AfgPakistan: “la sfida più spaventosa”
Una settimana fa Obama ha dichiarato che gli USA debbono tornare alla “missione originaria”: “Assicurarci che al Qaeda non possa più attaccare il territorio degli Stati Uniti o gli interessi nostri e dei nostri alleati nel mondo. Questa è la nostra priorità numero uno”.
Sono passati solo 5 giorni ed il presidente americano è tornato sull’argomento per annunciare che al Qaeda starebbe “progettando attacchi sul suolo americano dal Pakistan”.

Mentre, in meno di una settimana, Obama passava dall’indicazione di un pericolo generico da scongiurare alla denuncia di un piano di attacco in fase di preparazione, le solite veline della Cia si preoccupavano di segnalare il sostegno di non meglio precisati settori dell’intelligence pakistana ai talebani.

Fin dalla campagna elettorale si sapeva quale sarebbe stato il primo fronte della strategia obamiana: l’AfgPakistan. Questi due paesi vengono ormai visti, anche formalmente, come un continuum in cui affermare il pieno controllo imperiale di Washington.
In parallelo con l’escalation in Afghanistan, gli Usa stanno intensificando gli attacchi missilistici nelle aree tribali al confine tra i due paesi, attacchi spesso portati con aerei senza pilota (i droni).
Ora siamo addirittura alla guerra propagandistica: il prossimo “11 settembre” sarebbe in preparazione proprio in Pakistan, cioè in un paese formalmente alleato degli Usa!
Se le parole hanno un senso è chiaro che nel prossimo futuro sarà questo il fronte più caldo di quella Guerra Infinita che non è certo terminata con la sconfitta di Bush.

L’AfgPakistan è una realtà talmente consolidata nella visione imperiale che il governo di Washington ha nominato un Rappresentante speciale incaricato di occuparsi di entrambi i paesi in questione, Richard Hoolbrooke, un personaggio che – non scordiamolo –  fu già Inviato speciale di Clinton durante la guerra alla Jugoslavia.
In una sua intervista alla Bbc, egli ha detto che “Afghanistan e Pakistan vanno trattati unitamente, non ci sono una politica afghana e una pachistana separate”. Più chiaro di così…    
Più recentemente Hoolbroke ha dichiarato (agenzia Asca, 27 marzo) che: “Dobbiamo affrontare il problema del Pakistan occidentale. E tutti i nostri superiori ammettono liberamente che di tutti i dilemmi e le sfide che dobbiamo affrontare, questa sarà la più spaventosa”.

Intanto, mentre l’amministrazione Usa sta evidentemente preparando il peggio, la stampa parla sempre più spesso di una possibile “exit strategy” per lasciare l’Afghanistan. Per il momento, però, l’unica cosa certa è l’aumento delle truppe americane ed occidentali in genere. Un aumento che, secondo il modello iracheno del cosiddetto “surge” (letteralmente, grossa ondata), dovrebbe aprire la strada ad alleanze con una parte dei vecchi nemici: in Iraq settori della vecchia resistenza sunnita, in Afghanistan componenti non meglio identificati dei Taleban.
Ma non è certo detto che quel che ha parzialmente funzionato in Iraq possa avere successo anche in Afghanistan. Ed il no di diversi esponenti talebani non si è fatto di certo attendere.
“Exit strategy” appare dunque una formula vuota, un modo per indicare l’imperativo della vittoria. Una vittoria che potrà essere perseguita solo allargando ancora di più il conflitto al Pakistan.

Di fronte a questi propositi della Casa Bianca è necessario che il movimento contro la guerra riprenda l’iniziativa in Italia, come nel resto d’Europa.
Le prossime mobilitazioni contro il vertice Nato potranno essere l’occasione per riproporre la centralità della lotta per il ritiro di tutte le truppe d’occupazione dall’Afghanistan. Un obiettivo che – guardando in particolare al nostro paese – in troppi si stanno scordando come se si trattasse di una fastidiosa appendice di una guerra ormai finita con l’avvento di Obama.
Così non è, e non è il caso di aspettare oltre per rendersene conto.