Riceviamo, e pubblichiamo, il punto di vista di Nadia Ferro sull’annoso e attualissimo dibattito “pacifismo sì, pacifismo no”, auspicando di ricevere altri interventi sul tema.

 

L’intrinseca debolezza e le contraddizioni del pacifismo

Coloro che si auto-definiscono pacifisti in genere sentono il bisogno di precisare di essere pacifisti “attivi”. Segno, questo, che anch’essi percepiscono l’intrinseca debolezza della loro posizione.
Che un mondo pacifico, in cui potessero convivere e prosperare nel reciproco rispetto tutti i popoli sarebbe infinitamente preferibile al mondo in cui viviamo, dominato dalle guerre e dallo sfruttamento di uomini e risorse a vantaggio di pochi è una ovvietà.
Qui non si tratta di propugnare la guerra per la guerra, si tratta semplicemente di vedere se è possibile fermare e battere gli aggressori con pratiche non violente.

 

Prima di tutto occorre precisare che queste forme di lotta possono essere attuate solo da coloro che non sono attori dei conflitti.
Pensiamo soltanto all’attuale tragedia di Gaza. Sarebbe palesemente insensato aspettarsi che il legittimo governo di Hamas potesse fermare l’aggressione israeliana con metodi pacifici, senza quindi impegnarsi in una resistenza armata.
Il raggio d’azione dei pacifisti si restringe solo al “nostro” mondo, abitato da quei fortunati che non vivono la guerra sulla propria pelle.

 

A questo punto prendiamo in esame i capisaldi delle pratiche non violente.
SANZIONI e BOICOTTAGGIO.

SANZIONI – Che le sanzioni siano una pratica non violenta è assai discutibile.
Esse rappresentato infatti una punizione collettiva che colpisce indiscriminatamente un intero popolo inclusi lattanti e i novantenni, passando attraverso la pur esigua schiera degli oppositori interni, che pure affermiamo di considerare amici e compagni di lotta politica.
Di più: ad essere colpiti sono soprattutto gli ultimi della scala sociale. Nel caso di Israele, soprattutto sarebbero penalizzati i lavoratori palestinesi – braccianti, giardinieri, uomini di fatica –  che ogni giorno, superando estenuanti e umilianti controlli ai check – points, vanno a lavorare in Israele. Sarebbero i primi a perdere il lavoro, le prime vittime di un eventuale embargo.
Il principio su cui si fonda il concetto stesso di sanzione, in quanto punizione collettiva, è un’aberrazione.

BOICOTTAGGIO – E’ noto a tutti che l’economia di Israele è tenuta in piedi dagli “aiuti degli amici” e in questo caso non si tratta di aiuti umanitari,come quelli che persone di buona volontà cercano di far pervenire ai palestinesi.
Gli Stati Uniti e la vasta e ricca diaspora ebraica finanziano senza risparmio l’apparato economico-militare di Israele.
In quanto alleati degli USA, gli stati europei non hanno l’autonomia necessaria né la volontà di mettere in discussione accordi e impegni con lo stato ebraico.
Resta la possibilità di non acquistare prodotti provenienti da Israele: dai pompelmi ai frigoriferi, purché a questi atti non si dia più importanza di quella che meritano.
 

Cordiali saluti

Nadia Ferro