A partire dallo scorso autunno, anche in vista del cambio della guardia alla casa Bianca, si sono intensificate le preoccupazioni imperialistiche per la mancata normalizzazione dell’Afghanistan. Da due anni a questa parte infatti  la Resistenza afgana e soprattutto la sua principale componente, cioè i talebani, ha progressivamente ripreso il controllo almeno di metà del territorio del paese. Alla faccia dei roboanti proclami di vittoria che seguirono, alla fine del 2001, l’invasione del paese da parte di Enduring freedom, la caduta del governo “dei mullah” e la successiva occupazione in combutta con la NATO, che guida la più ampia missione ISAF.

I recentissimi attacchi portati nel cuore politico – amministrativo di Kabul proprio alla vigilia dell’arrivo di Richard Holbrooke, inviato speciale di Obama, confermano gli allarmi che a più riprese sono stati lanciati da qualificatissimi esponenti della diplomazia anglosassone e delle più alte gerarchie militari (“Afghanistan, non vinceremo”; “Stiamo perdendo l’Afghanistan”).

 

Non ci sono dubbi, la Resistenza ha fatto il suo lavoro, non solo militare ma anche politico: è infatti molto significativo che ormai capi di stato e di governo, diplomazie, vertici militari e media non parlano più di “terroristi” ma di “insorti”. Altrettanto significativo è che ormai tutti, Stati Uniti compresi che pur si stanno preparando ad un massiccio incremento della presenza militare, stiano cercando una soluzione politica, anche a costo di trattare con quelli che fino a poco tempo fa venivano bollati appunto come terroristi, o almeno con quelle componenti che si ritiene siano recuperabili per un compromesso dignitoso. Solo Berlusconi sembra non rendersene conto, garantendo al nuovo inquilino della Casa Bianca altri 800 soldati: in altri paesi europei un maggiore impegno resta subordinato alla definizione di una strategia più politica che militare. Il modello è la strategia seguita in Iraq, dove una parte della componente sunnita della Resistenza è stata coinvolta nella direzione politico – amministrativa del paese in chiave anti qaedista. Non che in Iraq tutto fili liscio: l’approvazione parlamentare dell’accordo per la permanenza delle truppe USA (SOFA) è avvenuta con una maggioranza risicata suscitando molte proteste nel paese e i risultati delle elezioni provinciali del 31 gennaio dimostrano che le forze politiche più smaccatamente filo occidentali non riescono a conseguire un’egemonia che dia garanzie di stabilità almeno a medio termine. Comunque per il momento la situazione è stata tamponata.

 

In Afghanistan però la situazione è diversa perché i talebani, pur non costituendo una forza politica unitaria e centralizzata, e più in generale la Resistenza, tengono duro su un punto: ogni compromesso con l’ormai traballante governo Karzai resta subordinato al ritiro delle forze di occupazione. A poco servono le promesse di investire risorse massicce per la ricostruzione del paese; a poco serve scaricare tutte le responsabilità sull’inettitudine e sulla corruzione del governo Karzai. Inetto per il semplice fatto che tutti sanno che è un governo fantoccio guidato da uno che è stato reimportato in Afghanistan (con tutto il suo guardaroba)  dagli americani; corrotto perché solo la corruzione gli consente di ammantarsi di un’apparenza di consenso.