Avevo trascorso gran tempo nello studio delle scienze esatte , ma la scarsa comunicazione che vi si può avere con gli uomini me ne aveva disgustato. Quando. cominciai lo studio dell’uomo, capii che quelle scienze esatte non si addicono all’uomo, e che mi sviavo di più dalla mia condizione con l’approfondire lo studio che gli altri con l’ignorarlo… Vanità delle scienze. Nei giorni di afflizione, la scienza delle cose esteriori non varrà a consolarmi dell’ignoranza della morale; ma la conoscenza di questa mi consolerà sempre dell’ignoranza del mondo esteriore.” (B. Pascal,  “Pensieri “)
   
Caro Giulio,
il tuo intervento di replica allo scritto di Angelo Baracca mi ha “costretto” a esprimere il mio punto di vista sul tema in oggetto.

Mi preme innanzitutto dire che ho molto apprezzato il senso di misura e di equilibrio che pervade quasi dall’inizio alla. fine il tuo scritto; credo però che la questione sollevata da Baracca sia un’altra e che non sia stata da te debitamente colta. Tale questione è, a mio avviso, mirabilmente espressa nel brano di Pascal riportato in epigrafe: il valore esistenziale della conoscenza scientifica (che si pretende razionalistica e oggettiva e per questo stesso fatto superiore) rispetto alla conoscenza considerata irrazionale e che io preferisco chiamare (con un termine a mio parere più adeguato e rispettoso della sua natura) meta-logica.

 

La tua gnoseologia, ancorché critica e prudente, rimane pur sempre nella corrente del grande fiume del razionalismo moderno che, in un felice incontro con un atteggiamento empiristico ha condotto con Leonardo prima e soprattutto con Galileo poi alla nascita del metodo scientifico, che ha consentito alla tensione tutta umana   verso la conoscenza di approdare a straordinari risultati pratici più che gnoseologici.  Infatti, l’orizzonte conoscitivo della scienza è piuttosto angusto e le sue leggi hanno una validità sempre e comunque approssimativa. Senza che sia possibile approdare all’oggettività, alla necessità e all’universalità che Kant si era affannato a garantire alle conoscenze scientifiche con la sua epistemologia. Di tale epistemologia ha fatto giustizia ante litteram Hume, la cui rigorosissima critica alla categoria di causalità, sulla quale la scienza galileiano-newtoniana si fonda, rimane ancor oggi validissima con buona pace del filosofo di Konigsberg. Il preteso realismo gnoseologico della scienza è andato in crisi già alla fine del XIX secolo con la scoperta delle geometrie non euclidee, ricevendo il colpo mortale nel 1929 con il principio di indeterminazione di Heisemberg. Ciò nonostante troppi scienziati continuano a considerare la conoscenza scientifica come assoluta, in virtù della sua essenza quantitativa, che rifletterebbe fedelmente la natura del mondo, ignorando che 2 + 2 fa 4 solo in un astratto calcolo matematico, dal momento che in natura non esistono affatto due realtà identiche e che, di conseguenza non può esistere alcun ente che possa porsi come l’equivalente concreto di quell’ente astratto che è l’unità come base dei numeri.
 

L’importantissima conseguenza epistemologica del principio di Heisemberg è il disvelamento dell’autoinganno di cui sono stati vittima gli scienziati quando hanno assegnato ai prodotti delle loro ricerche l’attributo dell’oggettività, sul quale hanno preteso di fondare (con non poca arroganza iper-illuministica e positivistica) la superiorità della loro conoscenza rispetto alle forme gnoseologiche meta-logiche. Il principio di indeterminazione ci dice, infatti, che ogni conoscenza è il prodotto e l’espressione di una “realtà di campo”, di cui è parte integrante e ineliminabile l’osservatore. L’elemento soggettivo, individuale entra dunque a pieno titolo nella realtà che si vorrebbe oggettiva, della quale si dovrebbero cogliere le caratteristiche necessarie e universali da tradurre in leggi matematicamente e rigorosissimamente strutturate. Lo sforzo compiuto dagli scienziati per disantropomorfizzare il mondo naturale è, purtroppo per loro, miseramente fallito. Si è molto più nel giusto se si considera la scienza (come dice Baracca) una forma particolare di conoscenza tra le altre, un veicolo di interpretazione della realtà che ci circonda, il valore del quale, insisto, è più nelle sue ricadute tecnologico-pratiche che nelle sue pretese propriamente gnoseologiche. Anzi a mio avviso (e non solo a mio avviso) la scienza, proprio in virtù delle sue caratteristiche rigorosamente causalistico-quantitative, espressione dell’elemento razionale dell’uomo, è meno adatta a cogliere in ampiezza e profondità la realtà che ci circonda. Il fondo dell’essere rimane assolutamente oscuro se guardato con l’occhio della ragione: l’essenza dell’essere non è solamente razionale, ma è anche e soprattutto irrazionale. Ciò è vero tanto per quel che riguarda la natura del mondo esterno quanto per quel che concerne il nostro specifico mondo umano.

 

Proprio per questo un approccio conoscitivo solamente razionalistico si dimostra inadeguato a cogliere molti, troppi aspetti della realtà, che si rivelano fondamentali e di estrema importanza per l’uomo e per il suo futuro.  Ha ragione Baracca nel dire che le caratteristiche di fondo della realtà sono di natura qualitativa e che è estremamente pericoloso voler trasferire il metodo quantitativo di lettura della realtà fisica anche allo studio del mondo umano. Era questo il sogno di Des Cartes che fatto proprio dall’ “homo burgensis” ha condotto progressivamente l’umanità sull’orlo del baratro. Il pericolo fu chiarissimamente avvertito già da Pascal, che, per quanto fosse un grande scienziato, all’ “esprit de geometrie” contrappose, come più proprio dell’uomo, l’ “esprit de finesse”. A lui stava a cuore la conoscenza dell’essere umano, che gli consentisse di dare una risposta alla domanda di senso che costituisce il fulcro dell’esistenza dell’antropos. A questa domanda non potrà mai dare alcuna risposta la sola ragione con nessuno dei suoi prodotti; e senza una tale risposta qualsiasi sforzo per correggere il maligno corso della storia, che ha  prodotto la barbarica civiltà capitalistica, è destinato a naufragare. 

 

Tu invochi giustamente (associandoti in ciò a Baracca) la necessità, storico-politico-sociale di porre dei limiti  alla libertà della ricerca scientifica, limiti che devono essere dettati non da un’arbitraria autorità ma dalla collettività tutta, precisando però che questa deve nello svolgimento di quest’operazione lasciarsi guidare dalla ragione, dal momento che solo la ragione può accampare a giusto titolo il diritto di porre dei limiti a se stessa, come afferma appunto Kant nella sua “Critica della ragion pura”. Purtroppo, però, tutto il discorso kantiano rimane entro le coordinate storico-culturali dell’Illuminismo, che assegnavano alla “Ragione” una dignità, una forza un valore comunque eccessivi a tutto detrimento delle altre facoltà dell’uomo ed in particolare del sentimento e dell’intuizione. Considerare, come tu fai, quella scientifica l’unica forma di conoscenza oggettiva favorisce  il nascere e lo svilupparsi di un atteggiamento di protervia e di arroganza della ragione che ha condotto la scienza all’instaurazione di un “totalitarismo gnoseologico”, una sorta di religione con i suoi dogmi, (l’insieme delle regole che costituiscono il metodo matematico-sperimentale) le sue chiese, (i centri di ricerca scientifica) i suoi prelati, (gli scienziati) le sue turbe di fedeli (le masse devote e supplicanti, che dalla scienza si attendono, fideisticamente e provvidenzialisticamente, la soluzione di tutti i loro problemi).

 

Al pensiero scientifico è accaduto quel che accade ad ogni avanguardia rivoluzionaria: dopo aver abbattuto il potere dominante (la religione cattolica e la filosofia aristotelica) si è messa letteralmente al suo posto, censurando e combattendo ogni forma di “dissenso”, qualsiasi “visione del mondo” che non rientrasse nelle rigorosissime coordinate tracciate dalle categorie scientifiche. Gli scienziati si sono spinti così in avanti su tale via che sono giunti a risultati a dir poco grotteschi, finendo col violare uno dei canoni fondamentali dell’epistemologia galileiana: il riconoscimento dei dati di fatto empirici. Questo è infatti quanto avviene quando essi misconoscono la realtà, l’esistenza dei “fenomeni paranormali” (i cosiddetti fenomeni esp), assolutamente inspiegabili entro le coordinate della scienza dominante. Di certo Galileo, che elaborava oroscopi non solo per i Medici ma anche per le sue figlie ed i suoi amici, non sarebbe contento se sapesse dove il suo metodo ha condotto gli uomini.

 

Tu invochi la ragione come arbitra del bene e del male, del vero e del falso, ma io mi permetto di ricordarti che la ragione non ha energie proprie sufficienti a farla muovere in questa o in quella direzione ed è sempre pronta a mettersi a servizio di una pulsione irrazionale, per consentirne la realizzazione degli obiettivi; in fondo anche i capitalisti usano l’intelligenza, ma il mondo da loro creato è assolutamente disumano e disumanizzante. Tu dici: “… questo ignorare i limiti della scienza e della tecnica (e delle risorse naturali realisticamente utilizzabili), che è proprio dell’ ordinamento sociale capitalistico, è espressione non affatto di un preteso “eccesso di razionalismo”, bensì di un grave difetto di razionalismo, di pesanti elementi di irrazionalismo che oggettivamente il capitalismo non può assolutamente superare, e che solo in una società non dominata da interessi sociali particolaristici (di classe) ma invece universalistici (solo in una società non divisa in classi antagonistiche) può oggettivamente affermarsi pienamente un razionalismo integrale.”, ma io ti rispondo  che proprio il considerare la ragione l’elemento fondamentale della psiche umana conduce alla sua eccessiva valorizzazione e all’ipertrofia del logos. Perdonami, ma la tua espressione “razionalismo integrale” mi dà una sensazione di asfissia e di morte; sono convinto che l’uomo integralmente razionale sia “un uomo a una dimensione”  e, in definitiva, “un individuo antivitale”.

 

Psicodinamicamente proprio il concentrarsi troppo sulla ragione favorisce lo squilibrio psichico dell’uomo e l’avanzare progressivo di elementi inconsci irrazionali nella sua vita: è infatti cosa nota che quanto più forte è la luce tanto più spesse sono le ombre degli oggetti illuminati. Tali ombre, però, non sono, come tu sostieni, un prodotto del sistema capitalistico ma, se è vero che da questo vengono potenziate, più che l’effetto ne sono la causa prima. Proprio per la tua formazione marxista tu compi  l’errore, che fu già del tuo grande maestro, di ritenere che il ribaltamento delle strutture socio-economiche  sia sufficiente a trasformare definitivamente la società in senso egualitario; rovesci (ovviamente secondo me) il rapporto tra la causa e l’effetto, non considerando che il capitalismo è stato creato dall’uomo in risposta ad esigenze derivanti da impulsi irrazionali propriamente umani. Io invece, in quanto anarchico, ritengo che la società egualitaria si realizzerà solo quando la maggior parte degli individui sentiranno come “eticamente necessario” e  ameranno profondamente l’ideale egualitario. In sostanza, come affermano i saggi di tutte le culture e di tutti i tempi e come sosteneva lo stesso Che’: la prima rivoluzione è quella che si realizza dentro di noi.

 

Sono giunto a questo punto alla parte conclusiva di questo mio, purtroppo, lungo intervento: sono fermamente convinto che ogni problema umano (e quindi anche quello dei rapporti economico-sociali nonché quello di un uso  sano e corretto della scienza) sia un problema etico e, perciò, un problema di autoconoscenza. L’uomo, infatti, nell’agire non fa che manifestare la sua interiorità psichica; per cui quanto maggiori saranno lo scarto e la distanza tra la sua sfera inconscia, emotiva e la sua sfera cosciente tanto più lontane saranno le sue realizzazioni concrete dai suoi ideali coltivati coscientemente, per quanto elevati questi possano essere. Solo un’autentica, progressiva autoconoscenza, che si realizza in virtù di una costante dialettica tra la coscienza e l’inconscio, può  ridurre al minimo quello scarto e far si che gli ideali presenti nella coscienza si congiungano con le emozioni residenti nell’inconscio e da queste traggano le energie per la loro realizzazione concreta. Per restare nel tema specifico del nostro dibattito: solo se gli scienziati raggiungeranno un adeguato livello di autoconoscenza si lasceranno guidare, nello svolgimento del loro lavoro, da sani principi morali, i quali indicheranno loro, in modo cogente e chiaro, la direzione e i limiti invalicabili delle loro ricerche, li sottrarranno recisamente  agli allettamenti e alle lusinghe provenienti dagli esponenti di qual si voglia potere economico-politico e dalle prospettive narcisistiche della fama e della ricchezza e punteranno con i loro sforzi solo alla realizzazione degli interessi universalmente umani.

 

Proprio nell’ottica dell’autoconoscenza rivelano tutto il loro valore quelle discipline da te senza mezzi termini disprezzate  e confinate al rango di “buie forme di superstizione tendenzialmente pericolose per l’umanità”. Purtroppo, Giulio, tu ignori che l’esoterismo, il misticismo, l’ermetismo, l’alchimia, l’animismo, il panpsichismo, l’antropomorfismo, la concezione olistica della natura, l’astrologia, ed ancora la religione, l’arte i miti, le fiabe, i sogni e tanti altri prodotti sono forme di conoscenza “simbolica”  o, come già ho detto “meta-logica”(razionale e irrazionale insieme) , che è la sola che consente di cogliere la realtà psichica umana nella sua totalità e di far comprendere il giusto posto dell’uomo nel più vasto mondo naturale. Ovviamente l’immenso materiale che costituisce il corpus di queste discipline perché abbia oggi un valore gnoseologico non va preso alla lettera ma dev’essere “tradotto”,  espresso cioè nel linguaggio del “conscio collettivo” attuale, vale a dire nelle categorie proprie dello “spirito del tempo presente”. E’ questo l’arduo compito di una delle più importanti “scienze umane”, la psicologia del profondo; e, a meno che non si voglia negare a tale ambito gnoseologico la dignità di scienza, non si può  negare  la dignità di prodotti conoscitivi fondamentali nemmeno alle discipline qui in discussione. Anzi, per quanto mi riguarda, considerando che l’uomo è il soggetto produttore e il destinatario finale di ogni suo prodotto (quindi anche delle scienze naturali) e che non può esserci alcuna produzione giustamente finalizzata se non si conosce adeguatamente la natura del soggetto a cui i prodotti sono destinati, le scienze umane e anche le conoscenze simboliche, solo in virtù della natura più ampia e fondamentale  del loro oggetto, possono rivendicare una “superiorità” rispetto alle scienze naturali. Con ciò non voglio oscurantisticamente negare il grande valore di queste ultime, ma solo assegnare loro il giusto posto all’interno dell’immenso bagaglio culturale dell’umanità

 

Sergio Starace