Dal Manifesto del 2 gennaio scorso riprendiamo il punto di vista di Michel Warschawski, che nel corso dei nostri viaggi di solidarietà in Palestina ci ha fornito contributi preziosi per la comprensione del progetto coloniale sionista.
Lo spettro di un fiasco
Barak sogna il blitz krieg ma l’aria sta già cambiando
di Michel Warschawski*
Bisogna dirlo e ripeterlo: quella che si svolge nella Striscia di Gaza non è una guerra, ma una carneficina compiuta dalla terza forza aerea al mondo contro una popolazione indifesa.
Bisogna dirlo e ripeterlo: la carneficina di Gaza non è una reazione «sproporzionata» ai razzi lanciati dai militanti della Jihad Islamica e altri gruppuscoli palestinesi sulle località israeliane vicine alla Striscia di Gaza, ma un’azione premeditata e preparata da molto tempo, come d’altronde riconosce la maggior parte dei commentatori israeliani.
Bisogna dirlo e ripeterlo: quei razzi non sono, come vogliono far credere certi diplomatici europei, «provocazioni ingiustificabili», ma risposte, peraltro abbastanza insignificanti, a un embargo selvaggio imposto da Israele, da un anno e mezzo, a un milione e mezzo di residenti della Striscia di Gaza, donne, bambini, e vecchi compresi, con la complicità criminale degli Stati uniti ma anche dell’Europa.
Bisogna dirlo e ripeterlo: non assistiamo, come si cerca di spiegare a tutti quelli che hanno la memoria corta o selettiva, a un atto di autodifesa a lungo procrastinato di fronte a un’aggressione palestinese assolutamente ingiustificabile. Ehud Barak lo confessa tranquillamente, sono mesi che l’esercito israeliano si prepara a colpire «l’entità terrorista» denominata Gaza. Come spiegava opportunamente Richard Falk, relatore speciale dell’Onu per i diritti umani nei territori occupati, quando si definisce «entità terrorista» una zona popolata da un milione e mezzo di esseri umani si entra in una logica genocida.
L’aggressione israeliana a Gaza, come l’attacco al Libano nel 2006, s’inscrive nella guerra globale permanente e preventiva degli strateghi neoconservatori in forza a Tel Aviv, e per qualche mese ancora, alla Casa Bianca. Come il significato indica, questa strategia è preventiva, non ha bisogno di pretesti immediati e tangibili: l’occidente democratico sarebbe minacciato da un nemico globale, che prima è stato definito «terrorismo internazionale», poi «terrorismo islamico» per diventare infine semplicemente l’Islam. Lo «scontro di civiltà» di Huntington non è una descrizione della realtà politica internazionale, ma il quadro ideologico della strategia offensiva dei neoconservatori americani e israeliani, per com’è stata elaborata di comune accordo dalla seconda metà degli anni ’80. In questa strategia di guerra, la minaccia islamica ha sostituito quello che è stato il pericolo comunista durante la guerra fredda: un nemico globale che giustifica una guerra globale.
Se il bombardamento criminale di Gaza gode in Israele di un sostegno consensuale, se la sinistra istituzionale, e in particolare il partito Meretz, si è unita al coro di guerra diretto da Ehud Barak, è appunto perché condivide questa visione del mondo che fa dell’Islam una minaccia esistenziale che bisogna imperativamente neutralizzare prima che sia troppo tardi.
All’orrore per questo crimine bisogna aggiungere quello per l’abiezione delle sue motivazioni contingenti: in meno di due mesi si svolgeranno in Israele le elezioni generali, e le vittime palestinesi sono anche argomenti elettorali. I martiri dell’attacco israeliano su Gaza sono oggetto di una gara mediatica tra Ehud Barak, Tsipi Livni et Ehud Olmert, fra chi sarà il più determinato nella brutalità. Il criminale di guerra che dirige il Partito laburista, o piuttosto quel che ne resta, si vantava ieri mattina di aver guadagnato quattro punti nei sondaggi.
Oltre al cinismo senza limiti di barattare 350 vittime palestinesi innocenti contro qualche decina di migliaia di voti, Barak mostra, una volta di più, la sua miopia politica: nel crescendo di bestialità, e malgrado tutti gli sforzi, non riuscirà mai a superare Benjamin Netanyahu, gli elettori preferiscono sempre l’originale alla copia. Tantopiù che il guerrafondaio si trova oggi di fronte allo stesso problema di colui che ha trasformato la guerra del Libano nel fiasco israeliano, un problema ben noto a tutti quelli che hanno iniziato le guerre coloniali: come porvi termine?
«Ci fermeremo solo dopo aver finito il lavoro», egli dichiara con l’arroganza dei capetti. Ma quando sarà finito «il lavoro»? Quando la popolazione di Gaza e di Cisgiordania accetterà di capitolare di fronte ai sogni coloniali dei dirigenti israeliani e limitare le sue aspirazioni nazionali a uno «Stato palestinese» ridotto a una decina di riserve isolate le une dalle altre e circondate da un muro?
Se tale è il «lavoro» che Barak spera di poter realizzare, il popolo israeliano deve allora essere pronto a una guerra che non solo sarà estremamente lunga ma anche interminabile. E se lo Stato ebraico è ben attrezzato per le guerre-lampo (blitz krieg, in tedesco), soprattutto quando queste sono condotte dall’aviazione, entra rapidamente in crisi quando si tratta di una prova di resistenza in cui i palestinesi, come tutti gli altri popoli vittime dell’oppressione coloniale, sono maestri.
Questo spiega perché meno di una settimana dopo il suo inizio, e malgrado le dichiarazioni trionfalistiche dei politici e dei militari, l’aria in Israele sta già cominciando a cambiare. Sabato scorso, qualche ora dopo il bombardamento di Gaza, eravamo poco più di mille persone a manifestare, spontaneamente, la nostra rabbia e la nostra vergogna. Ma saremo molti di più il prossimo sabato sera a esigere sanzioni internazionali contro Israele, a esigere che Ehud Barak e soci siano tradotti davanti a una corte di giustizia internazionale. Ne sono convinto.
*Portavoce del Centro d’Informazione Alternativa a Gerusalemme, autore di «Israele-Palestina, la sfida binazionale» (Edizioni Sapere 2000)