In ricordo di Georges Labica
Con Georges Labica è morto uno dei principali filosofi marxisti del nostro tempo. Lo vogliamo ricordare con le parole di Sergio Manes e con un suo scritto sull’imperialismo, pubblicato su l’Ernesto all’inizio del 2002. Labica non era solo un teorico che aveva ben chiara la centralità della questione dell’imperialismo. Chiara era anche la sua posizione politica, come avemmo modo di apprezzare nel 2005 quando diede il suo appoggio alla battaglia per poter realizzare la conferenza internazionale a sostegno della Resistenza irachena.
Il lucidissimo testo che pubblichiamo è importante sia per il contenuto – la globalizzazione come il “nuovo imperialismo” di Lenin – sia perché è stato scritto nel momento della massima offensiva dei teorici della globalizzazione intesa come negazione del concetto di imperialismo.

Cari amici,
con immenso dolore vi do notizia della scomparsa di Georges Labica.
Georges non era soltanto uno degli autori più prestigiosi della casa editrice che dirigo: era un carissimo amico e uno splendido compagno, esempio di rigore teorico e di coerenza politica, sicuro riferimento – non soltanto in Francia – per le giovani generazioni di comunisti a cui la sua tenacia indicava la difficile strada della ripresa rivoluzionaria.
Su questo comune terreno di rigore e di coerenza si erano sviluppate stima, amicizia e collaborazione.
Georges lascia un vuoto enorme non soltanto nel nostro cuore, ma anche nel difficile cammino che, insieme con tanti altri compagni, stiamo faticosamente compiendo.
Alla sua compagna di vita, di ideali e di lotta giunga il mio fraterno abbraccio.

Sergio Manes
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Dall’imperialismo alla globalizzazione

di Georges Labica

La centralità della categoria leninista dell’imperialismo nella nuova fase della globalizzazione capitalistica

L’imperialismo, fase suprema del capitalismo. Saggio popolare, pubblicato in opuscolo nell’aprile 1917, venne scritto, come ricorda Lenin nella prefazione, a Zurigo nella primavera del 1916, in risposta ad un’esigenza pressante: intendere la natura della guerra mondiale in atto, per chiarirne le caratteristiche, ed in base a ciò determinare l’atteggiamento dei socialisti nei suoi confronti.
La guerra corrispondeva alla nuova fase cui era giunto il capitalismo: era imperialistica, e le sue condizioni oggettive rappresentavano “il preludio della rivoluzione socialista”. Questa era la tesi che Lenin sosteneva, al contempo economica – giacché asseriva esser l’imperialismo prodotto dello sviluppo del capitalismo (e non una “politica” ad esso contrapponibile) e tesi politica, perché denunziava, nell’allineamento alla borghesia, il socialsciovinismo che non solo aveva tradito il socialismo, ma si era mostrato incapace di capire come la guerra potesse offrire al proletariato un’occasione di vittoria. Quest’analisi escludeva ogni atteggiamento “neutrale”, anzi diagnosticava una “scissione del socialismo”, contrapponendosi alle tendenze riformistiche simboleggiate dalla figura eminente di Karl Kautsky, capo della socialdemocrazia tedesca ed esecutore testamentario di Engels, alla corrente rivoluzionaria, la cui intransigenza era rappresentata da Rosa Luxemburg, pur con alcuni errori. Sulla teoria dell’imperialismo s’imperniava quindi una complessa lotta teorica e strategica, che doveva culminare nella Rivoluzione d’Ottobre. Ovviamente non si sarebbe potuto analizzare concretamente sul piano storico la guerra in corso se tale valutazione non fosse stata fondata su di un completo svelamento della natura dell’imperialismo nelle sue implicazioni tanto economiche quanto politiche. Per primo, G. Lukacs nel 1924 affermerà: “La superiorità di Lenin consiste in questo: aver saputo – impresa teorica senza pari – connettere concretamente ed integralmente la teoria economica dell’imperialismo a tutte le questioni politiche attuali, e fare del contenuto dell’economia in questa nuova fase il filo conduttore di tutte le azioni concrete nel mondo così strutturato”.

Lenin ha compulsato tutti i dati relativi ai trust (elettricità, petrolio, carbone, ferro, cinematografo…), alle lotte concorrenziali per l’egemonia, alle banche, ai diversi imperialismi, al sistema coloniale.
Egli nota in particolare degli esempi di “parassitismo” – in India l’Inghilterra fa condurre per sé le guerre di conquista dagli indigeni – e ritiene che lo Stato dominante corrompa le classi inferiori per tenerle tranquille in modo che le “razze bianche” sbarazzandosi del lavoro più gravoso si comportino “come un’aristocrazia mondiale che sfrutta le “razze inferiori”, o che la “Cina può risvegliarsi”. Osserva che il capitale aveva realizzato la sua collaborazione internazionale ben prima dei lavoratori, che l’imperialismo utilizza la sua superiorità economica per impedire lo sviluppo dei paesi dominati e che le disuguaglianze tra i paesi sono un vantaggio per l’imperialismo.
Certo, tra gli autori marxisti presi in considerazione, Lenin riserva un trattamento particolare a Kautsky, preparando la “scaletta” dell’opuscolo polemico che poi gli dedicherà. Kautsky commette un duplice errore: da un lato, pensa che si possa contrapporre, alla rapina dei monopoli bancari ed all’opposizione coloniale, un «capitalismo sano, pacifico», altrimenti detto «riformismo piccolo-borghese favorevole ad un capitalismo pulito, levigato, moderato e ordinato», che cesserà dunque di vedere nell’imperialismo uno stadio economico – e d’altra parte, con la sua tesi sull’ultra-imperialismo, alimenta l’illusione di un futuro pacificato dall’unione dei capitalisti.
Il termine «suprema» del titolo non va inteso come «ultima» o «eterna», nel senso, per così dire, ontologico di una fase dopo la quale non vi sarebbe più alcun altro sviluppo – significa meramente «contemporanea» o «attuale» come precisò lo stesso Lenin più volte. Proponendo il suo titolo, egli scriveva «L’imperialismo fase suprema (contemporanea) del capitalismo», oppure «attuale (contemporanea, nel suo stadio contemporaneo)», riprendendo in realtà il sottotitolo del Capitalismo finanziario di R.Hilferding: fase più recente dello sviluppo del capitalismo. Vedremo che, in questo senso, la globalizzazione può anch’essa rientrare nella fase imperialista o rappresentarne una nuova espressione. Analogamente, Lenin parlava di «nuovo imperialismo» per caratterizzare il periodo che analizzava, riproducendo il brano di Hobson: «Il nuovo imperialismo si distingue dall’antico in primo luogo per il fatto di aver sostituito alle tendenze di un solo impero in espansione la teoria e la pratica degli imperi rivali, ciascuno dei quali è mosso dalle stesse aspirazioni di espansione politica e di profitto commerciale; in secondo luogo per il predominio degli interessi finanziari o relativi agli investimenti di capitali sugli interessi commerciali», a cui aggiungeva: «N.B.: differenza del nuovo imperialismo dal vecchio».
Quali i tratti principali dell’imperialismo secondo Lenin?

Il quadro più icastico è riprodotto ne L’imperialismo e la scissione del socialismo dell’ottobre del 1916, che può servire da guida per la lettura per altri scritti leniniani. Ecco l’essenziale:
1°) L’imperialismo è uno stadio storico particolare del capitalismo, lo stadio del capitalismo monopolistico, che si manifesta sotto cinque aspetti principali:
a) i cartelli, i sindacati (padronali) e i trust, che sono i prodotti della concentrazione della produzione,
b) le grandi banche,
c) l’accaparramento delle fonti delle materie prime da parte dei trust e dell’oligarchia finanziaria; N.B.: capitale finanziario = capitale industriale monopolistico + capitale bancario,
d) la spartizione economica del mondo tra i cartelli internazionali; N.B.: all’esportazione di merci, caratteristica del capitalismo non monopolistico subentra l’esportazione dei capitali,
e) la spartizione territoriale del mondo (colonie) è terminata.
Aggiungiamo che, storicamente, l’imperialismo consegue la propria formazione tra il 1898 ed il 1914 (guerra ispano-americana del 1898, anglo-boera del 1899-1922, russo-giapponese del 1904-1905, crisi economica europea del 1900).

2°) L’imperialismo è un capitalismo parassitario o in putrefazione.
N.B.: questi termini, diversi dai precedenti (cfr. punto 1°) in quanto sembrano esprimere un giudizio di valore, sono anch’essi economici, ma prospettano già una conseguenza politica dell’analisi.
E difatti:
a) la borghesia imperialista, malgrado lo sviluppo a volte rapido di singoli rami dell’industria è putrefacente perché mentre in precedenza (nel capitalismo della libera concorrenza) era repubblicana e democratica ora è diventata reazionaria,
b) si forma un enorme strato di rentiers che vivono col «taglio delle cedole»,
c) l’esportazione dei capitali è «parassitismo al quadrato»,
d) la reazione politica propria dell’imperialismo è la fonte della venalità, della corruzione e produce «truffe gigantesche come quelle del canale di Panama e di ogni genere»,
e) lo sfruttamento delle nazioni oppresse trasforma sempre più il mondo “civile” in un parassita che vive sul corpo di centinaia di milioni di uomini dei popoli non civili; – N.B. e ciò vale anche per uno strato privilegiato del proletariato europeo.

3°) L’imperialismo è un capitalismo agonizzante che apre la transizione verso il socialismo, perché la socializzazione del lavoro, è molto più accentuata che nel capitalismo pre-imperialista; l’imperialismo è un prodotto necessario per lo sviluppo del capitalismo. Si ha che:
Capitalismo = libera concorrenza = democrazia
Imperialismo = monopolismo = reazione.

Si noterà la stretta connessione dei due piani, economico (stato delle forze produttive) e politico (natura dei rapporti sociali) che nella fattispecie, evidenzia la contraddizione tra imperialismo e democrazia da cui Lenin trae la conseguenza che separare la politica estera da quella interna è procedimento antiscientifico, giacché in ogni cosa l’imperialismo consacra il trionfo della reazione.
Così Lenin specifica la natura dell’imperialismo che è come scriveva Henri Lefebvre, «nello stesso tempo una forma economica (elemento economico), una forma dell’attività della classe borghese (elemento sociale) ed una forma di Stato (elemento politico), in un insieme inseparabile».
Chiediamoci se le tesi leniniane siano ancora attuali, senza indulgere al vezzo di rimandare una risposta che il lettore avrà già intuito: la nostra mondializzazione o globalizzazione, che dir si voglia, altro non è che il «nuovo imperialismo» di Lenin, giunto ad uno stadio di sviluppo superiore. Senza seguire i detrattori postmoderni, sempre pronti a definire “preistoria” ogni linguaggio che non rifletta la loro stessa soggezione all’ordine dominante, bisogna pur ammettere che alcuni termini hanno perso la propria capacità di cogliere la realtà. Tra questi imperialismo, che tuttavia spicca in una costellazione concettuale nella quale pure termini come capitalismo, sfruttamento, proprietà, classi, lotta di classe, democrazia sociale, transizione rivoluzionaria, mantengono la loro pregnanza semantica. Analogie e similitudini, che esprimono la stessa sostanza, non mancano affatto – dopo quelle già presentate vediamone delle nuove. Oggi fervono dibattiti circa la definizione e la periodizzazione della globalizzazione, che evocano le argomentazioni che all’inizio del secolo hanno accompagnato il riconoscimento dell’imperialismo: rapporti col capitalismo, tratti decisivi, interconnessione economico-politica, forme di concorrenza, comparsa negli anni ’60, dopo o prima e anche molto prima, tanto che certuni negano ogni originalità ad un fenomeno che sarebbe sotteso al capitalismo stesso. E certo il mercato mondiale si confonde con l’avvento di rapporti di produzione capitalistici, come notava già il Manifesto di Marx ed Engels e Marx lo riscopre nel Capitale «La produzione capitalistica crea i mercati mondiali» e la loro costituzione è un tratto specifico del capitalismo. Quanto al predominio del capitale finanziario, Marx aveva già osservato: «col capitale che produce interessi, il rapporto capitalista raggiunge la sua forma più esteriore» cioè D-D2; ciò che definisce il «feticcio automatico», «valore che potenzialmente si valorizza, denaro che produce più denaro». «Il denaro in quanto tale è già un valore che potenzialmente si valorizza (…). Precisamente come la proprietà di un pero è di produrre pere, così la proprietà del denaro è di creare valore, di dare dell’interesse»: «è la mistificazione del capitale nella sua forma più brutale». Ma in ogni caso, – bisogna ricordarlo? – gli utili del capitale finanziario poggiano sul profitto generato dal capitale produttivo.

Tuttavia, la specificità di questo nuovo imperialismo che è la globalizzazione, non dovrebbe essere sottovalutata, quali che siano le sfumature che si aggiungono alla sua definizione o alla sua periodizzazione. Indubbiamente i tratti già individuati dai primi teorici – Hobson, Hilferding, Lenin – si ritrovano, ma esasperati dall’accelerata combinazione di tre fenomeni recenti: predominio del capitale finanziario speculativo, la rivoluzione tecnologica nel campo dell’informatica e delle comunicazioni e il crollo dei paesi cosiddetti «socialisti». Senza dubbio, i flussi dei capitali operano fin dall’inizio del secolo scorso, ma sono arrivati a provocare un’integrazione sistemica che consente ai monopoli di considerare il mondo come arena globale al servizio dei loro interessi, con il supporto di istituzioni internazionali che essi stessi controllano e riempiono di funzioni di un governo planetario (FMI, Banca Mondiale, WTO, ecc.). La fine di ogni competizione tra “blocchi” antagonisti, quali che fossero i loro regimi e le loro forme, lascia d’altra parte, il campo libero ad un’unica superpotenza, gli USA, egemoni in tutti i settori – economico, militare, strategico, politico, giuridico, scientifico, tecnologico, linguistico e culturale. Gli USA, che dispongono di un’onnipotenza senza precedenti, occupano ormai il posto già tenuto dall’Inghilterra. Pur sottolineando il ruolo di quest’ultima, Lenin prevedeva il passaggio di poteri allorché ravvisava, già nel 1915, negli USA «il paese d’avanguardia del più moderno capitalismo…Per molti aspetti, questo paese è il modello ideale della nostra civiltà borghese». E considera la vecchia ripartizione del mondo, notando che gli imperialismi concorrenti, quelli della “triade” (USA, Europa, Giappone) non sono in rapporti paritari, bensì di subalternità tra imperialismo maggiore ed imperialismi minori; così l’Inghilterra, già potenza dominante (1), espleta solo una funzione di subappalto, del tutto subordinata. Quindi, globalizzazione si confonde con americanizzazione.
In tema di analogie complementari, non vanno mai dimenticate le dimensioni politiche ed ideologiche. Bastano brevi accenni, tanto le cose sono diventate evidenti, dopo la “caduta del muro di Berlino” allorché il liberismo cantava vittoria (una vittoria dai giorni contati). In campo politico si delineavano tre elementi:
a) la «reazione» che ben lungi dal contrastare una regressione delle prerogative statali (ancorché non lo ammettesse apertamente), sottomette lo stato alle esigenze delle multinazionali, per privatizzazioni, flessibilità, ristrutturazioni (con taglio di posti di lavoro), finanziamenti con continua riduzione degli oneri, cessioni di sovranità richieste dalle concentrazioni economiche (competitività) e politiche (UE), smantellamento dei servizi pubblici, nonché del diritto al lavoro, cancellazione delle autonomie culturali.
b) Adeguamento delle socialdemocrazie e, più recentemente anche di PC, alla gestione capitalistica che, ben lungi dal preservare i “diritti sociali”, si dedicano a carpire il consenso del «cittadino» (Kautsky non crederebbe ai suoi occhi).
c) Sconfitta e decomposizione del movimento rivoluzionario (operaio e socialista) sotto il duplice impatto della globalizzazione e del crollo del «campo socialista», che non possono più favorire una scissione del socialismo, come nel 1915-1916, ma piuttosto segnare la fine di un’esperienza.

Sul piano ideologico si prepara la democrazia «senza aggettivi» come modello, specie per i Paesi est-europei (della quale si sa che ne hanno fatto) identificata col mercato, e tutto l’apparato dei «diritti»: «Stato di diritto», «diritti umani», «diritto internazionale», testé arricchito col «diritto di ingerenza umanitaria» – al solo scopo di inculcare il regno della TINA (There Is No Alternative), idolo thatcheriano della sottomissione alla fatalità del neoliberismo. Il rovescio della medaglia, che peraltro ne è una replica, si chiama «astensionismo politico», «regressioni religiose o nazionalistiche», «affermazioni identitarie e comunitarie», per non parlare del continuo approfondimento delle disuguaglianze in tutti gli ambiti, dal reddito, alla scuola, alla sanità. Il tutto confezionato come «globalizzazione felice» o «virtuosa» che, come spiega un sicofante patentato, garantirebbe, quanto meno virtualmente (termine di moda) lo sviluppo per tutti, il rispetto delle differenze, la promozione del sociale, l’accesso libero alle informazioni e la circolazione senza ostacoli nel «villaggio globale».
Al punto che certuni, in buona o cattiva fede, si mettono a pensare ed arrivano fino a sostenere, che nella misura in cui i giochi resteranno aperti, si potrebbe ancora scegliere tra globalizzazione buona e cattiva – basterebbe far pressione sul senso giusto ed ancorare a sinistra i governi, che dopotutto sarebbero ancora indecisi.
Come si pongono le cose? Tanto nel senso dell’Impero, come valeva già per quella romana, quanto nel senso del «nuovo imperialismo» del secolo scorso (dall’inizio alla fine), la lezione sembra chiara e non smentita certo dalla prosopopea magistrale di Zbignew Brezinski, che fa cader perle del genere: «La sconfitta ed il crollo dell’URSS hanno completato la rapida ascesa degli USA ad una ed in sostanza prima potenza mondiale effettiva»; «dovunque l’America rappresenta il futuro ed una società esemplare da imitare». «Nella rozza terminologia degli imperi passati, i tre grandi imperativi di geopolitica si riassumono così: evitare le collisioni tra i vassalli e tenerli nello stato di dipendenza giustificato dalla loro sicurezza; coltivare la docilità dei soggetti protetti; gestire l’emergenza di nuove potenze mondiali in modo ch’esse non mettano a rischio la supremazia americana».
«L’allargamento dell’Europa e della NATO servono gli obiettivi sia a corto che a lungo termine della politica americana». Di fatto «la globalizzazione …è solo una designazione mistificante dell’imperialismo», «la diffusione inegualitaria del capitalismo su scala mondiale». Non solo gli specialisti desiderosi di analizzare la realtà contemporanea, non esitano ad impiegare il termine di «imperialismo», ma molti si richiamano esplicitamente alle tesi leniniane.
S. de Brunhoff e W. Andreff sottolineano l’attualità della legge dello sviluppo ineguale. D. Cullin scrive: «il neoliberismo non esprime una rivitalizzazione del capitalismo di libera concorrenza del secolo XIX. È anzitutto la teorizzatone e legittimazione di quello che si deve chiamare imperialismo, nel senso di Hilferding e di Lenin».
Dal canto suo A. Catone osserva «tutti gli aspetti caratteristici dell’imperialismo individuati da Lenin hanno conosciuto un enorme sviluppo: monopoli, cartelli e trust sono diventati megamonopoli»(2).

E quanto al «parassitismo»? «Quanto all’espansione tentacolare di un’oligarchia finanziaria ampiamente parassitaria, per convincersene non c’è bisogno di leggere L’imperialismo fase suprema del capitalismo di Lenin. Gorge Soros, il celebre speculatore, lo spiega egli stesso nella sua opera». Ed anche la «putrefazione» è evidente «nei paesi ricchi di capitale», dichiarava G. de Bernis, che rileva un rallentamento del progresso tecnico, dove si trovano i numerosi rentiers che continuano a vivere “tagliando cedole”, negli “Stati rentiers” che opprimono gli “Stati debitori”; non c’è da stupirsi che le manifestazioni attuali dell’«imputridimento» del capitalismo siano più numerose e profonde di quelle che Lenin rilevava al termine del periodo di (relativa) stabilità del capitalismo.
Purtroppo si deve fare un altro passo in questa caratterizzazione, riconoscendo che la situazione generale del nostro «nuovo imperialismo» è peggiore di quella che predominava nel secondo decennio del secolo scorso, in cui si poteva parlare di una relativa stabilità, ovviamente assente dalla crisi odierna, ma che impediva a Lenin di parlare di disoccupazione o di miseria di massa. Inoltre, non solo il fenomeno delle multinazionali non era allora «ubiquitario come ora» (W. Andreff), ma svariate altre peculiarità si sono notevolmente accentuate ed esacerbate, che si tratti dello Stato, le cui funzioni di regolazione sociale sono andate riducendosi sistematicamente, dello Stato-nazione, che non è più quello che era all’indomani della I Guerra Mondiale, delle concentrazioni e funzioni aziendali, della circolazione dei capitali e del ruolo delle Borse. Una possibile lettura di aggiornamento del saggio leniniano comporterebbe la sostituzione dei dati con quelli di cui disponiamo attualmente. Il risultato sarebbe illuminante circa «lo iugulamento, per opera dei monopoli, di chiunque tenti di sottrarsi al monopolio, alla sua oppressione, al suo arbitrio»; «il rapporto di padronanza e la violenza ad essa collegata»; la compenetrazione di capitale bancario ed industriale; le oligarchie finanziarie, le società per azioni ed il titolo della «partecipazione», la contaminazione della politica e degli altri settori ad opera del capitale monopolistico, l’esportazione di capitali, il debito, la corsa alle materie prime, le rivalità interimperialistiche, il progetto di Stati Uniti europei, «l’aumento dell’immigrazione (nei paesi imperialisti) di individui provenienti dai paesi più arretrati, con salari inferiori», o l’apologia che fanno dell’imperialismo «scienziati e saggisti borghesi».

L’aggiornamento di questi dati a volte sulla scorta delle statistiche ufficiali metterebbe in evidenza differenze davvero sorprendenti – un solo esempio circa il capitale speculativo che occupa, come è noto, il centro dello scenario «globalizzato»: dopo l’abbandono degli accordi di Bretton Woods e la fine del sistema monetario fondato sull’oro, i 50 miliardi di moneta europea del 1969, già considerati preoccupanti, sono diventati 8.000 miliardi, «una piccola parte della finanza mondiale». Infine considerando gli elementi del vecchio «nuovo imperialismo», ignorati o perché non erano ancora esistenti, almeno su scala comparabile, come il peso del debito sotto il controllo degli istituti monetari internazionali, che sta rovinando l’intero continente africano, pare ovvio che la minaccia nucleare, i rischi di danni ecologici, la prevedibile carenza d’acqua, la mercificazione generalizzata che include la vendita di organi da trapiantare e la prostituzione infantile di massa, non si esita a ravvisare un’autentica “criminalizzazione dell’economia mondiale”. Il narcotraffico (altro elemento ignorato) è in cima al commercio mondiale, giacché gli stupefacenti sono le merci i cui profitti sono i più alti. Quindi non si formano solo reti economiche, tipo «paradisi artificiali» e banche specializzate nel riciclaggio del «denaro sporco» ma tutto il sistema è corroso dall’interno. Ad onta delle campagne moralistiche e delle false azioni repressive (distruzione di piantagioni d’oppio, coca, ecc.), i paesi sviluppati, ossia ricchi e potenti, proteggono i circuiti da cui traggono i massimi benefici e ne accorpano i lauti profitti nelle attività più ufficiali. Il cosiddetto «denaro sporco» non è più distinguibile da quello «pulito»; la corruzione già marginale, penetra ora tutti gli ingranaggi fondamentali dell’assetto sociale, in particolare pervadendo la politica e favorendone la «crisi».

Ultima domanda: che dire del nesso tra imperialismo e transizione al socialismo? Non è forse questo il punto che inficia tutta la teoria, visto che, ad una disamina storico-scientifica, il processo rivoluzionario avviato nel 1917 non ha mantenuto le promesse, anzi si è vanificato nel 1989 assieme al sistema sovietico; – inoltre il capitalismo, mostrando insospettata vitalità, è riuscito a superare le proprie crisi ed a restaurare, con la globalizzazione, un equilibrio che gli consente di espletare il proprio ruolo essenziale che gli conferisce un dominio geostrategico globale senza uguali?
Ebbene, quest’argomentazione non pare accettabile per più motivi strettamente interconnessi.
Anzitutto è incontestabile che la globalizzazione è un processo tuttora in corso, che il suo percorso non è affatto completo ed è difficilmente prevedibile: che questo processo è generalmente considerato contraddittorio ed esposto agli effetti delle ben note “sorprese” del mercato, che confondono gli economisti. In fin dei conti “la mano invisibile” fa ciò che vuole (dalla crisi messicana a quella asiatica ed al collasso del Nasdaq) – ed anche per effetto, montante, delle rivalità interne alla «triade», dei possibili avvenimenti nei paesi cosiddetti «emergenti» (dal Brasile alla Cina). Lo stesso Z. Brezinski prospetta per il trionfo della “nazione indispensabile” un tempo di “una generazione almeno” e non esclude che si stia formando una vera e propria situazione prerivoluzionaria.
D’altronde, se è vero, come è vero, che Lenin si aspettava molto dalla socializzazione che viene accelerata dall’imperialismo, in confronto al vecchio capitalismo della concorrenza fra entità economiche piccole e medie; se egli si aspetta che si apra, non senza dure lotte, un periodo rivoluzionario, favorito dalla guerra mondiale, se anzi mostra anche una certa debolezza, ben presto ovviata, per lo slogan politico degli Stati Uniti d’Europa, ciò non è esclusivamente attribuibile ad una sua predisposizione caratteriale ottimistica, bensì alla congiuntura e «situazione concreta» in cui vive. Qui è la differenza, Lenin era ancora un uomo dell’Illuminismo, in ciò più vicino ai suoi maestri di quanto non lo siamo noi, testimoni ed eredi di un ciclo di sangue, massacri e rovine, di cui egli ha visto solo le premesse, che appena osiamo chiamare «modernità» e che ci ha imposto di rinunziare ad ogni variante di ineluttabilità, sia pur rivoluzionaria. Peraltro, questo pessimismo, se si vuole chiamarlo così, anch’esso si radica in un contesto; rispecchia quell’imperialismo della disperazione che viene dalla globalizzazione, giacché, pur intravedendosi virtualità positive, un esame lucido non può che fissarsi sulla straordinaria potenza della negatività intrinseca al sistema. Ma appunto perciò, con apparente paradosso, la diagnosi leninista rimane corretta, anche nella sua conclusione alternativa.

Infatti si tratta di un sistema, il capitalismo, la cui natura non è mutata, dal Capitale di Marx alle metamorfosi imperialiste, le quali, attraverso ed al ritmo dei cospicui sconvolgimenti che l’hanno veicolato e che hanno cambiato il nostro modo di vedere il mondo, in definitiva hanno solo confermato la nocività, fino a rendere questione urgente, di vita o di morte, la trasformazione. La novità non è di cercare altrove, ed è radicale. Per quanto intempestive, scollegate, frammentate per motivi congiunturali, siano le forze contestatrici, esse comunque si trovano a confrontarsi con gli stessi compiti. Segnali più recenti e ripetuti, fanno pensare che si realizzeranno, anzi sono in via di realizzazione, convergenze di cui non è ancora determinabile la base programmatica, ma il cui obiettivo è fuori discussione. La stessa mondializzazione, “sognata da ogni internazionalista” non se ne potrebbe giovare? Decisivo in merito il giudizio di Rosa Luxemburg, che l’imperialismo non aveva più segreti: il capitalismo non è in grado di realizzare la mondializzazione giacché sarà prima divorato dalle sue contraddizioni interne – solo il socialismo potrà realizzarla.

* Questo intervento di G.Labica è una sintesi della prefazione che il filosofo francese ha scritto per una riedizione de “L’imperialismo fase suprema del capitalismo” di V.I. Lenin, pubblicata in Francia dalla casa editrice “Le Temps des Cerises”.

Note

1 Nei Quaderni sull’imperialismo Lenin cita con approvazione (“ben detto!”) una frase da Guerra mondiale ed imperialismo di G.F.Steffen del 1915: «Ora il mondo è quasi completamente spartito. Ma la storia universale ci insegna che gli imperi hanno la tendenza a spartirsi l’un l’altro dopo essersi più o meno divisi le terre “senza padrone in tutte le parti del mondo”»

2 «Ridiscutere di imperialismo» l’ernesto, n.1/2000, Dossier Imperialismo

traduzione a cura di Fernando Visentin