Da Berlusconi a Franceschini, da Di Pietro a Fini, da Vattimo a Ferrero: ce n’è per tutti i gusti.
Pare che Charles De Gaulle fosse solito dire che “l’Italia non è un Paese povero, bensì un povero Paese”. Difficile dargli torto su questo punto.
“Al peggio non c’è limite”, recita un altro detto difficilmente confutabile e sicuramente applicabile alle attuali vicende politiche.

E’ qualunquismo occuparsi dell’indecente teatrino della politica italiana? O non sarà piuttosto l’italico trasformismo al cubo di questa epoca disgraziata la madre di tutti i qualunquismi?
Ma non di solo trasformismo si tratta. Ipocrisia, falsità, trucchetti di ogni tipo sono non da oggi il pane quotidiano di una politica ridotta a governance. Ma, appunto, non si riesce mai a toccare il fondo. E le vicende degli ultimi giorni stanno lì a dimostrarlo.
Ci sarà perciò concesso di dedicare qualche noterella sparsa all’attuale degrado della politica. Senza alcuna pretesa di completezza, che sarebbe un’opera titanica. Senza altro scopo se non quello di segnalare quanto sia urgente la costruzione di un’alternativa radicale.

I conti del terremoto
Arriva il terremoto e si fanno i conti della ricostruzione. Si parla di 12 miliardi e pare una cifra impossibile, benché spalmata su più anni. Eppure sono due miliardi meno del costo dei cacciabombardieri F-35…
Per trovarli pare che non vi siano strumenti adeguati. Niente tasse, niente trasferimenti di spesa, niente risparmi su altri costi, bensì collette, sms, telethon, cinque per mille. E mentre non si esclude il Gratta e vinci, ecco trovata la vena aurifera: il referendum, sul quale avventarsi per raggiungere un quorum altrimenti impossibile.
In soli due mesi (gennaio e febbraio) la crisi economica ha ridotto le entrate tributarie dello Stato del 7,2% (- 4 miliardi e mezzo di euro). Continuando così, a fine anno il buco sarà pari a diversi terremoti dell’Aquila. Di questo dettaglio nessuno discute. E’ antipatico e fa pensare alla crisi, meglio il terremoto purché non si parli di tassare la ricchezza.
Domanda indiscreta: ma se è così difficile far fronte alla ricostruzione in Abruzzo, come avrà mai fatto lo Stato davanti alle catastrofi dell’Irpinia (1980) e di Messina (1908), almeno 10 volte più grandi? Non che in quei casi l’efficienza della ricostruzione abbia brillato, anzi, ma un po’ di senso delle proporzioni non farebbe male a nessuno.

Fini e Berlusconi
Berlusconi ha scelto il terremoto come il palcoscenico ideale in cui recitare la parte del politico dinamico e decisionista. Presenzialismo, new town e battute idiote sono il menù quotidiano.
A nessuno (o quasi) viene in mente che questa spettacolarizzazione possa essere oltremodo offensiva per chi vive sulla propria pelle il dramma del terremoto.
Il teatrino ha bisogno di diversi scenari, meglio se apocalittici. Ecco allora il gioco delle parti tra Berlusconi e Fini. Se il primo mette l’abito decisionista di chi guarda soltanto al futuro, il secondo richiama la necessità di indagare sulle responsabilità passate; se il presidente del consiglio dice che l’election day non si poteva fare per i veto della Lega, il presidente della Camera afferma che si tratta di un errore.
Meno di un mese fa hanno fondato insieme il “Partito degli italiani” e già litigano? E se non litigano, di che si tratta se non di un giochino dove uno fa la parte del bullo e l’altro quella dello studentello pignolo?
Parrebbe evidente, eppure a “sinistra” (nessuno rida!) si punta su Fini…
Fini, del resto, è un vero modello di coerenza ed onestà intellettuale. Non molti anni fa definì Mussolini il “più grande statista del XX secolo”. Oggi, alla domanda di un giornalista, risponde semplicemente di aver “cambiato idea”. Così, come ci si cambia un abito…
Ora sul numero zero de l’Altro, il nuovo giornale di Sansonetti (altro bell’esempio dell’odierno degrado) Fini festeggia il 25 aprile con un articolo affiancato a quello del predecessore Bertinotti. Ogni commento ci pare superfluo.
Ma Fini è anche il segretario del Msi che nel 1993 si pronunciò per la proporzionale contro il referendum di Segni, mentre oggi strilla perché vuole l’ultra-maggioritario. Di queste piroette non ha mai fornito una spiegazione, ma tant’è, per la “sinistra”  resta un esempio di stile e di serietà da contrapporre al buontempone di Arcore.

Il peggiore
Nel campo della finta opposizione parlamentare il peggiore è naturalmente l’ex Dc Franceschini. Dove il peggio non sta in ciò che fu, ma in ciò che è. Le ha studiate di tutte per costringerci a parlare del referendum di cui si fa paladino. Eppure, se il referendum passasse, ne verrebbe travolto. Perché allora tanto impegno, forse per la certezza che altri (la Lega) avrebbero tolto le castagne dal fuoco?
Questa mattina leggiamo sui giornali che il Pd ha scelto il sì al referendum, ma il suo segretario ha precisato che questo non significherebbe approvare la legge che ne uscirebbe. Ora si da il caso che se vincesse il sì la legge sarebbe proprio quella che Franceschini non vorrebbe. Schizofrenia o furfanteria. Una cosa non esclude l’altra, ma sulla seconda possiamo scommettere senza rischi.
Franceschini, fateci caso, parla molto e molto a vanvera, ma non trova mai il tempo di dirci cosa pensa il Pd sulla crisi, sulle banche, sul lavoro, sull’Europa. Quando ne parla – degno erede di chi l’ha preceduto – lo fa per non dir nulla, tanto l’essenziale è già scritto nelle Tavole della Legge: mercato, securitarismo, europeismo atlantista.
Bipartitista a parole, non disdegna di certo le alleanze con il Prc alle elezioni amministrative. Una cosa sono i “principi”, altra la quotidiana cucina politica. E cosa c’è di meglio che cucinarsi gli utili idioti sempre pronti a dare una mano a chi li vorrebbe semplicemente gettare a mare?

Gli utili idioti, d’altra parte, non scherzano
Lasciamo da parte le alleanze a geometria variabile a cui Prc e dintorni stanno lavorando per le amministrative: quando vi sarà una geografia più esatta, dopo la presentazione delle liste, ne riparleremo con calma. Ma intanto, per le europee, hanno prodotto un simbolo a cerchi concentrici che sembra l’epicentro di un terremoto. Il tutto per circoscrivere la ritrovata “unità comunista” (brr…) con i nomi di due assoluti protagonisti della lotta politica e di classe in Italia: Socialismo 2000, la correntucola dell’ex ministro del lavoro Cesare Salvi e Consumatori Uniti dell’ex “bordoniano” (e scusate se è poco) Bruno De Vita. Davvero dei bei segnali per chi vorrebbe ricominciare “in basso, a sinistra”…
Ora, siccome il tutto è un po’ triste, conviene riderci su. E Ferrero ci aiuta a farlo.
Citiamo dal Manifesto del 19 aprile che riferisce sulla manifestazione tenutasi il giorno precedente a Piazza Navona. Ferrero, scrive Matteo Bartocci, ad un certo punto sferra una stoccata (e che stoccata!) a Di Pietro dicendogli: “Se oggi sei contro la precarietà, il nucleare e il ponte sullo Stretto perché con Prodi non hai votato contro”?
Davvero una bella domanda. Peccato che sia esattamente quella che molti italiani vorrebbero rivolgere a Ferrero. Quando mai il Prc votò contro? Non lo fece sulla base di Vicenza e cacciò Turigliatto. Non lo fece sulle pensioni, non lo fece sull’Afghanistan. Sempre votò a favore, facendo la guardia al bidone ormai vuoto fino all’ultimo, con una fedeltà a Prodi davvero commovente.
Troppo facile chiedere sempre le autocritiche agli altri, Ferrero dovrebbe saperlo. 
La modesta impressione di chi scrive è che Prc e Pdci si stiano discretamente impegnando per cercare di non farcela a raggiungere la fatidica soglia del 4%. Hanno la possibilità di passarla, a differenza della lista-omnibus verde-vendolian-socialista di cui abbiamo già scritto, ma stanno facendo di tutto per restare al di sotto. Gli basterebbe un segnale di radicalità, ma dall’opportunismo non si guarisce facilmente, ed a volte, quando è ben radicato, è perfino più forte dell’interesse immediato.

Vattimo e Rizzo di nuovo separati
Un brutto scherzo le elezioni lo hanno già giocato a Gianni Vattimo che ha deciso di candidarsi con l’Italia dei valori. Non c’è che dire, una scelta in linea con i tempi. Tempi che hanno fatto del trasformismo l’abito ideale di tanti intellettuali. Di destra e di sinistra.
Ce ne dispiace sinceramente. Avevamo apprezzato molto l’avvicinamento di Vattimo alle Resistenze, così come il suo recente neocomunismo. Altrettanto francamente ne critichiamo una scelta che ha l’unico senso di riconquistarsi un palcoscenico.
Eletto a Strasburgo nel 1999 nelle liste DS, nel 2004 è candidato del Pdci. Battuto da Rizzo, i due si scambiano cortesie di tutti i tipi fino ad una querela miliardaria. All’epoca Vattimo accusava Rizzo di circondarsi di picchiatori, ma quattro anni dopo (primavera 2008) eccoli insieme in nome dell’unità comunista. Passa un anno e la candidatura è con Di Pietro. Ora, il comunismo alla “Rizzo” è davvero una merce avariata. Uno scherzo della natura, al quale solo l’incredibile degrado dei “comunisti italiani” (non del solo Pdci) ha potuto dar vita per qualche tempo. Ma il passaggio al manettaro molisano è comunque un bel salto. Ha una sola spiegazione, la certezza dell’elezione.
Una realpolitik che certo non dispiacerebbe al suo concittadino ed ex competitore per uno scranno a Strasburgo. Questa volta Vattimo non dovrà faticare, i suoi manifesti verranno regolarmente affissi. Non ci saranno picchiatori, né querele. Del resto, qualcuno ha notizie fresche di Marco Rizzo?
Beh, qualche notizia c’è: sarà candidato del Pdci alla provincia di Grosseto ed al comune di Collegno (TO). Dichiarazione alla stampa: “Noi siamo un’alternativa tosta al Pd dei poteri forti. Li faremo ballare da qui alle regionali”. Traduzione: “alle regionali, ovviamente, ci accorderemo”. Dopo il ballo.

Il manettaro molisano
Se tutte le strade portano a Roma, molti rivoli della melma attuale portano a Montenero di Bisaccia, luogo natio dell’ex Pm ed ex ministro che ha fatto delle manette il logo della sua ditta personale, l’Italia dei valori.
Male ne parla Ferrero, bene ne parla Vattimo; male ne parlano i concorrenti del Pd, bene molti antiberlusconiani della prima e dell’ultimora.
Comunque vada il manettaro molisano otterrà un buon risultato; più che un premio alla sua politica, una giusta punizione a quella del Pd. Di Pietro ha l’occasione della sua vita. Cercherà di trarne il massimo, anche perché dopo inizieranno le difficoltà.
Di Pietro si avvale della straordinaria rendita di posizione determinata dalle macerie che lo circondano: il Pd da una parte, la cosiddetta “sinistra radicale” dall’altra. 
E’ dunque l’ora di dire qualcosa di chiaro sull’ex ministro e sul suo partito. Il fatto che l’Idv sia antipatico al Pd ed al Pdl certo non significa che debba essere simpatico a chi si oppone ai due partiti su cui si incentra il sistema bipolare.
Siccome il tema di questo articolo è l’attuale teatrino italiano, diciamo subito che l’Idv è un vero concentrato di questa degenerazione della politica. Vediamone alcuni aspetti.
Di Pietro parla oggi del lavoro e del precariato, peccato che i suoi eletti in Europa (lo sanno i suoi potenziali elettori?) andranno a far parte del Gruppo dei Liberaldemocratici, dove siedono gli esponenti dei partiti liberali del continente, quelli a favore delle 60 ore di lavoro settimanali, tanto per capirci.
Il manettaro era (è, tanto non gli costa niente) per la truffa dell’election day. Al pari di Franceschini, ma con la veemenza del pubblico ministero. Lui sa bene che con il bipartitismo perfetto dei referendari dovrebbe tornare nell’agreste Molise, ma visto che tanto il quorum non verrà raggiunto gioca a fare lo sbruffone. Disonesto quanto e più del segretario del Pd.
Già, il Pd. Oggi con Di Pietro sembrerebbe scontro, ma è lo scontro tra concorrenti elettorali, che poi torneranno tranquillamente ad allearsi. Quale fu l’unico simbolo che il Napoleone in pensione, incoronato dalle primarie farsa, volle accanto al suo sulla scheda elettorale? Quello del Pm in questione. Che c’azzecca, direbbe lui sputacchiando saliva. C’azzecca, perché non parliamo di un secolo fa, ma delle politiche dell’anno scorso. E del resto l’alleanza è stata fatta anche nelle elezioni regionali degli ultimi mesi. Che c’azzecca allora la presunta alternatività al Pd?
Sul securitarismo, sulla riduzione di ogni questione sociale a problema di ordine pubblico, polizia, tribunali, carceri e manette Di Pietro è ovviamente insuperabile. Certo, il problema oggi non è lui ma la politica di Maroni. Ma qualcuno saprebbe dirci dove sta la differenza sui contenuti, al di là del fatto che oggi uno è al governo e l’altro all’opposizione?  
Infine, il teatrino della politica è americanizzazione, spettacolarizzazione, personalizzazione. Lasciamo perdere lo spettacolo, che il dipietrista petto in fuori da galletto da combattimento un grande spettacolo non è. Ragioniamo invece sulla personalizzazione. L’Idv è ad un tempo un partito personale, come la Forza Italia di Berlusconi, ed un clan familiare che – almeno fino a qualche tempo fa, non sappiamo se ultimamente è cambiato qualcosa – incamerava direttamente i soldi dei rimborsi elettorali (alias finanziamento pubblico) attraverso un’associazione costituita dall’ex Pm, dalla moglie e dall’amica di famiglia on. Silvana Mura.
Insomma partito-azienda no, ma partito-famiglia sì.
Dobbiamo continuare?