Che si schiantino contro il quorum!
Il referendum del 21 giugno è una bestia strana. Sottovalutato da chi pure avverte la deriva antidemocratica, ma certo non da chi la promuove, appare e scompare dal dibattito quotidiano mischiato com’è alla campagna elettorale per le europee. E quando sembrava depotenziato dal no del governo all’election day, ecco che è arrivato a rilanciarlo il sì di Berlusconi.
In questi ultimi giorni poco se ne parla e soltanto di striscio. Ma cosa accadrà dopo il 7 giugno, specie nell’ipotesi di un successo del Pdl?

Questo referendum ci riguarda eccome!
Il clima di sfascio generale, con un presidente del consiglio impegnato a smentire relazioni con minorenni ed un’ “opposizione” occupata a specularci un po’ su, rischia di occultare la potente spinta reazionaria in atto. Eppure il ddl sulla “sicurezza”, che verrà approvato la prossima settimana, è lì a ricordarci la concretezza dell’emergenza democratica in atto.
Sia chiaro, questa emergenza non è semplicemente figlia del berlusconismo. Essa viene da lontano, da un processo di demolizione delle libertà democratiche che riguarda tutto l’occidente, ma che nel nostro paese ha delle evidenti peculiarità. In Italia, questo percorso antidemocratico ha visto in prima linea proprio le forze scaturite dal vecchio Pci, lungo l’interminabile asse Pds-Ds-Ulivo-Pd.
Berlusconi vi si è abilmente inserito, risultandone l’interprete più adatto, ma l’habitat era stato predisposto da altri. Altri che del resto non mancano di una perversa coerenza, basti pensare al sì del Pd al referendum, ma anche all’approvazione di Fassino del respingimento in Libia dei migranti intercettati in acque internazionali…

Cosa si decide il 21 giugno
Il contenuto del referendum è semplice. Per comodità cito un precedente articolo (Quando tutto fa brodo), pubblicato su questo sito:
“Cosa cambierebbe, in questo quadro, l’approvazione dell’ennesimo quesito referendario di stampo ultra-maggioritario? E’ presto detto: il premio di maggioranza, che oggi spetta alle coalizioni, andrebbe semplicemente al partito che ottiene più voti, peraltro senza neppure prevedere una soglia minima per poter godere di questo beneficio. Insomma, addirittura peggio della legge Acerbo voluta dal fascismo (1925) che perlomeno una soglia la prevedeva. O, se si preferiscono riferimenti più recenti, una super-porcata in grado di far impallidire la camicia verde di Calderoli. Lo scopo è chiaro: forzare al massimo verso un bipartitismo pressoché perfetto, escludendo dalle istituzioni quelle forze che non dovessero piegarsi alla logica bipartitica. Per raggiungere quest’ultimo scopo il referendum porterebbe a due  sbarramenti secchi del 4 ed 8%, per entrare rispettivamente alla Camera ed al Senato”.
Alcuni sembrano pensare che tutto ciò non cambierebbe molto, tanto il bipolarismo tende già vistosamente al bipartitismo, la logica maggioritaria è passata, eccetera, eccetera.
Proprio perché ritengo comprensibile questo atteggiamento mentale, penso che sia utile e necessario confutarlo. Gli argomenti non mancano di certo. Vediamo dunque le ragioni principali per impegnarsi in una campagna astensionistica, per boicottare attivamente il referendum antidemocratico del 21 giugno.

1. No all’americanizzazione
Siamo stati tra i primi ad indicare la tendenza all’americanizzazione della politica nel nostro paese e certo non ci sfugge il percorso che questa tendenza ha già compiuto. Non siamo cioè così folli da dire che tutto si gioca nell’ora x dell’ennesimo referendum truffa. Né consideriamo l’americanizzazione un prodotto derivato unicamente dal sistema elettorale e dalla strutturazione del sistema politico-istituzionale, essendo chiaramente il portato tanto di una situazione sociale quanto di un’egemonia culturale.
Sarebbe tuttavia altrettanto folle non vedere il pericolo dell’accelerazione di questo processo nel caso di un successo dei referendari. A quel punto il bipartitismo, che oggi trova ancora ostacoli e resistenze, avrebbe la strada spianata. Di più: sarebbe imposto per legge con il consenso della maggioranza degli italiani.
Che poi il bipartitismo, almeno nella prima fase, finirebbe per essere un monopolarismo berlusconiano è un altro elemento da considerare. Ma qui entra in gioco quello che abbiamo definito “autolesionismo da mancanza di idee” del Pd, una variabile impazzita sulla quale è difficile formulare una diagnosi più precisa che non sia la presunzione da impotenza.
Secondo questi presuntuosi (impotenti), vinto il referendum occorrerebbe una nuova legge, che naturalmente verrebbe patteggiata con loro. Dove sta scritto tutto ciò? Un’eventuale vittoria del sì fornirebbe già la nuova legge ultra-maggioritaria e bipartitista. Per quale motivo il Pdl non dovrebbe approfittarne per raggiungere il duplice scopo di rendersi autosufficiente e di marginalizzare la Lega?

2. No al presidenzialismo
Insieme alla spinta maggioritaria è venuta avanti, negli ultimi vent’anni, quella presidenzialista. Anche questa tendenza ha già segnato molti punti all’attivo: dall’introduzione dei sindaci-podestà (1993), alla trasformazione dei presidenti delle Regioni in governatori, alla sostanziale elezione diretta del premier.
Manca, però, l’ultimo tassello: il presidenzialismo compiuto. Sarà un caso, ma il modello americano si basa proprio su questa precisa accoppiata: bipartitismo perfetto e presidenzialismo forte. Certo, l’Italia e l’Europa non sono gli Stati Uniti d’America e non è immaginabile una semplice riproposizione di quel modello. Ma non stiamo già andando a rotta di collo in quella direzione? Bene, si tratta di decidere se vogliano assecondare quel percorso o tentare quantomeno di dare un colpo di freno.
Nel caso in cui il bipartitismo per legge si imponesse, la semplificazione della politica (nel senso del suo totale asservimento alle oligarchie finanziarie dominanti) avrebbe fatto un decisivo passo avanti, e per completarsi non resterebbe a quel punto che la scelta presidenzialista. Viceversa, una sconfitta dei referendari rappresenterebbe un duro colpo anche ai propositi di revisione costituzionale oltre che agli appetiti maggioritari.

3. Quanto diventerebbe facile modificare la Costituzione
Breve premessa: stiamo parlando di una Costituzione mai veramente applicata nei suoi punti qualificanti, di una Costituzione già ampiamente manomessa da tante leggi bipartisan, di una Costituzione scritta ampiamente superata dalla costituzione materiale fondata sull’intreccio tra le oligarchie economiche e quelle politiche, di una Costituzione resa carta straccia fin dal principio per la subordinazione costitutiva della nazione che “rinasceva” al suo nuovo padrone d’oltreoceano.
E, tuttavia, stiamo parlando di una Costituzione che le classi dominanti vorrebbero comunque modificare in profondità, non fosse altro per far coincidere la forma con la sostanza, per mettere nero su bianco le ragioni del loro dominio.
Bene, la maniera più semplice per modificare la Costituzione (rendendo impossibile il ricorso al referendum, art. 138) è il raggiungimento della maggioranza dei due terzi in entrambi i rami del parlamento.
Qualora il 21 giugno il sì dovesse imporsi, si determinerebbe una situazione tale da rendere possibile, per la prima volta, il verificarsi di questa condizione. Il Pdl potrebbe infatti aggiudicarsi da solo il 54% dei seggi, mentre la Lega (e se necessario l’Udc) fornirebbero i numeri mancanti per arrivare ai due terzi necessari. E’ uno scenario impossibile? Giudichi chi legge.
Certo, non è neppure da escludere che i presuntuosi impotenti (Pd) vogliano partecipare alla riscrittura costituzionale. Ho il massimo disprezzo per costoro e non lo escludo affatto, tanto più che in quel che modo attenuerebbero provvisoriamente il senso di impotenza che ogni tanto si insinua ragionevolmente nella loro (comunque prevalente) presunzione. Non lo escludo affatto, ma bisogna pur ammettere che in quel caso – beninteso, per banali ragioni di mercato politico, non certo per la difesa di nobili principi – i giochi sarebbero un po’ più complicati.
Per quale motivo, allora, spianargli la strada rendendoglieli più semplici?

4. Tattica e strategia
Sottovalutare la portata del referendum del 21 giugno è dunque un errore.
Forse non è un errore grave per chi ha una concezione movimentista (chi se ne frega della politica, delle istituzioni, dello Stato!). E, in maniera apparentemente paradossale, può non essere un errore grave anche per chi coltiva una concezione politicista, tanto un rifugio, una piccola nicchia in cui accovacciarsi, il sistema la troverà sempre per i menopeggisti di ogni risma.
L’errore sarebbe invece assai più grave per chi lavora – senza illusioni, ma nella convinzione della sua necessità – alla ricostruzione di un progetto rivoluzionario.
Proprio chi non affida le proprie speranze né al rito salvifico di manifestazioni inconcludenti, né tanto meno alla pratica politicista dei retrobottega dove un accordo si trova sempre, non può non comprendere l’importanza di questo passaggio.
In fondo si tratta del banale rapporto tra tattica e strategia, laddove è chiaro che la rinascita di una prospettiva rivoluzionaria dovrà essere necessariamente incentrata sulla riappropriazione del concetto di democrazia intesa come potere del popolo.
Ma i grandi progetti si nutrono di battaglie concrete. Quella del 21 giugno è una di queste.
 
5. Sconfiggere il regime bipolare
Tra le tante ragioni del boicottaggio, questa è forse la più importante.
Se l’astensione maggioritaria degli italiani boccerà il bipartitismo, questo non sarà perché gli viene preferito il bipolarismo con il contorno di alleanze a geometria variabile e di mini-partiti a conduzione familiare. Al contrario, la sconfitta del bipartitismo sarà la sconfitta del bipolarismo che del primo rappresenta il naturale sviluppo.
Non a caso i bipolaristi più accaniti di ieri sono i bipartitisti più fanatici di oggi. Dopo l’apoteosi del 1993 (referendum del 18 aprile) i maniaci del maggioritario assoluto sono tornati diverse volte all’attacco, in particolare con due referendum per l’abolizione della residua quota proporzionale (referendum del 18 aprile 1999 e del 22 maggio 2000). Oggi, con l’appoggio degli stessi centri di potere, ci riprovano.
Se verranno sconfitti non saranno solo loro ad aver perso. Avrà perso Berlusconi, padre-padrone del Pdl, avrà perso il Pd, avranno perso i pennivendoli al loro servizio, avranno perso (almeno per una volta) le oligarchie dominanti, avrà perso l’idea di una inarrestabile spinta maggioritaria (e presidenzialista) egemone nel popolo italiano.
C’è dunque la concreta possibilità di dare una seria lezione a tutto il regime bipolare. Possiamo farlo, dobbiamo farlo.
In quanto allo strumento per perseguire questo risultato non possono esserci dubbi. Questo strumento è l’astensionismo. Nei due casi già citati (1999 e 2000) gli ultra-maggioritari vinsero tra i votanti (rispettivamente con il 91% e l’82%), ma persero grazie all’astensionismo (50,4% nel 1999, 67,6% nel 2000).
Questa volta – se Berlusconi deciderà di spingere sul voto dopo le europee, mettendo nel conto la rottura con la Lega – la battaglia potrebbe essere più difficile.
Ma gli argomenti ci sono, le contraddizioni nel fronte avverso anche, la ripulsa popolare verso il sistema politico che sostiene il referendum pure.
Quel che serve è una campagna forte, un’indicazione netta per l’astensione, visto  che il “no” servirebbe solo a far raggiungere il quorum.
Perché non chiamare tutte le forze disponibili alla mobilitazione immediata?