacchi sul fatto considerato scandaloso che molti dei firmatari del nostro Appello fossero dirigenti o iscritti a CGIL, DS e PRC. Ecco allora che nel giro di pochi giorni i massimi dirigenti di DS, PRC e CGIL scesero personalmente in campo affinché gli iscritti alle loro organizzazioni che avevano firmato l’appello per la manifestazione del 13 dicembre ritirassero l’adesione. L’accusa era chiara: chiunque non onorava come “eroi nazionali e martiri della pace” i caduti italiani a Nassiriya era tacciato di essere un fiancheggiatore del terrorismo. Alcuni, in effetti, ritirarono la loro firma, ma la slavina non diventò una valanga. La linea d’accerchiamento non poteva considerarsi completa ove non si fossero mobilitati allo scopo pezzi importanti della stessa estrema sinistra. E questo avvenne. Alcuni accamparono diverse scuse per non aderire, altri scelsero la via del boicottaggio frontale, altri ancora minacciarono di aggredirci se avessimo davvero osato manifestare.

In un simile tesissimo contesto non fu facile tenere le posizioni e i nervi saldi.

Ma la manifestazione non fallì, e ne dovettero prendere atto tutti coloro che ci avevano dato addosso. Gli avevamo scavato sotto i piedi una trincea, dalla quale non riusciranno più a cacciarci. Quel che più conta, e i mesi successivi lo mostreranno, eravamo riusciti ad ottenere la vittoria più importante. Eravamo riusciti a contrastare il tentativo di cancellare simbolicamente l’idea che in Iraq ci fosse una Resistenza legittima e con ciò ad ottenere pieno diritto di cittadinanza per chiunque la sostenesse.

Non sarà la repressione poliziesca che ci piomberà addosso pochi mesi dopo a metterci in difficoltà. L’impegno impressionante che profondemmo a favore della Resistenza irachena, il fatto che avessimo legato le nostre sorti a quella, significava che il nostro stesso destino veniva a dipendere dall’evoluzione sui campi di battaglia in Iraq, dallo sviluppo o dalla crisi della medesima Resistenza. 

Il 2004 e il 2005 furono due anni terribili per gli occupanti, la Resistenza e la guerriglia sembravano crescere e consolidarsi in maniera irresistibile. A noi non sfuggivano tuttavia i processi politici in atto dentro la Resistenza, le sue divisioni interne. La nostra speranza, la speranza che la Resistenza riuscisse ad unirsi formando un vero e proprio Fronte nazionale di liberazione andò frustrata. Quei due anni furono gli anni della crescita, in seno alla Resistenza, dei settori combattenti jihadisti, l’organizzazione di Al-Zarkawi ottenne sul campo una sostanziale egemonia. Non solo si consolidò il processo di islamizzazione delle forze guerrigliere, quel jihadismo si portava appresso un frutto velenosissimo, il takfirismo, la corrente islamista sunnita più intransigente per cui non solo gli occupanti erano dei nemici ma tutti gli eretici dell’Islam, ovvero i seguaci della Shia.

Al-Zarkawi non era solo un tenace combattente antiamericano, era anche il massimo rappresentante del takfirismo, della linea che teorizava l’attacco frontale a tutti gli shiiti come servi degli occupanti. L’attentato che distrusse la sacra moschea shiita di Samarra nel febbraio 2006 rappresentava in ogni senso un tornante, un punto di svolta. Quest’evento non solo divise irreparabilmente la guerriglia sunnita, spaccò in due il paese, spingendo le milizie shiite ad armarsi, all’inizio per dare la caccia ai jihadisti, poi a tutti i sunniti sospettati di sostenere la lotta di liberazione. Prendeva inizio, nel contesto della guerra di liberazione una vera e propria guerra civile in stile libanese. Come e più di Beirut nei ‘70-’80, Baghdad subirà una frantumazione su linee comunitarie, muri sorgeranno per dividere le zone sunnite da quelle shiite. Le zone miste, la maggioranza, verranno inghiottite dagli scontri, dai massacri reciproci, dalle vendette e dalle rappresaglie.

Il declino della Resistenza, la degenerazione settaria delle sue componenti egemoni, non potevano non riverberarsi in Occidente e nel mondo. Il sostegno internazionale venne colpito in maniera irreparabile proprio mentre stava mettendo solide radici. Essendoci esposti in prima persona, noi dovevamo essere anche quelli a pagarne il prezzo più alto. Gran parte della rete di appoggio che contribuimmo a costruire si sfaldò, in molti mollarono la lotta, pur serbando in cuor loro la speranza di una rinascita della Resistenza. Processo che, a ben seguire le attuali dinamiche irachene, non è affatto del tutto pregiudicato. Ma se rinascita ci sarà, sarà in effetti una vera e propria rifondazione dalle fondamenta, in un contesto mondiale, per altro, in incessante evoluzione.  

Non è scopo di questo articolo approfondire quest’aspetto. Lo andiamo facendo e lo continueremo a fare. Restano della nostra battaglia un paio di successi che nessuno potrà toglierci: l’aver dato cittadinanza, non solo in strati minoritari, all’idea della legittimità della Resistenza irachena. L’altro, meno grande ma non meno prezioso per noi, è l’aver dimostrato una tenacia e un coraggio che pochi, in tempi durissimi come questi, hanno saputo mettere in campo.

La Redazione