Unione e disunione europea di fronte alla crisi

di Leonardo Mazzei

“Arrangiatevi!”. Con questa parola d’ordine si è concluso il vertice europeo di domenica scorsa.
Un pranzo leggero, a base di formaggio di capra, manzo in salsa di vino rosso e crumble di mele, non ha attenuato la pesantezza del risultato politico di un summit che ha sancito due cose: no agli aiuti alle economie dell’est in grande affanno, no all’allargamento dell’eurozona. Insomma, di fronte alla crisi poche idee ma confuse ed un’unica certezza: ognun per sé, alla faccia di un’Unione sempre più disunita.

Ci ha provato il premier ungherese Ferenc Gyucsany a chiedere un fondo (160 – 190 miliardi di euro) per il “blocco dell’est”, ma la risposta è stato un secco no. Ci ha provato ancora – questa volta insieme al capo del governo polacco Donald Tusk – a chiedere l’ingresso nell’eurozona di Ungheria e Polonia, ma gli altri (Merkel in testa) hanno di nuovo risposto picche.

Come mai tanta avarizia?
Di fronte a tanta taccagneria alcuni hanno parlato di mancanza di solidarietà da parte dei “fratelli maggiori”, gli unici in grado di togliere qualche castagna dal fuoco che rischia di costringere all’insolvenza alcuni paesi entrati di recente nell’Unione Europea, in primo luogo Ungheria e Lettonia. Ma i controllori dei forzieri di Francoforte non ne hanno voluto sapere. Neppure davanti al rischio che il fallimento di questi paesi, insieme a quello di altre nazioni extra-Ue come l’Ucraina, finisca per travolgere alcune grandi banche europee, tra le quali l’italiana Unicredit che controlla una trentina di banche nell’est europeo.
Questa grande avarizia ci parla in realtà di due cose, peraltro strettamente collegate tra loro: la gravità di una crisi economica di cui non si vede alcuna soluzione; la tendenza di ogni singola nazione a chiudersi su se stessa in questa fase, da cui l’evidente riproporsi di politiche protezionistiche benché esorcizzate dai proclami che aprono e chiudono ogni vertice al capezzale dell’economia capitalistica mondiale.
Da un lato, i principali paesi europei non credono di poter fare molto per la tenuta di tutta l’area comunitaria; dall’altro preferiscono utilizzare le risorse disponibili per salvare in primo luogo se stessi da una bufera che si annuncia lunga e dagli esiti imprevedibili. Che i più deboli se ne vadano allora alla deriva, anche se questo comporterà un enorme prezzo politico.
Ed al no agli aiuti si aggiunge un altro motivo di preoccupazione per gli ex paesi satelliti dell’Urss: l’avvio di politiche protezionistiche (Francia in primis) tese a scoraggiare la delocalizzazione delle produzioni nell’Europa orientale.

La (dis)Unione Europea
L’unificazione europea sviluppatasi dopo l’89 mostra ora il suo vero volto. Da una parte le tradizionali potenze europee – potenze imperialistiche benché sottostanti all’egemonia statunitense -, dall’altra stati e staterelli, spesso guidati da leadership spregiudicate e corrotte ma soprattutto asservite alle oligarchie occidentali, poco cambia se americane od europee.
Lo stesso Gyucsany fece intravedere uno squarcio di verità quando nel 2006, ignaro di un simpatico registratore che ne immortalava la voce, si lasciò andare così con i propri collaboratori: “La divina provvidenza, l’abbondanza di denaro contante nell’economia mondiale, e centinaia di trucchetti, dei quali non è necessario che vi mostriate pubblicamente al corrente, ci hanno aiutato a superare questo momento. Abbiamo raccontato un sacco di balle ma non si può andare avanti così”.
Interessante e profetico. Questi stati e staterelli hanno vissuto il ventennio post-89 in un’incredibile condizione di dipendenza dalla politica, dall’economia, dall’industria e dalla finanza occidentale. Ora devono raccogliere i cocci di questa dipendenza e sarà un disastro sociale, che in alcuni paesi, a partire dall’Ucraina, si annuncia davvero immane.
Ma l’ovest del continente non è certo al riparo dalla crisi. In mezzo uno stato ricco come l’Austria che rischia di ritrovarsi vicino al default proprio a causa dell’altissimo livello di internazionalizzazione della sua economia.
E ieri il commissario UE agli Affari monetari, Joaquin Almunia, ha sentito il bisogno di dichiarare che: “Se un paese dell’area euro dovesse diventare insolvente è stata già studiata una soluzione di salvataggio”, rifiutandosi ovviamente di entrare nei particolari. Ma, evidentemente, l’evenienza non viene certo scartata e questo ci dice già molto.
La disUnione Europea darà i suoi frutti anche all’ovest, anche se l’est pagherà certamente per primo.
Che poi questa tendenza disgregatrice venga camuffata con arzigogolati richiami ideologici non cambia la realtà di una virgola.
Istruttivo in proposito l’appello finale scaturito dalla riunione di Bruxelles. “E’ del tutto chiaro (sic!) che l’Ue non lascerà nessuno sul ciglio della strada”, ha detto il presidente di turno Topolanek. “Solidarietà europea”, “Resistere ad ogni tentazione di protezionismo”, ecco altri due slogan a cui nessuno crede. Il tutto condito da un impegno ad intervenire sul fronte delle banche “senza creare distorsioni della concorrenza”. E qui non resta davvero che sbellicarsi dalle risate.
Piuttosto, tornando seri, dobbiamo chiederci se il 1° marzo a Bruxelles non rappresenti davvero l’inizio della fine di un’Unione nata con le banche al comando, che ben difficilmente potrà resistere ad un terremoto che ha proprio nelle banche il suo epicentro.