Se questa è una guerra

di Alberto Signorini*

Nessuno definirebbe “incontro di boxe” il pestaggio di un invalido da parte di un bullo. Eppure i media chiamano “guerra” la carneficina operata dalla quinta potenza militare nei confronti di una popolazione già ridotta allo stremo da due anni di embargo e imprigionata nel più grande carcere a cielo aperto del pianeta.

Una fetta di terra lunga 41 km e larga da 6 a 12 km, in cui vivono 1,5 milioni di esseri umani (4.000 abitanti per kmq), per la metà donne e bambini, bombardati senza tregua da due settimane e impossibilitati a fuggire perché interamente circondati da un esercito che ne ha chiuso i confini terrestri e ne controlla le coste e lo spazio aereo. Guerra, o gelido esperimento di laboratorio in corpore vili? Da qui, dallo stravolgimento della lingua, comincia il rovesciamento della realtà fattuale. E basta considerare la sproporzione delle cifre (mentre scriviamo: quasi 700 morti palestinesi per 10 israeliani) per rendersi conto che ormai non siamo più all’occhio per occhio, ma al 100 occhi per 1 dente.

Chi sia stanco delle menzogne propalate dalle marionette tv al servizio della propaganda sionista, e dai giornali “moderati” pilatescamente equidistanti fra carnefici e vittime, deve però conoscere l’esistenza di voci ebraiche che hanno conservato il rispetto per la decenza umana. Il loro esempio può forse evitare che la sacrosanta indignazione internazionale per la barbarie israeliana degeneri in odio antiebraico. Anche perché mai come oggi si assiste a una frattura insanabile fra le due sempiterne anime del giudaismo: quella profetico-universalistica, per la quale il male subìto in passato non giustifica il male inflitto oggi ad altre vittime, perché mai più vale per tutti, circoncisi e incirconcisi; e quella esclusivistico-tribale, per la quale il concetto di elezione conferisce una sorta di superiorità razziale rispetto ai goyim, i non ebrei, fino a istituire una doppia morale che consente a Israele di essere sempre e comunque Über Alles, al di sopra delle leggi internazionali.

La scuola dell’ONU bombardata il giorno dell’Epifania, che ha fatto 42 morti, è solo un esempio di “danno collaterale”. E Ran HaCohen – docente di Letteratura comparata all’Università di Tel Aviv – smaschera l’ipocrisia delle versioni israeliane sull’“accidentalità” delle vittime civili: «Quando la guerra è cominciata, il generale di divisione della riserva Giora Island, già capo del Consiglio Nazionale di Sicurezza, ha proferito queste parole, senz’ombra di vergogna: “Israele non dovrebbe limitare i suoi attacchi alle attrezzature militari, ma deve colpire anche dei bersagli civili. I danni alla popolazione civile dovrebbero essere massimizzati, perché peggiore è la crisi umanitaria e meglio e più rapidamente si conclude l’operazione”» (www.antiwar.com, 30/12/2008).

E a proposito degli aiuti in medicine e generi alimentari a cui Israele concede il transito “umanitario” per Gaza, Neve Gordon – docente all’università israeliana Ben-Gurion – constata: «Non diversamente da chi alleva in fattoria animali da macello, il governo israeliano sostiene di assistere i palestinesi, e quindi può avere mano libera ad attaccarli… È come se i signori della guerra si fossero resi conto che siccome i conflitti attuali si svolgono raramente fra due eserciti, e si combattono piuttosto in mezzo alle popolazioni civili, è necessaria una nuova teoria della guerra giusta. Per cui i signori della guerra chiamano a raccolta filosofi e intellettuali affinché elaborino una teoria morale per le guerre post-moderne; e oggi, mentre Gaza viene distrutta, si può vedere molto chiaramente come la teoria divenga prassi» (The Nation, 5/1/09).

Il 30/12 scorso – mentre l’aviazione sionista bombardava per il quarto giorno consecutivo Gaza – l’agenzia israeliana Arutz Sheva annunciava che quattro prominenti rabbini avevano emanato una norma etico-religiosa che recita testualmente: «Quando una popolazione che vive vicino a una città ebraica lancia bombe contro questa città [si noti bene: a lanciare bombe sarebbe “una popolazione”] con l’intento di uccidere e distruggere vite ebraiche, è permesso – secondo la legge ebraica – lanciare granate e bombe contro i luoghi di provenienza, anche se sono abitati da civili». I rabbini Yaakov Yosef, Dov Lior, Shalom Dov Wolpe e Meir Mazuz hanno stabilito che prima «dev’essere lanciato un avvertimento di alcune ore ai civili affinché evacuino le aree che stanno per essere bombardate e distrutte. Dopo l’avvertimento, la responsabilità delle vite dei residenti ricade su chi vive lì, o su chi ne impedisce la fuga». In alcuni casi, però, la risposta ai terroristi può essere immediata, anche se non c’è tempo per un avvertimento: «Bisogna preavvertire che qualunque luogo da cui vengano lanciati razzi è passibile di bombardamenti, affinché la popolazione locale impedisca ai terroristi di lanciare razzi in mezzo ad essa» (www.israelnationalnews.com, 30/12/2008). In effetti, gli abitanti ricevono volantini e telefonate che invitano a “lasciare le case che stanno per essere attaccate”. Ma dove possono andare, se tutti i confini di terra sono sigillati? Alzarsi in volo come angeli? O forse buttarsi in mare?

Shock and awe: come gli USA in Iraq nel 2003, anche Israele a Gaza colpisce e terrorizza, ma non riesce più a coprire i propri crimini perché i primi a denunciarli sono spesso proprio degli ebrei israeliani come Michael Warshawski, figlio di una famiglia di rabbini francesi, militante antisionista condannato per obiezione di coscienza ai tempi di Sabra e Chatila, e fondatore del Centro d’Informazione Alternativa di Gerusalemme, che ha scritto: «La sanguinosa repressione di una popolazione è mascherata sotto il nome di “guerra contro il terrorismo”. Non sono più donne e bambini che vengono dilaniati dalle bombe a frammentazione; non sono più intere famiglie che lo stato d’assedio condanna alla miseria e talvolta alla morte per fame: sono dei terroristi. Anche il concetto di guerra ha la sua importanza: lascia intendere che di fronte alla quinta potenza militare del mondo non c’è una popolazione civile, ma un’altra forza militare, e che ciò giustifica l’uso di carriarmati, elicotteri da combattimento e aerei da caccia» (A precipizio: la crisi della societa israeliana, Bollati-Boringhieri, p. 13). E pronosticando che prima o poi i vertici politico-militari sionisti finiranno sotto processo da un tribunale internazionale per crimini di guerra, Warshawski denuncia la complicità degli scrittori più famosi d’Israele, gli pseudo-pacifisti che hanno appoggiato l’aggressione al Libano del 2006 e, oggi, quella contro Gaza, eppure riveriti come “colombe” ai festival della cultura, nonché graditi ospiti dei nostri media: «Un’altra categoria di criminali potrebbe sfuggire ai tribunali. Questi non si sporcano le mani del sangue dei civili, ma forniscono le giustificazioni intellettuali e pseudomorali agli assassini. Formano l’unità di propaganda del governo e dell’esercito di assassini… Amos Oz e Avraham Yehoshua sono gli esempi tipici di simili miserabili intellettuali… A ogni guerra si offrono volontari nello sforzo militare israeliano, senza neanche l’arruolamento ufficiale. Il loro primo compito è fornire giustificazioni all’offensiva israeliana; poi, in un secondo tempo, piangono la verginità perduta e accusano il nemico di averci costretti a comportarci brutalmente». Sono gli stessi che ripetono la menzogna echeggiata fino alla nausea dai nostri tg: “Hamas ha rotto la tregua”, quando la CNN e ben tre giornalisti israeliani di Haaretz – Gideon Levy, Amira Hass e Zvi Bar’el – hanno riconosciuto che la responsabilità primaria è di Israele, che il 14/11 ha bombardato un tunnel di collegamento con l’Egitto uccidendo 5 uomini di Hamas (www.youtube.com/watch?v=KntmpoRXFX4&eurl <http://www.youtube.com/watch?v=KntmpoRXFX4&eurl> ).

Secondo il Times di Londra (5/1/09) l’esercito israeliano sta utilizzando anche le bombe al fosforo; notizia confermata da un giornalista ebreo americano (http://maxblumenthal.com, 1/5/09). E il sito Prison Planet.com (5/1/09) ipotizza perfino l’uso di proiettili all’uranio impoverito, i cui effetti – come si è già appurato in Kossovo e in Iraq – sono letteralmente mostruosi. Di fronte a tanta ferocia, Sara Roy – ricercatrice ebrea di Harvard – si chiede: «Perché siamo stati incapaci di riconoscere la fondamentale umanità dei palestinesi e di includerli nei nostri legami morali? Al contrario, noi respingiamo ogni legame umano con il popolo che stiamo opprimendo. In definitiva, il nostro scopo è tribalizzare il dolore, restringendo l’ambito della sofferenza umana solo a noi stessi… Gli intellettuali ebrei si oppongono al razzismo, alla repressione e all’ingiustizia quasi ovunque nel mondo, eppure è ancora inaccettabile – per alcuni, in effetti, è un atto di eresia – opporsi quando l’oppressore è Israele. Questo doppio standard deve finire. Quelle d’Israele sono vittorie di Pirro, rivelano i limiti del potere israeliano e le nostre stesse limitazioni come popolo: la nostra incapacità di vivere un’esistenza senza barriere»   (The Christian Science Monitor, 2/1/2009).

Ma in fondo non c’è nulla di nuovo, e Gaza sta subendo un destino preannunciato da tempo. Oltre un quarto di secolo fa, il capo di stato maggiore israeliano Raphael Eitan non esitava infatti a dire: «Gli arabi capiscono solo la forza. Noi useremo la forza senza limiti finché i palestinesi non verranno da noi strisciando» (Yedioth Ahronot, 13/4/1983). E ancora: «Quando avremo colonizzato il paese, agli arabi non resterà che darsi alla fuga come scarafaggi drogati in una bottiglia» (New York Times, 14/4/1983). Missione compiuta. Ecco perché Victoria Buch, accademica israeliana che si batte contro l’occupazione, sente il dovere di scrivere: «Sono venuta in Israele 40 anni fa, e mi ci sono voluti molti anni per capire che l’esistenza del mio Paese, così com’è oggi, è davvero fondata sulla pulizia etnica ai danni dei palestinesi. Il progetto risale a molti anni fa, e le sue origini sono rintracciabili nella teoria erronea del movimento sionista, che volle stabilire uno Stato nazionale ebraico in un luogo già abitato da un’altra nazione. In queste condizioni, uno ha per lo meno il dovere morale d’impegnarsi per uno Stato bi-nazionale, dato che uno Stato mono-nazionale implica, quasi per definizione, la pulizia etnica della popolazione preesistente» (www.counterpunch.org, 6/1/09). È il piccolo particolare che i sicari della disinformazione si guardano bene dal ricordare quando parlano, per esempio, delle due cittadine israeliane di frontiera bersagliate dai razzi Qassam di Hamas. Sderot e Ashkelon sorgono infatti sulle rovine di due villaggi palestinesi evacuati e distrutti dai sionisti nel ’48. Sderot è costruita sui resti di Najd, i cui 620 abitanti furono espulsi il 13/5/48, ossia il giorno prima che venisse proclamata la nascita dello Stato d’Israele. E Ashkelon è il nome ebraico del villaggio arabo di Al-Jura, un tempo rinomata località di villeggiatura. In totale, dal ’48 al ’51, furono circa 500 i villaggi palestinesi sottoposti alla spietata pulizia etnica che sfociò nell’espulsione di 800.000 palestinesi dalla loro patria storica.

Ex dirigente laburista che ha guidato l’Agenzia Ebraica e il Movimento Sionista Mondiale, presidente della Knesset dal ’99 al 2003, Avraham Burg è sempre stato ai vertici dell’establishment sionista; ebbene, questa eminente personalità israeliana ha il coraggio di porre una domanda apparentemente paradossale: «Il popolo ebraico può sopravvivere senza un nemico esterno? Dateci la guerra, dateci i pogrom, dateci una catastrofe, e sapremo cosa fare; dateci la pace e la sicurezza, e siamo perduti». Da qui il richiamo compulsivo alla Shoah, che nutre la paranoia interna e zittisce ogni critica esterna con il ricatto dell’antisemitismo: «Ogni volta che un capo di Stato comincia una visita in Israele – rileva Burg – lo si obbliga a incontrare la realtà israeliana con la visita a Yad Vashem (il sacrario gerosolimitano dell’Olocausto)… È un ricatto emotivo, che dice alla gente: ecco cosa ci avete fatto, dunque tacete». (www.time.com <http://www.time.com/> , 1/1/2009). Ma per quanto tempo si potrà ancora speculare sul capitale di sofferenza accumulato 60 anni fa?

 

* Alberto Signorini è il caporedattore del giornale toscano “Prima Pagina”