A proposito dello scritto di A. Baracca

di Giulio Bonali

Accolgo l’ invito dei compagni che hanno proposto sul sito l’ articolo di Angelo Baracca su scienza, tecnologia ed etica (e politica) a discuterne (mi scuso per la lunghezza delle considerazioni che mi ha stimolato a fare; per cercare di renderle meno pesanti ho cercato di suddividerle per argomenti e di titolarli; avverto che sono alquanto “vetero”, ma sono comunque pronto ad accogliere volentieri concezioni più “nuove”, purchè mi si convinca della loro validità).

 

Necessità di un severo controllo democratico della ricerca

Trovo naturalmente condivisibile gran parte di quanto affermato in questo scritto, e soprattutto non ho motivo di dissentire sulle conseguenze pratiche che Baracca trae dalle sue considerazioni teoriche, in particolare sulla necessità pressante di considerare la ricerca scientifica e tecnologica in un quadro ben più vasto, che sappia vedere ben più lontano, rispetto all’ angusto orizzonte ed alle ristrette competenze ultraspecialistiche di chi la pratica professionalmente; e cioè di subordinarla ai reali interessi complessivi dell’ umanità intera presente e potenzialmente futura anziché a quelli, cui è di fatto da gran tempo pesantemente asservita, da un lato del grande capitale monopolistico transnazionale al potere e dall’ altro lato della corporazione degli scienziati e ricercatori (peraltro fra di loro strettamente intrecciate e in parte di fatto coincidenti, oltre che negli interessi perseguiti, talora anche nelle persone stesse appartenenti in qualche caso a pieno titolo ad entrambi questi gruppi sociali).

Stante il livello raggiunto ormai da parecchio tempo dallo sviluppo delle forze produttive in generale e dalla conoscenza scientifica e dalle sue applicazioni tecniche in particolare, le conseguenze delle scelte e delle decisioni dei ricercatori, contrariamente e quelle della gran parte degli altri gruppi professionali attivi nell’ odierna produzione sociale, presentano la importantissima peculiarità di avere ripercussioni enormi, sia nel bene che nel male, sulle condizioni di vita di tutta l’ umanità e sulla possibilità della sua stessa sopravvivenza. Ne consegue che la questione della “libertà della ricerca scientifica” si pone oggi in termini qualitativamente diversi che ai tempi per esempio di Galileo, e cioè non più soltanto né principalmente come necessità di superare e vincere le inique, dannose ed antidemocratiche pretese di subordinarla a vecchi e superati dogmi filosofici o religiosi da parte del “potere costituito”; al contrario è del tutto evidente che oggi non è più minimamente ammissibile (se mai lo è stata in passato) una concezione della libertà della ricerca scientifica stessa che si pretenda come assolutamente incondizionata (mentre é di fatto pesantemente condizionata dallo stesso potere costituito).

L’ opera degli scienziati oggi (e da gran tempo) non è più, come la si poteva considerare “con buona approssimazione” ai tempi di Newton e forse ancora di Maxwell, un problema essenzialmente loro, con ricadute sociali dirette e indirette limitate ed almeno in larga misura controllabili, correggibili, facilmente rimediabili nei loro aspetti o conseguenze negativi, negli “effetti collaterali” dannosi delle loro possibili applicazioni pratiche. Il lavoro dei ricercatori interessa, coinvolge, interferisce oggi pesantemente ed in molti casi irreversibilmente con le condizioni di vita e con il destino di tutta l’ umanità, e dunque non è assolutamente più accettabile che le decisioni che lo regolano e le scelte ad esso relative siano riservate ai ricercatori stessi e condizionate dalle loro ristrette competenze ultraspecialistiche (essendo essi di fatto generalmente guidati da motivazioni piuttosto anguste, quali la ricerca di fama, potere, ricchezza individuale o per piccoli gruppi, rispetto alle quali l’ ampliamento delle conoscenze e delle potenzialità umane ha spesso una funzione meramente strumentale).

L’ “ultima parola” sulle loro scelte operative  (non teoriche pure) e sull’ uso delle risorse da essi utilizzate (su quali filoni di ricerca finanziare e in che misura, non sulle ipotesi teoriche da elaborare e sottoporre a verifica nei campi che si scelga di indagare) deve in linea di principio essere riservata democraticamente all’ umanità tutta (presente; e con un occhio attento anche agli interessi e le esigenze dell’ umanità potenzialmente futura) che ne subisce inevitabilmente le ingenti conseguenze (ed è ovvio per noi marxisti che questa che è anche un’ ineludibile esigenza etica di equità e di giustizia non può realizzarsi per il semplice fatto di essere facilmente riconoscibile come corretta, valida, doverosa da chiunque, ma può affermarsi unicamente attraverso durissime lotte di classe contro tutti i settori sociali privilegiati, corporazione degli scienziati compresa).

 

Necessità di un atteggiamento conseguentemente razionalistico

Ciò su cui dissento dallo scritto di Angelo Baracca sono taluni aspetti della sua impostazione teorica che a me sembrano eccessivamente sbilanciati verso un certo irrazionalismo, troppo accondiscendenti verso un certo atteggiamento antiscientifico largamente presente fra quanti oggi lottano per la tutela dell’ ambiente naturale e della vita umana e per un progresso autentico (essenzialmente qualitativo, piuttosto che meramente quantitativo) dell’ umanità stessa. Atteggiamento irrazionalistico e antiscientifico che da vecchio marxista non condivido e ritengo anzi pericoloso, per lo meno potenzialmente dannoso ai fini di una conduzione positiva ed efficace delle dure lotte necessarie per sottomettere la scienza agli interessi dell’ umanità intera (di fatto coincidenti con quelli della stragrande maggioranza oppressa e sfruttata di essa e del tutto inconciliabili con quelli delle infime minoranze privilegiate al potere).

Non so quale senso potrebbe essere attribuito al concetto -criticato da Baracca- di “superiorità della scienza” in quanto forma di conoscenza rispetto ad altre forme come la filosofia e l’ arte (e mentre Baracca afferma -in maniera per me ambigua o per lo meno reticente- che la scienza sarebbe “una forma di conoscenza fra le tante” -sottolineatura sua- da parte mia sostengo invece senza mezzi termini che non sono affatto forme di conoscenza, ad esempio, l’ esoterismo, il misticismo, l’ ermetismo, l’ “alchimia”, l’ “animismo”, il pampsichismo o l’ antropomorfismo, una certa concezione “olistica” della natura e magari l’ astrologia ed altre forme di irrazionalismo che molti considerano come validi “saperi” -al plurale!- alternativi o addirittura preferibili rispetto alla scienza: per me queste non sono che buie forme di superstizione tendenzialmente dannose per l’ umanità).

Sono certo invece che la scienza sia l’ unica forma di conoscenza oggettiva, per quanto insuperabilmente limitata e relativa (personalmente l’  ho imparato da “Materialismo ed empiriocriticismo”), come credo che una sana filosofia razionalistica confermi, evidenziandone al contempo e criticandone razionalmente i limiti, il senso in cui può essere intesa come tale, le condizioni di verità (e in questo senso la filosofia può forse essere considerata “superire”; o forse piuttosto -ed al contrario- più “fondamentale” o “basilare” della scienza stessa).

L’ arte è invece qualche cosa di molto più complesso e pleiomorfo che una semplice forma di conoscenza; certo essa implica anche elementi di conoscenza (e soprattutto di comunicazione di conoscenza) per lo più di tipo intuitivo e immediato, e caratterizzati inevitabilmente da ineliminabili, importanti elementi di soggettivismo: può talora essere molto efficacemente illuminante, ma non presenta certamente quelle “garanzie di oggettività” che sono proprie solo  della scienza. Ma l’ arte è anche e soprattutto molte altre cose, difficilmente definibili e sintetizzabili; per me è principalmente puro godimento estetico per lo meno in larga misura fine a se stesso).

 

Storicità, condizionamenti sociali ed oggettività della scienza

Sul fatto che la scienza sia un prodotto storico, che i suoi contenuti e metodi si siano modificati nel tempo, che sia in ultima analisi condizionata nel suo nascere e nel suo svilupparsi dai rapporti sociali di produzione non posso, da marxista, non essere pienamente d’ accordo.

Purché si precisi che tali condizionamenti riguardano i tempi della conoscenza scientifica e del suo progresso (che ne possono essere variamente accelerati, oppure ritardati a seconda dei casi), il fatto che essa proceda in certi campi e direzioni di ricerca piuttosto che in certi altri (per esempio il fatto che in un determinato contesto storico si sviluppi maggiormente la biologia, in un altro la fisica, in un altro ancora la chimica, o determinate loro branche), oltre che ovviamente le sue applicazioni tecniche pratiche. Ma essi non riguardano assolutamente i suoi contenuti “positivi” (e oggettivi) di conoscenza (nel senso che tutt’ al più possono favorire, e non di rado di fatto favoriscono nelle fasi di conservazione o peggio di reazione politica e sociale, il prevalere di teorie profondamente errate e superate; il cui riconoscimento come tali prima o poi inevitabile di fronte alla verifica empirica ed il sostituirsi ad esse di concezioni e paradigmi maggiormente adeguati all’ oggettività del mondo naturale indagato dalla scienza è bensì potentemente condizionato “dall’ esterno” -favorevolmente oppure ostativamente- dal contesto sociale, senza però che ne siano affatto determinate le intrinseche caratteristiche teoriche).

Le verità scientifiche si impongono o meno dipendentemente dai contesti sociali, ma non sono per nulla quelle che sono dipendentemente dai contesti sociali, bensì dipendentemente dal rapporto dialettico fra soggettività umana ed oggettività naturale dei “contenuti reali” della ricerca; il contesto sociale fa sì che una teoria scientifica venga universalmente riconosciuta come vera o meno, che lo sia prima o che lo sia poi, ma non ne detta i “contenuti” come Dio avrebbe dettato il Corano a Maometto, non la determina in quanto tale.

E non capisco che significato possa avere il concetto di “non neutralità dei contenuti stessi della conoscenza” (A. B.), mentre mi é ben chiaro che cosa sia l’ oggettività della conoscenza scientifica e dei suoi contenuti, il che non mi impedisce certo di rendermi conto del fatto che generalmente la loro utilizzazione pratica non è affatto neutrale.

 

Scienza “pura” e tecnica, capitalismo e socialismo

La tecnica è con tutta evidenza inestricabilmente intrecciata da una parte con la conoscenza teorica “pura” propria della scienza, e dall’ altra parte con l’ economia, i rapporti di produzione, la lotta di classe.
Di essa si può forse dire che oggi sembra apparentemente “porre un diaframma fra uomo e natura” (A. B.), o che sembra eludere le leggi naturali, ma in realtà ritengo che siano sempre validissime le parole del vecchio Engels:

Ad ogni passo ci vien ricordato che noi non dominiamo la natura come un conquistatore domina un popolo straniero soggiogato, che non la dominiamo come chi è estraneo ad essa, ma che noi le apparteniamo con carne e sangue e cervello e viviamo nel suo grembo: tutto il nostro dominio sulla natura consiste nella capacità, che ci eleva al di sopra delle altre creature, di conoscere le sue leggi e di impiegarle nel modo più appropriato”.

Il “dominio umano della natura” attraverso la tecnica non è e non può essere altro che adeguamento dell’ agire umano alle leggi oggettive di natura,  “applicazione” (nell’ imprescindibile, rigoroso rispetto) di esse a fini coscienti, purché realistici.
E’ questo il punto a mio avviso più importante della questione.

La scienza è oggi di fatto pesantemente condizionata dai rapporti capitalistici di produzione e per così dire largamente “inquinata” dall’ ideologia scientista-borghese ad essi connessa, che tende a farla (fra-) intendere essenzialmente come lo strumento pratico onnipotente della trasformazione e del dominio preteso illimitato della natura. Ma non è questa un’ ineludibile caratteristica intrinseca della scienza: la scienza è anche amore di conoscenza fine a se stesso (letteralmente “filosofia”: non per niente per moltissimi secoli la scienza naturale o “fisica” è stata considerata parte integrante e fondamentale della filosofia).

E ritengo molto importante evidenziare il fatto che questo ignorare i limiti della scienza e della tecnica (e delle risorse naturali realisticamente utilizzabili), che è proprio dell’ ordinamento sociale capitalistico, è espressione non affatto di un preteso “eccesso di razionalismo”, bensì di un grave difetto di razionalismo, di pesanti elementi di irrazionalismo che oggettivamente il capitalismo non può assolutamente superare, e che solo in una società non dominata da interessi sociali particolaristici (di classe) ma invece universalistici (solo in una società non divisa in classi antagonistiche) può oggettivamente affermarsi pienamente un razionalismo integrale.

In generale l’ ignoranza dei limiti è caratteristica propria di tutti gli irrazionalismi, mentre il razionalismo è anche e soprattutto critica di se stesso, e dunque per lo meno aspirazione ad aver consapevolezza dei propri limiti. E non dipende a mio avviso dal riduzionismo (da un malinteso riduzionismo) l’ ignoranza dei limiti degli strumenti della tecnica e delle risorse naturali che la conoscenza scientifica consente di utilizzare, o l’ ignoranza degli effetti collaterali del loro utilizzo, bensì da insuperabili, gravi scorie irrazionalistiche che sono intrinseche all’ ordinamento sociale capitalistico dominante.

Agire come se le risorse naturali realisticamente (e non: fantascientificamente) disponibili all’ uomo fossero infinite, che è precisamente ciò che i rapporti di produzione capitalistici caratterizzati dalla concorrenza sregolata e “anarchica” fra le singole unità produttive alla ricerca del massimo profitto ad ogni costo e a breve termine da parte di ciascuna di esse ineluttabilmente impongono, è con tutta evidenza un atteggiamento irrazionalistico.

Invece calcolare oculatamente i limiti complessivi delle risorse naturali (per quanto sia possibile fare) ed utilizzarle con avvedutezza, tenendo anche conto con grande prudenza delle incertezze e dei limiti insuperabili di ogni conoscenza e calcolo scientifico di fatto realizzabile (specialmente in una materia intrinsecamente oltremodo complessa come quella relativa ai cicli naturali dai quali dipende la salvaguardia della vita umana), dunque “tenendosi ben al di qua” dei più pessimistici limiti ragionevolmente ipotizzabili, è un‘ atteggiamento conseguentemente razionalistico.
E la socializzazione dei mezzi di produzione ne è un’ ineludibile conditio sine qua non.