Il Pakistan è un paese la cui strutturale instabilità può deflagrare da un momento all’altro in un’esplosione incontrollata, con conseguenze pesantissime su tutta l’ area geopolitica di cui, assieme all’Afghanistan, rappresenta il centro geometrico. Sull’AfPak (significativo acronimo con cui gli americani rubricano questo dossier) confluiscono infatti molteplici e opposte spinte: geopolitiche, sociali e religiose. Impossibile districare e separare i fattori endogeni da quelli esogeni di tensione e di crisi.

 

Washington pensava di aver ottenuto una durevole vittoria quando, poco più di un anno fa, il loro uomo Asif Ali Zardari venne eletto presidente della Repubblica. Mai vittoria fu più fragile e aleatoria. Passata la sbornia elettorale tutti i drammatici e irrisolti problemi del paese sono venuti inesorabilmente a galla. Lo scontro di potere interno ai vertici dello stato, anzitutto con gli apparati legati allo sconfitto Nawaz Sharif, è diventato incandescente. Il casus belli è quello del giudice della corte suprema Iftikhar Chaudry, deposto con un atto d’imperio dal golpista Musharraf nel 2007.
Il neo presidente Zardari, uomo notoriamente corrotto, ha tentato in ogni modo, in barba alle sue stesse promesse, di non riammettere Iftikhar Chaudry al suo posto. L’opposizione guidata da Nawaz Sharif ne ha fatto una questione di principio e, nella settimana scorsa ha sfidato la presidenza annunciando una marcia su Islamabad che le forze di polizia, agli ordini di Zardari, hanno violentemente represso. E’ stato un boomerang. La protesta politica è dilagata a macchia d’olio, incontrollabile, fungendo da catalizzatore e unificatore delle diverse opposizioni vive nel paese, da quella islamista a quella socialista, mobilitando dipendenti pubblici e contadini, avvocati e proletari, borghesi e diseredati.
Dopo aver usato il pugno di ferro Zardari è stato costretto a fare marcia indietro. Ha tolto gli arresti domicialiari a Nawaz Sharif, ha annullato la rimozione del governatore della decisiva provincia del Punjab (fratello di Sharif) e, quel che più conta, ha finalmente promesso che il giudice della Corte suprema del paese, Iftikhar Chaudry, riprenderà il suo posto il prossimo 21 marzo.
Una sconfitta non solo per lui ma pure per i suoi burattinai nordamericani i quali, per bocca di Holbrooke e della Clinton in persona avevano confermato solo pochi giorni fa pieno appoggio alla linea di Zardari.

 

Impegnati nel vicolo cieco afgano gli americani hanno infatti bisogno del Pakistan come retroterra sicuro e quindi di un governo alla proprie dipendenze. Essi non si fidano di Nawaz Sharif, troppo vicino agli interessi sauditi e alla potente rete wahabita che essi finanziano e sostengono, e accusato di essere indulgente se non compromesso con la variopinta rete islamista che va dalle potenti tribù delle Province del Nord ovest (ai confini con l’Afghanistan), ai settori patriottici dell’ ISI (storici protettori della composita rete talibana), ai gruppi irredentisti kashmiri e quindi al potente Jamat-I-Islami di Qazi Hussain (quest’ultimo ricevuto in pompa magna a Pechino la settimana scorsa).

 

Gli americani vogliono la botte piena e la moglie ubriaca. Vogliono il Pakistan alleato nella guerra alla resistenza afgana e, al contempo puntano sull’India come alleato strategico, anche in funzione di contenimento dell’espansionismo cinese. Ognuno in Pakistan capisce che questo è impossibile, e che e’ proprio la doppiezza americana un pesante fattore di destabilizzazione del Pakistan. Gli USA non possono tenere i piedi su due staffe, delle due l’una: debbono uscire dall’ambiguità e decidere chi sarà il proprio cavallo nell’area: o il Pakistan o l’India. Nessuna via di mezzo è possibile.
Dalla decisione americana dipendono dunque molte cose, e Washington sbaglia se pensa di potere rimandare all’infinito questa decisione, affidandosi al ricatto del pur ingente pacchetto d’aiuti economici promesso dal vice-presidente USA Joe Biden.

 

Al fondo la strategica posta in palio è se il Pakistan sopravviverà come stato-nazione unitario, oppure se esso, nel giro dei prossimi vent’anni, scomparirà dalla carte geografiche per sdoppiarsi in due entità statuali opposte divise dall’Indo: una ad est, satellitata dall’India, l’altra, ad ovest, ovvero un grande Pasthunistan (col che diremmo addio anche all’Afghanistan come lo conosciamo oggi).

 

E’ in questa cornice che debbono essere collocati fatti e fatterelli che quotidianamente accadono in Pakistan e che sfuggono ai giornali occidentali. Solo due giorni fa, vicino a Peshawar, 20 Tir che portavano rifornimenti alle truppe Isaf e NATO in Afghanistan, sono stati distrutti dalla guerriglia islamista in segno di solidarietà con la Resistenza afgana. Attacchi simili si succedono in maniera incessante e sono cresciuti da quando il governo di Zardari, prima nella valle dello Swat, poi anche in Waziristan e altre aree ai confini con l’Afghanistan, è stato costretto a siglare accordi di cessate il fuoco con i diversi gruppi guerriglieri, spesso rappresentati da potenti notabili locali. Questi accordi hanno sancito il totale fallimento della linea offensiva che Zardari, su diretta pressione americana, aveva adottato un anno fa, ovvero il tentativo di debellare le guerriglie ricorrendo all’esercito pakistano. Gli americani sono imbestialiti poiché questi diversi cessate il fuoco consentono ora ai gruppi guerriglieri di concentrarsi sugli attacchi alle forze americane di supporto all’invasione in Afghanistan, rendendo con ciò la retrovia pakistana sempre meno sicura e di converso sempre più indispensabile il retroterra centro-asiatico, quindi l’appoggio aperto della Russia di Putin.