Crisi economica e passività operaia

Di contro all’opinione prevalente per cui l’Italia sia, tra i paesi occidentali, quello che nel gorgo della crisi corra meno rischi, io ritengo che questo paese rappresenti piuttosto uno degli anelli deboli della catena. Vero è che il sistema bancario italiano appare meno esposto di altri al rischio bancarotta, ma questo è un punto di forza relativo.

I guai sono destinati ad aumentare dal momento che la crisi, passata dalla sfera finanziaria e della circolazione a quella produttiva, non potrà che avere effetti devastanti a causa delle strutturali patologie che affliggono il capitalismo italiano. Se poi si considera che l’Italia conosce altri fattori di crisi, quelli politico, istituzionale e morale, otteniamo una miscela altamente instabile che potrebbe precipitare il paese in periodo di caos senza precedenti. Colpisce in questa cornice di crisi sistemica del capitalismo l’assenza di rilevanti conflitti sociali, anzitutto di quello operaio.

 

Giuseppe De Rita, riflettendo sul declino dei conflitti sociali nel nostro paese, giungeva alla conclusione drastica  per cui l’attuale composizione sociale non si presta strutturalmente al conflitto. Segnalando come, le figure dominanti del lavoro dipendente siano «… Strutturalmente negate alla mobilitazione collettiva, figurarsi al conflitto. Può spiacere a qualcuno ma l’attuale composizione sociale non presenta grandi componenti conflittuali. (…) Le recenti agitazioni hanno una carica altamente corporativa e manifestano la loro incapacità di creare valenza generale e mobilitazione politica. (…) Vince il pragmatismo del quotidiano, non n’idea di futuro migliore. (…) Viviamo un tempo di crisi della rappresentanza di interessi, di bisogni e di opzioni collettive, ma di rappresentatività esistenziale, di messa in comune di emozioni e sentimenti individuali coltivati nella dimensione dell’esistenza, senza passioni e spessori dell’essenza. (…) Non c’è allora da far conto sull’illusione che torni il conflitto, grande oggetto del desiderio». (Corriere della Sera del 24 novembre 2008)

 

Tre domande cruciali

Quella di De Rita è una foto sostanzialmente fedele della situazione presente. L’assenza di conflitti generali, magari di classe o settoriali ma a valenza generale o universalistica, viene spiegata a causa del carattere “coriandolare” o “a mucillagine” della società, così com’è emersa dalla grande metamorfosi che tutto l’Occidente passando dal fordismo al post-industriale, con la conseguente riduzione di peso della classe operaia industriale e il sopravvento di nuove figure sociali salariate ma atomizzate, non più incatenate a quei grandi luoghi produttivi seriali che inducevano per loro natura alla coesione, alla solidarietà e all’organizzazione sindacale e politica collettiva.

L’effetto di questo mutamento strutturale è stato raddoppiato da quelli sovrastrutturali e ideologici che l’hanno accompagnato. Da una parte il consumismo di massa, per cui il lavoratore salariato ha cessato di considerarsi portatore di interessi emancipativi generali, ritenendosi anzitutto persona, ovvero titolare di un diritto al consumo che ha sussunto e svuotato tutti gli altri. Dall’altra lo sfaldamento dell’URSS e la resa indecorosa dei tradizionali partiti e sindacati operai ha favorito un fenomeno storicamente inedito in Italia, ovvero l’abbandono di ogni speranza di fuoriuscita dal capitalismo e l’esodo di massa nel recinto politico liberale o direttamente reazionario. Ai residui settori anticapitalisti non restava che abdicare e fuoriuscire loro dalla scena, offrendo un consenso, ma paurosamente passivo, a chi ancora inalberava gli ideali di emancipazione. Il fatto che questo consenso si stato poi finalizzato dal ceto politico “comunista”, non alla costruzione di una tenace resistenza strategica al dominio capitalistico, ma ad uno dei suoi poli dominanti, in particolare a quello di centro-sinistra, molto più funzionale per il capitalismo che conta di quello berlusconiano (chi dimentica Profumo e Passera a far la fila ai gazebo delle “primarie”?), ha rafforzato la disfatta, l’omologazione, la normalizzazione sociale.

Il fatto è che quella di De Rita è solo una foto statica del paese, e scambia per permanente o perpetuo un contesto che è invece transitorio perché il sopraggiungere della crisi sistemica è destinato ad aprire un nuovo ciclo di mobilitazioni di massa. Il problema vero non è dunque, secondo me, se ci saranno o meno grandi mobilitazioni popolari, se le masse irromperanno o no sul proscenio, se occuperanno la ribalta. Il triplice interrogativo (e chi oggi saprà dare una corretta risposta potrà ben orientare le sue forze e quindi svolgerà un ruolo domani) è perché, come e quando queste masse entreranno in azione. Rispondendo al perché otterremo quale sarà il segno sociale, politico e ideologico della rivolta sociale. Rispondendo al come avremo, se non un’immagine esatta almeno l’abbozzo della composizione della rivolta, ovvero quali settori saranno trainanti e quali trascinati nel conflitto, del blocco sociale o dei blocchi che verranno a galla. Rispondendo al quando conosceremo la data di scadenza dell’attuale normalizzazione sociale col suo quadro politico e istituzionale, quanto tempo quindi resta a disposizione alle forze anticapitaliste come tempo della preparazione.

 

Perché?

Avevamo già detto ad ottobre che con la crisi finiva l’epoca della glaciazione del conflitto sociale. Lo scioglimento dei ghiacci sociali accumulatisi negli ultimi trent’anni non produrrà un decorso lento, prevedibile e dunque incanalabile delle acque. Il surriscaldamento improvviso causerà piuttosto una serie a catena di inondazioni in vari paesi (i primi segnali li abbiamo già avuti nei Balcani e in Europa Orientale). Le alluvioni porteranno a valle masse enormi di detriti, ovvero si porteranno appresso tutto quanto troveranno sul loro percorso. Fuori metafora: chi si aspetta che le proteste e le rivolte sociali si svolgeranno all’insegna di ideali egualitari, libertari e internazionalisti, si sbaglia di grosso. Questa possibilità è remota a causa dei trent’anni di spappolamento della memoria e della cultura socialiste, ovvero un’intera generazione. Il fatto è che i tradizionali ideali socialisti siano stati sussunti nel delirio ideologico liberale, che i valori  progressisti e internazionalisti siano apparsi come collaterali a quelli capitalistici di crescita e sviluppo. Lo si voglia o no la crisi dei paradigmi sviluppisti e liberisti ha trascinato con sé e svuotato di senso gli ideali socialisti.  È dunque ineluttabile un’alluvione sociale che porterà a valle tutta la merda valoriale e culturale accumulatasi in tre decenni. Avremo dunque molto probabilmente rivolte sociali che avranno segni neo-corporativi (piccolo- borghesi si sarebbe detto un tempo), financo reazionari. La miscela ideologica che verrà a galla impetuosa cercherà rifugio in politiche populiste a paternaliste, nazionaliste, neo-protezioniste, addirittura xenofobe. Questo sarà il segno prevalente, non l’unico, ma di sicuro quello che in una prima fase sarà egemonico.

 

Come?

D’altra parte si sbaglia pure chi ritiene che il proletario industriale sarà alla testa, o anche solo la parte più consistente del grande flusso. Non gli operai (che del resto quasi sempre sono entrati in scena come tali solo dopo ce altri hanno svolto il compito di testa d’ariete) ma una “polvere d’umanità” (inter-classista si sarebbe detto molto tempo addietro), la mucillagine sociale prodotta dal lungo ciclo postindustriale e neoliberista. Il proletariato come classe può mettersi alla testa di una rivolta sociale o grazie alle sue potenti organizzazioni sindacali o grazie alla forza dei suoi partiti politici, ovvero facendosi portatore di un’alternativa di società. È da escludere che questa crisi stimoli un forte movimento rivendicativo a carattere sindacale. Di norma ogni grande recessione produce una flessione delle spinte rivendicative, che risorgono invece davanti ad un ciclo espansivo dell’economia capitalistica. L’autodistruzione dei partiti a vario titolo “operai” priva infine il proletariato di ogni possibile ruolo guida. Esso entrerà in scena sì, ma inizialmente con un ruolo subordinato, come parte gregaria di un tutto popolare tumultuoso. Un tutto caotico che troverà nel territorio, non nelle fabbriche, negli uffici, o nelle scuole, il luogo dove condensarsi e riconoscersi in quanto comunità di interessi e aspettative.

 

Quando?

Se quanto detto sugli effetti devastanti e rapidi della crisi può considerarsi verosimile i tempi che ci separano dal prossimo ciclo di rivolte sociali, sono brevi, si misurano in mesi non in anni o decenni. Essi saranno tanto più prossimi tanto più falliranno le politiche economiche e sociali di contenimento della crisi che i governi stanno disperatamente approntando. La consapevolezza che siamo tutti seduti sopra ad un vulcano in procinto di esplodere ce l’hanno, molto di più che gli spompati chiacchieroni di sinistra, proprio le menti più argute della classe dominante. Mentre i  sinistri sembrano un pugile suonato, i dominanti hanno messo nel conto, che a riduzioni radicali di reddito, di status sociale, di privilegi nonché diritti acquisiti, non può che corrispondere un’aspra conflittualità sociale. Per questo si attrezzano, con una militarizzazione crescente da una parte e, dall’altra, creando cortine fumogene e falsi bersagli contro i quali deviare la rabbia sociale.

Si chiude un periodo e si entra in un altro. La società precipita verso il caos. La totale incapacità dei dominanti di evitarlo, facilità l’ingresso in un ciclo ad alta instabilità sociale, politica e istituzionale. I tempi a disposizione alle forze antagoniste per riorganizzarsi e indicare, assieme ad un’alterativa di società, un piano d’emergenza per evitare che il caos sfoci in una catastrofe, sono quindi stringenti. Non si tratta quindi solo, vista la minaccia di una svolta reazionaria e autoritaria, di fare fronte, di raggruppare in un blocco unico tutte le forze sociali anticapitaliste. Nessun fronte avrà scampo o potrà resistere alla prima ondata alluvionale aggrappandosi al minimalismo difensivo, ad un mero sindacalismo sociale ovvero, pensando alla seconda fase, senza indicare con estrema nettezza, ripeto, un piano d’emergenza per evitare che il caos sfoci in una catastrofe e questo nella prospettiva di una fuoriuscita dal capitalismo.