La chiesa cattolica, Israele e il giudaismo

di Moreno Pasquinelli

In partibus infidelium. Questa era la tradizionale locuzione con la quale la Curia romana definiva quelle diocesi che si trovavano fuori dalla propria giurisdizione spirituale. Da tempo, sin dal primo viaggio di Papa Wojtyla a Gerusalemme nel maggio del 2000, la Chiesa cattolica ha cessato di considerare lo Stato ebraico una “terra di infedeli”.

Sul piano politico la legittimazione dell’entità sionista era avvenuta nel giugno del 1994 con l’avvio di piene relazioni diplomatiche tra il Vaticano e Israele. Il viaggio di Papa Wojtyla, coronato dalla sua preghiera al Muro del pianto, e la sua affermazione per cui gli ebrei venivano considerati “fratelli maggiori”, sancivano una svolta ancor più profonda, perché afferente alla sfera teologica, dogmatica e spirituale. Si trattava del gesto simbolico con il quale la Chiesa cattolica portava (quasi) a definitivo compimento la revisione (iniziata a dire il vero con il Concilio Vaticano II) di due millenni di teoria e prassi in rapporto agli ebrei e al giudaismo.

Dopo la piccola burrasca scatenata dal fronte unito internazionale dei rabbini (seguita alla revoca papale della scomunica ai quattro vescovi lefebvriani) e la mezza burrasca suscitata dalle dichiarazioni ( “le camere a gas non sono mai esistite”) del vescovo lefebvriano Richard Williamson, tutto è finito, come era prevedibile, a baci e abbracci o meglio, in una plateale genuflessione di Ratzinger non solo ai piedi di Israele ma del giudaismo. I cattolici che speravano, vista la carneficina di Gaza, che il Papa cancellasse il suo previsto viaggio in Israele, sono rimasti delusi. Questo viaggio si farà. Mentre le autorità politiche sioniste non l’avevano mai messo in forse, avendo molto apprezzato il silenzio vaticano davanti ai massacri compiuti a Gaza; i rabbini si erano messi di traverso, mettendo il veto fino a quando Ratzinger non avesse compiuto a sua un gesto simbolico eclatante, di riverenza verso la religione ebraica. E questo gesto è puntualmente arrivato.

Il casus belli fu sollevato nell’estate scorsa, dai capi rabbini di Gerusalemme (sia sefarditi che aschenaziti), in occasione della pubblicazione del Motu Proprio, atto con cui si liberalizzava la messa pre-conciliare. La ragione dell’ira rabbinica è presto detta: assieme al messale pre-conciliare veniva reintrodotta la preghiera del Venerdì santo invocante l’accecamento dei giudei e la loro conversione. Il testo dell’orazione, adottato nel 1959 quando Papa era Giovanni XXIII, così suonava: «Ascolta oh Dio, le preci che ti rivolgiamo per l’accecamento di quel popolo, affinché sia sottratto alle sue tenebre». Da notare due cose: che nel testo adottato nel 1959 era cancellato ogni riferimento alla “perfidia ebraica” e che il termine “accecamento” non era scelto a caso, ma preso pari pari da una lettera di San Paolo, che da persecutore dei cristiani divenne apostolo e vero architetto della Chiesa e quindi del suo carattere universale.

Le proteste dei rabbini, amplificate da tutto lo stuolo di media sionistizzanti,  divennero sempre più asfissianti fino, appunto, a produrre il dietro-front, ovvero quella genuflessione simbolica eclatante che sola avrebbe permesso a Ratzinger di recarsi a Gerusalemme. A febbraio l’Osservatore Romano comunicava che Benedetto XVI «ha disposto che sia cambiata la preghiera per gli ebrei del Venerdì santo nel messale pre-conciliare». Nella nuova versione resta la preghiera affinché gli ebrei riconoscano Gesù Cristo come salvatore di tutti gli uomini, ma scompare il termine paolino di “accecamento”. Vero è che alcuni rabbini avrebbero voluto di più (che si togliesse ogni richiesta agli ebrei di riconoscere Gesù Cristo), ma alla fine la rettifica pare averli accontentati. Un pace ritrovata sancita dal recente caloroso incontro in vaticano tra Ratzinger e i capi delle organizzazoni ebraiche nord-americane diretti in Israele.

Sintomatico quanto dichiarato in questa occasione da Ratzinger: «Anch’io mi preparo a visitare Israele, una terra che è santa per i cristiani e gli ebrei». Se vi paiono parole usate a casaccio, ebbene, vi sbagliate. La frase è gravissima, e non solo perché esclude i musulmani, per i quali anche la Palestina è “Terra santa”, ma appunto perché non si dice Palestina ma Israele. In partibus fidelium dunque, una legittimazione dell’entità sionista non solo politico-formale, ma teologica e ontologica. Nello stesso incontro Ratzinger ha voluto accentuare la sua deferenza verso il giudaismo affermando: «La nostra identità e ogni aspetto della nostra vita e del nostro culto sono intimamente legati all’antica religione dei nostri padri nella fede». Non più solo “fratelli maggiori”, come furono definiti gli ebrei da Wojtyla, ma addirittura “padri nella fede”.

La revisione di due millenni di teoria e prassi in rapporto agli ebrei e al giudaismo è a questo punto definitiva, forse irreversibile. Essa sancisce l’abbandono più reciso della tradizione paolina, per cui i giudei non erano meno lontani da Dio dei pagani, per cui la salvezza era solo nell’amore per Cristo e per i suoi figli, non nell’osservanza dell’antica legge ebraica, né nel rispetto dei vecchi Padri giudei. Ma questa è storia lunga. Qui mi preme disvelare come la teologia sia al servizio della politica, come le parole e la prassi di questo pontefice, oltre che a testimoniare lo stato confusionale in cui è precipitata la Curia romana, attestino il suo suicida appiattimento sulle posizioni da “guerra di civiltà” di un Occidente (imperialista) oramai afferrato da una (sionista) pulsione di morte.