Il vertice del G20 sulla crisi economica, che si terrà la prossima settimana a Londra, si annuncia tutt’altro che tranquillo.
Può darsi che alla fine venga trovata una (non) soluzione di compromesso, come spesso avviene nei vertici troppo attesi e troppo contrastati. Quel che è certo è che la materia è scottante, i protagonisti sono nervosi, mentre gli interessi tendono a divaricarsi sempre più.
In un suo articolo pubblicato sul Corriere della Sera del 24 marzo, Barack Obama si è dimostrato quasi ossessionato dall’appuntamento londinese. All’improvviso, ed incredibilmente, il G20 viene indicato da Obama come il luogo deputato a risolvere la crisi: “Oggi i leader del G20 hanno la responsabilità di intraprendere un’azione coraggiosa, ampia e coordinata che potrà riavviare la ripresa economica”.
La verità è che il peso dato al G20 è dovuto ad uno scontro sotterraneo che ha una posta in gioco enorme, che riguarda la crisi ma soprattutto gli equilibri geopolitici che ne usciranno.
Ce la farà il dollaro a rimanere la moneta di riferimento internazionale? Questa è la domanda che, per la prima volta dal 1944, non ha una risposta certa. Ed è questo il motivo principale del nervosismo della Casa Bianca.
Un articolo di Maurizio Molinari, corrispondente da New York de La Stampa, riferisce dei retroscena della preparazione del summit in terra inglese. Alla proposta del governatore della Banca Centrale di Pechino, Zhou Xiaochuan, di sostituire il dollaro con gli Sdr (Diritti speciali di deposito) del Fondo Monetario Internazionale, Obama ha risposto definendo il dollaro moneta “straordinariamente forte”. La Russia è però d’accordo con la proposta cinese e l’Europa sembra avere orecchie molto attente.
Il punto è: chi dovrà pagare il conto della crisi?
Se Washington può permettersi politiche di bilancio avventuriste è solo in virtù del suo ruolo geopolitico. Se i più indebitati sono al tempo stesso i più potenti, ed in ultima istanza i più armati, è ben difficile che alla fine essi paghino davvero il conto. Questa considerazione assai ovvia preoccupa non solo Pechino e Mosca, ma anche Berlino e Parigi.
Del resto Obama – e qui torniamo al suo articolo sul Corriere – è stato esplicito: “Il mio messaggio è chiaro: gli Stati Uniti sono pronti a rimettersi alla guida e noi chiamiamo a raccolta i nostri partner per fare uno sforzo comune, verso un obiettivo comune”. Se l’azione deve essere unitaria è altrettanto chiaro chi deve rimanere alla guida, questo è il succo del ragionamento del neopresidente americano.
Tutto ciò è normale. Ma è la situazione a non esserlo. Le sorprese non possono perciò essere escluse, in una partita che gli Usa conducono su due fronti: quello del Pacifico e quello dell’Atlantico.
Il fronte del Pacifico è quello dei rapporti con la Cina. Qui la questione è semplice: gli Usa chiedono al governo cinese di partecipare allo stimolo globale per rilanciare la crescita, ma Pechino non può correre il rischio di ridursi a semplice pedina dell’iniziativa americana.
La Cina, già molto esposta per il possesso di una fetta consistente dei titoli del debito pubblico Usa, non può esporsi ulteriormente per aiutare il partner dell’altra sponda dell’oceano. Da qui la richiesta di superare l’attuale ruolo del dollaro. Una richiesta che Washington non può accettare pena il venir meno di uno degli elementi fondamentali della propria supremazia planetaria. In altre parole, per Obama accettare la richiesta cinese vorrebbe dire iniziare la ritirata strategica dal ruolo di superpotenza per acconciarsi a quel multipolarismo che è il vero incubo dell’establishment americano.
Sul fronte dell’Atlantico il problema è diverso. Se Washington è mossa dall’imperativo di riavviare la crescita – “E’ venuto il momento di lavorare insieme per ristabilire una crescita gagliarda” (Obama, sempre sul Corriere) – in Europa i governi sono preoccupati soprattutto del possibile venir meno della stabilità sociale.
Una stabilità che – insieme al drammatico aumento della disoccupazione – potrebbe essere compromessa dall’esplosione dei deficit pubblici. Se gli Usa possono permettersi una crescita del debito assai spericolata, i governi europei, pur avendo ormai abbandonato di necessità i parametri di Maastricht, temono di non riuscire a governarla politicamente. Detto in altri termini: come giustificare oggi la corsa del deficit quando in anni recenti il dogma del suo contenimento è servito a tagliare salari, pensioni e servizi? Come impedire che saltato questo tappo ideologico riparta una stagione di nuove rivendicazioni sociali?
Questa, insieme ai timori per l’instabilità monetaria, è la ragione del dissenso di Sarkozy e di Angela Merkel, riassunta in una battuta del presidente di turno della UE, il ceco Topolanek, che ha definito la ricetta di Obama come una “via per l’inferno”.
Il divaricarsi degli interessi nel campo dell’imperialismo è dunque evidente. Vedremo quali saranno le conseguenze. Al G20 e non solo.
Per il momento limitiamoci ad alcune considerazioni sugli aspetti più generali toccati dall’articolo di Obama. L’uomo della Casa Bianca sa bene cosa chiedere agli altri membri del G20: “Occorre partecipare all’impegno collettivo di incoraggiare il libero mercato e gli investimenti, e resistere alla tentazione del protezionismo, che non può che aggravare la crisi”.
I dogmi del liberismo e della globalizzazione restano dunque intatti, insieme alla riproposizione della religione della crescita.
Per quanto cerchi soluzioni di ogni tipo, per quanto gli Usa siano la patria del pragmatismo, Obama non può far altro che riproporre un capitalismo uguale a se stesso. Cioè quel capitalismo drogato degli ultimi decenni che ha provocato il disastro attuale.
Non potrebbe essere diversamente. Diversa dovrebbe invece essere la consapevolezza di questo fatto evidente, ma diamo tempo al tempo.