I nostri lettori avranno notato come, da alcune settimane, le gesta dei pirati somali abbiano conquistato le prime pagine dei giornali. Non crediate che questi riflettori siano puntati a caso, o che riflettano l’effettiva rilevanza del fenomeno dei sequestri nel Golfo di Aden. A leggere le notizie, così come vengono riportate, pare quasi che questi sequestri siano diventati la principale minaccia ai commerci mondiali. Ovviamente non è così, dato che questi rapimenti sono poco più che una puntura di spillo alla mega-macchina del business globalizzato. C’è dunque del marcio in Danimarca…

 

E il marcio è presto detto: si sta tentando di costruire il mostro della pirateria somala, di al-qaidizzarla, allo scopo di giustificare una nuova invasione del paese, dopo i clamorosi fallimenti dei primi due, quello americano a metà degli anni ‘90, e l’ultimo, compiuto per procura dalla truppe ascare dell’Etiopia. In entrambi i casi gli invasori, incapaci di domare la resistenza nazionalista e islamica, hanno dovuto scappare a gambe levate.
I media occidentali si dimenticano di dire che oggi la Somalia è un paese libero, autoamministrato dalle forze della Resistenza popolare uscite vincitrici da una guerra durata praticamente vent’anni. Un paese libero ma poverissimo, ridotto allo stremo. Le Corti Islamiche hanno praticamente ripulito Mogadiscio e tutta la regione meridionale, fino al Kenya, dalla presenza degli invasori etiopi e delle loro milizie fantoccio, mentre le due regioni settentrionali, il Puntland e il Somaliland lo erano già da un pezzo. Potremmo parlare di uno Stato federale, se non fosse una rappresentazione cosmetica ad uso e consumo dell’opinione pubblica occidentale. Due decenni di devastanti lotte armate e intestine, ove gli occidentali hanno fomentato e finanziato milizie ad essi prone, hanno ridotto la nazione somala ad un ammasso di rovine. Uno Stato così come ce lo immaginiamo noi non può quindi esistere, poiché affinché uno Stato nazione esista ci vorrebbero un mercato nazionale, una borghesia che funga da motore, un serbatoio di  piccola-borghesi, e una forza armata che operi come guardiano armato di tutti e tre.
Se questi fattori mancano in Somalia non dipende anzitutto, come una depravata mentalità colonialistica vorrebbe pensare, a causa dell’arretratezza culturale di quei popoli, o addirittura di insormontabili limiti antropologici, bensì, appunto, dal ruolo distruttore del colonialismo italiano prima e dal saccheggio imperialista globalizzato poi, che con le loro guerre hanno prodotto una desertificazione peggiore della siccità e della carestia che ha effettivamente colpito il paese.
In queste condizioni un popolo, sempre obbligato, se vuole resistere e sopravvivere, a dotarsi di una strutturazione sociale, non può che aggrapparsi alle sue fondamenta, ovvero difendere le strutture sociali elementari e più profonde che la penetrazione colonialistica non è riuscita a spazzare via.
Ci spieghiamo dunque la prepotente rinascita in Somalia, dopo l’epoca di Siad Barre, di rapporti sociali tribali, notabiliari e patriarcali. Non solo in Somalia del resto, di fronte ad una globalizzazione dissennata che ha espropriato i popoli dei loro diritti e consegnato il potere degli Stati  (chiamati eufemisticamente  Stati-nazione) a elites corrotte e depravate, l’organismo sociale ha dovuto riarticolarsi attorno a forme precapitalistiche, in quanto il capitalismo moderno era solo sinonimo di rapina, fame e guerra.
In Somalia questo processo era giunto a livelli parossistici: il paese trasformato in una colossale discarica mondiale di rifiuti tossici, i mari devitalizzati a causa della pesca genocida operata dalle grandi multinazionali occidentali e giapponesi, l’economia di sussistenza spappolata e sostituita dal servaggio e dal malaffare, il potere in mano a vere e proprie bande di politicanti criminali.
Per decenni i somali hanno dovuto subire e quindi combattere i più rapaci tra tutti i corsari, i pirati più implacabili, cioè gli assatanati affaristi occidentali che, in combutta coi loro lacché locali, hanno ridotto il paese ad un arido deserto. Alla fine li hanno cacciati, e per questo, ponendoci anche stavolta dalla parte dei somali diciamo: Onore eterno alle Corti somale e alla loro indomita Resistenza patriottica!

 

Che una parte dei proventi finisca per ipotesi alla Corti Islamiche non è che una forma, diciamo in faccia ai benpensanti occidentali, di una legittima riappropriazione antimperialista del maltolto. Un nulla rispetto a quanto arraffato dai pirati di Wall Street, o di quanto continuano a papparsi i corsari in doppiopetto delle banche occidentali le cui speculazioni, ad esempio quelle sul prezzo delle materie prime (piglia il grano o il riso ad esempio), possono gettare nel lastrico centinaia di milioni di diseredati.
Ma che una parte dei proventi dei sequestri finisca alla Corti somale i servizi segreti occidentali non riescono a dimostrarlo. Né tanto meno possono dimostrare che i “pirati” siano legati ad al-Qaida. La prima è un’ipotesi, al seconda una panzana, costruita ad arte dalle centrali di disinformazione strategica al solo scopo di sollecitare una operazione militare di annientamento su larga scala, come in effetti pare si apprestino a fare americani ed alleati.
Quel che è certo è che la cosiddetta “pirateria” è  divenuta la principale fonte di redito e sostentamento per centinaia di migliaia di abitanti somali, soprattutto delle popolazioni costiere, dedite da secoli alla pesca, ad una pesca che nel mondo della competizione globale, li costringerebbe alla fame. Per tirare a campare restando  pescatori questi dovrebbero disporre di ingenti somme di capitali, investirle in costosissimi bastimenti per la pesca d’altura, appoggiarsi ad una sofisticata rete di import-export. Mete inarrivabili, tanto più quando l’Occidente, che dispone dei capitali, li presta a tassi usurai, oppure invia in zona uno sciame di ONG che quando non rubano anch’esse rassomigliano alla crocerossina che offre l’aspirina ad un malato terminale di AIDS.
Meglio diventare filibustieri, dare l’arrembaggio a navi piene di ogni ben di Dio o a petroliere alte dieci piani, e quindi trasformare le coste più impervie in una Tortuga inespugnabile. Costa in effetti molto meno. Si rischia la propria vita ma implica meno soldi. Chi ha frequentato quei luoghi può farsi un’idea di quanto valga la vita di un miserabile pescatore: nulla. La stampa imperiale parla con linguaggio sprezzante e spocchioso di “signori della guerra”, di affaristi del crimine, di galeotti che ammazzano per quattro lire. Ipocriti! A loro i miserabili vanno bene quando accettano di farsi schiavizzare nelle sterminate piantagioni di caffè, caco o banane, o quando su barconi improbabili, vengono a farsi sfruttare e razzistizzare in Occidente. Sui “galeotti” chiudono un occhio quando fanno comodo a portare la merdosa polvere bianca dalle giungle andine alle opulente metropoli occidentali. Non possono accettare, questi signori, che dei miserabili decidano di mettersi in proprio, di diventare galeotti tenendosi il bottino.
E a chi va questo bottino? Una parte certo va a chi mette il capitale di rischio, ovvero a chi finanzia l’assalto. Potremmo chiamarli, perché no, capitalisti. Ma non è una parte così grande come vorrebbero far credere i pennivendoli che scrivono a comando dei governi o delle multinazionali colpite. Vanno in gran parte alle popolazioni locali, quelle costiere anzitutto, che con uno stipendio un pirata può sfamare la sua famiglia, che non è poco numerosa. Un’altra parte va a coloro che mettono le barche dell’arrembaggio a disposizione. Un’altra a chi cura la logistica o ai negoziati. Un’altra e chi deve fare da vedetta, un’altra ancora ai villaggi che sono addetti ad ospitare le navi sequestrate negli anfratti del Puntland. Si tratta di una rete fittissima, e sappiamo che in molti villaggi i giovani si mettono in coda per potere essere ingaggiati come “pirati”.
Il tutto avviene sotto l’egida e col consenso dei capi villaggio, il più delle volte composti da anziani (qui si manifesta la solidità delle vecchia struttura tribale e patriarcale), da gente che ne ha viste di tutti i colori e che non ha altre alternative da proporre oltre quella della “pirateria” se non quella di emigrare, attraversare il Sahara rischiando di morire sbranati dai pescecani in Mediterraneo, oppure essere reclusi nei lager chiamati CPT o CIE.
E grazie alla “pirateria” in queste aree costiere somale dimenticate da Dio, da qualche tempo i poveracci gustano una insperata seppur modesta prosperità. La qual cosa gli imperialisti non tollerano, dato che questa avviene a spese della loro flottiglia commerciale, violando il monopolio della forza e del malaffare che deve spettare ad essi e solo ad essi. Per questo reato di lesa maestà gli stessi imperialisti si stanno attrezzando, o inviando le marine militari di mezzo mondo, oppure assoldando squadriglie di killer, ovvero riciclando i contractors che si sono fatti le ossa maciullando i partigiani iracheni.

 

E se questo accadesse noi saremo di nuovo lì, a difendere i popoli somali, a sostenere la loro Resistenza antimperialista. A gridare, tra le smorfie dei benpensanti, che il vero potere criminale è quello imperialista, che i veri signori della guerra sono i governanti della NATO, che gli autentici predoni sono i pescecani della globalizzazione, che la principale Tortuga non è la Somalia, ma il centro del capitale finanziario mondiale, Wall Street e le sue filiali europee e asiatiche.