Niente poteva salvarlo
Eravamo stati facili profeti: neppure la legge salva-Veltroni, la caritatevole ciambella di salvataggio lanciatagli da Berlusconi con le nuove regole per le europee (vedi La porcatissima), poteva salvarlo. Le europee le vedrà da casa e nessuno lo rimpiangerà. O forse qualcuno sì: l’inquilino di Palazzo Chigi pare infatti assai turbato dalla prematura dipartita di un così utile “avversario”.
Un simbolo
Eppure Veltroni è stato un simbolo.
Da direttore dell’Unità tentò il rilancio del giornale fondato da Gramsci con la vendita delle figurine Panini. Fra i più convinti a saltare il fosso dopo l’89, ebbe la spudoratezza (o la sincerità?) di dire che “non era mai stato comunista”. Fu vicepresidente del primo governo Prodi (1996-1998), quello dei sacrifici di “sinistra” per l’euro. E quello dell’euro fu per lui un successo da decantare negli anni successivi.
Uscito di scena Prodi (ottobre 1998), effettuò uno scambio in corsa con D’Alema. Lui andò a fare il segretario dei Ds, D’Alema il primo ministro bombardatore della Jugoslavia. Mentre la Nato strangolava quel paese, Veltroni non fece mancare il suo appoggio organizzando una manifestazione a favore di quella guerra (aprile 1999), definita – come usava orrendamente allora – “umanitaria”.
Dopo il fallimento di D’Alema, e mentre si avvicinavano le elezioni politiche del 2001 con la previsione della vittoria di Berlusconi, il valoroso condottiero se la diede a gambe. Anziché affrontare l’avversario da segretario del principale partito del centrosinistra, cercò un posticino al caldo come sindaco di Roma. E qui si realizzò un altro scambio in corsa, questa volta con Rutelli: lui al posto del “bamboccione” alla guida della capitale, l’altro al posto suo a prendere le botte dal centrodestra vittorioso alle politiche.
Insomma, neanche un giorno da disoccupato nonostante le perdite inflitte alla ditta.
Da segretario dei Ds fu protagonista del congresso del 1999, in cui ci lasciò queste due perle: “Comunismo e libertà sono inconciliabili”, “Il Novecento sta finendo e noi lo consegniamo volentieri alla storia”.
Da sindaco di Roma divenne famoso più che altro per le notti bianche e le feste del cinema, con il simpatico corollario di spese non proprio esigue che andavano a rimpinguare l’allegro debito miliardario della capitale.
Una carriera del genere sarebbe già stata più che sufficiente a farne un simbolo: quello della degenerazione e della scomparsa della sinistra. Intendiamoci, degenerazione e scomparsa non sono fatti solo italiani, ma il caso italiano merita una certa attenzione. Certo, sarebbe ingiusto addossare a Veltroni responsabilità che appartengono ad un’intera classe politica. Ma sarebbe altrettanto ingiusto non vedere nella persona di Walter Veltroni i segni distintivi più caratterizzanti di questa degenerazione.
Riconosciamolo allora come simbolo, e seguiamolo nelle sue mosse successive dove darà il meglio di se.
La chiamata divina
Le sue gesta romane si interruppero con la chiamata (primavera 2007) del nascente Partito Democratico: la credibilità del centrosinistra stava andando a picco ed i principali azionisti (Ds e Margherita) avevano perciò deciso di cambiare nome alla ditta. Una bella fusione (il Partito Democratico) da mettere nelle mani di un nuovo amministratore delegato.
Veltroni fu scelto – vedi che la comodità di certi posti al calduccio viene quasi sempre utile – proprio in virtù della sua sostanziale “estraneità” alle scelte politiche che avevano riportato Prodi al governo nel 2006. Il suo arrivo alla guida del Pd era dunque un segnale di rottura, il “nuovo” (fa ridere, ma è così) con il quale ci si preparava a fare le scarpe al bofonchiante Prodi.
Nel frattempo – il lupo perde il pelo ma non il vizio – si preparava un altro scambio in corsa, ancora una volta con Rutelli. C’era infatti da lasciare la poltrona di sindaco di Roma, ma colui che l’aveva già occupata per due mandati (1993 – 2001) era pronto a riprendersela lasciando la vice presidenza del Consiglio dei ministri. Poi qualcuno si chiede come mai sia entrato nell’uso comune il termine “Casta”…
La chiamata alla guida del Pd ebbe una preparazione mediatica straordinaria: in arrivo non c’era un segretario, ma un “salvatore”. Ed il messia prese il suo posto il 14 ottobre 2007 nelle finte (visto che volutamente non c’erano veri competitori) primarie indette per la sua incoronazione. Di lì a poco la situazione prese a precipitare, la maggioranza che sosteneva Prodi si incrinò sempre più fino all’implosione del gennaio 2008.
Il resto è storia recentissima: la scelta di rompere con la sinistra della coalizione sfidando Berlusconi in una lotta persa in partenza, l’illusione di un bipolarismo bipartitico, la perdita di Roma (a volte negli scambi in corsa ci si rompono le ossa…), l’incapacità di svolgere un minimo di opposizione, la crisi di credibilità, l’emersione della corruzione “democratica” (vedi Il partito dei cacicchi), l’impossibilità di gestire le primarie in periferia, fino all’uno-due delle regionali in Abruzzo ed in Sardegna.
Nel mezzo l’illusione della passeggiata romana di ottobre (vedi Ridiamoci su) che aveva il vantaggio di poter giocare non su numeri contati, come alle elezioni, bensì su numeri dichiarati e fantasiosi, come da tempo avviene per le manifestazioni.
A questo punto ci sono ancora dei dubbi sul fatto che Walter Veltroni deve essere assolutamente riconosciuto come simbolo della degenerazione e scomparsa della sinistra in Italia?
L’autobiografia della sinistra
Se Silvio Berlusconi non è un accidente della storia ma l’autobiografia di una nazione, e temiamo che sia proprio così, perché non vedere il percorso di Walter Veltroni come l’autobiografia della sinistra di questa stessa nazione?
Con Veltroni l’americanizzazione della politica non è stata solo praticata, è stata anche lungamente teorizzata e preparata. Il Pd non è certo l’unico partito atlantico del nostro continente, ma è l’unico che ricalca anche nel nome uno dei due partiti del sistema americano. Le stesse primarie, dalle quali stanno venendo fuori non a caso personaggi tipici dell’estrema personalizzazione della politica (vedi Firenze), sono un prodotto doc del Pd italiano che non ha riscontro in nessuna altro paese europeo.
Ma dove il Pd ha fallito completamente è stato l’approccio alla crisi economica. Una crisi imprevista, che ha visto il partito rimanere muto ed incredulo, limitandosi a dire qualcosa sull’inefficacia delle risposte del governo. Ma se non è difficile concordare su quest’ultimo punto – le ricette del governo Berlusconi sono veramente penose oltre che inique – resta il fatto che la crisi non è italiana bensì mondiale, che le fondamenta del sistema capitalistico ne sono scosse, che le terapie adottate dai governi (non solo quello italiano) fanno acqua da tutte parti, limitandosi a trasformare una quota dell’enorme debito privato in debito pubblico, con quali conseguenze future non è difficile immaginare.
La crisi ha messo a nudo il Pd, più degli scandali, più della strutturale incapacità di fare opposizione.
Essendosi lasciati alle spalle ogni idea di società diversa, avendo ridotto la politica a governance, la democrazia a rito elettorale, peraltro ben sterilizzato da leggi sempre più antidemocratiche (e Veltroni è stato un vero campione del maggioritario), al Pd non è rimasto niente da dire, al punto da presentarsi come super partes non solo tra Cgil e Cisl-Uil, ma tra Cgil e Confindustria.
Insomma, di fronte alla crisi niente. E’ un po’ troppo anche per un partito come il Pd.
Ed anche questo ci parla dell’autobiografia di una sinistra che ha smesso di guardare in faccia il capitalismo reale. Certo, qualcuno vorrà farci notare che c’è anche un’altra sinistra. Ce ne occuperemo a tempo debito. Magari ce ne occuperemmo un po’ più volentieri se quest’ultima smettesse di correre dietro al Pd, ma siamo certi che con la caduta di Veltroni quella corsa riprenderà con più slancio. Ed allora: “chi è causa del suo mal pianga se stesso”…
Cosa aspettarsi?
L’uscita di scena di Veltroni lascia in campo un bipolarismo zoppo. Da qui la preoccupazione berlusconiana. Preoccupazione che ha anche un altro motivo: se è naturale che la crisi economica abbia investito per primo il Pd, non fosse altro per la sua totale inconsistenza come forza di opposizione, non c’è dubbio che nei prossimi mesi essa scuoterà proprio le forze della maggioranza governativa. Il bipolarismo zoppo non va bene dunque neppure alla gamba più forte.
Guardando all’Europa viene in mente – fatte sempre le debite differenze – la situazione francese, dove la vittoria di Sarkozy ha portato ad una crisi senza fine del Partito Socialista. Una crisi che non ha toccato ancora il fondo, come ben difficilmente le dimissioni di Veltroni rappresenteranno il fondo della crisi del Pd. Chi scrive è anzi convinto che per i “democratici” il peggio debba ancora venire.
Una linea politica è stata sconfitta, ma forse ce n’è un’altra in grado di imporsi? E c’è una leadership in grado di proporla e praticarla? Se l’alternativa è il privatizzatore Bersani nel ruolo di facente funzioni di Massimo D’Alema possiamo immaginarci come andrà a finire…
Vedremo quali saranno i prossimi sviluppi, ma la crisi incombe e per riproporsi come gamba fondamentale del sistema bipolare i “democratici” dovranno correre, rischiando così di rompersi l’osso del collo. Corre forte chi è ben allenato, chi ha forze giovani, chi è in grado di darsi una meta, chi è incitato da sostenitori convinti. Tutte cose che mancano all’accozzaglia chiamata Pd.
Lo sbandamento è così grande che il solito manettaro molisano – pensate, forte di un 5% (cinque) alle regionali sarde! – ha ritenuto di autocandidarsi alla guida del centrosinistra. Ed anche questo ci conferma che il bello (“bello” o “brutto” è questione di punti di vista) deve ancora arrivare.