Avevo già rilevato che Obama, appena insediato, aveva preso tempo, ricorrendo a vari espedienti, sulla questione che aveva largamente agitato durante la campagna elettorale della chiusura del lager di Guantanamo.
Adesso, essendo scaduto il termine dei (pochissimi) processi pendenti a carico di alcuni prigionieri, il presidente torna a prendere tempo, facilitato dal Senato che recentemente, con ben 86 voti a favore e tre contrari, ha approvato uno stanziamento supplementare per le guerre in Iraq e in Afghanistan e ha negato i fondi necessari per metter mano allo smantellamento del lager.
Obama chiarisce innanzitutto che non sarà rimesso in libertà nessun detenuto che rappresenti una minaccia per la sicurezza degli Stati Uniti e propone questa soluzione: degli attuali 240 prigionieri alcuni saranno processati dai Tribunali ordinari, quelli ritenuti più pericolosi da Corti militari speciali, altri ancora saranno trasferiti all’estero o rinchiusi in prigioni di massima sicurezza statunitensi.
C’è poi la dichiarazione che in ogni caso non saranno accettate prove estorte con la tortura o con le c.d. testimonianze indirette, rese cioè da non meglio identificati informatori, senza però chiarire se la non accettazione di tali prove ha anche efficacia retroattiva. Cosa di cui dubito, perché il risultato sarebbe quello di dover liberare quasi tutti mentre sostanzialmente non si vuole liberare quasi nessuno.
Quindi le Commissioni militari istituite dall’amministrazione Bush saranno sostituite dalle Corti militari speciali, sul tipo dei Tribunali speciali per la sicurezza dello stato dell’Italia fascista e, cosa forse ancor più grave, per alcuni detenuti non ci sarà neppure modo di istituire alcun processo perché, nonostante l’ampio ricorso a torture e informatori, l’impianto accusatorio non reggerebbe. Poco male: l’amministrazione Obama sta studiando un sistema per prolungare sine die la detenzione amministrativa per la quale è sufficiente la pericolosità di una persona, senza necessità alcuna di formulare un capo di imputazione e imbastire un processo. Tale strumento fu largamente usato dagli inglesi per reprimere le giuste rivendicazioni di indipendenza dei popoli delle colonie ed è in auge, fin dalla sua fondazione, in Israele per soffocare la sacrosanta resistenza palestinese.
Ribadisco quindi che, se a chiusura si arriverà, si tratterà di un evento puramente simbolico da agitare a scopi di propaganda: il regime carcerario e processuale della maggior parte dei prigionieri resterà comunque contrario ai principi del diritto internazionale sulla prigionia di guerra – perché di guerra si tratta – e del diritto processuale penale interno dei Paesi comunemente definiti democratici, perlopiù identificati con l’Occidente e che attribuiscono un ruolo guida proprio agli Stati Uniti.
Infine voglio ricordare che non c’è solo Guantanamo, perché gli Stati Uniti hanno installato strutture simili, se non addirittura peggiori, anche in Iraq e in Afghanistan e nessuno accenna alla loro chiusura né si pone il problema del trattamento sia materiale che giuridico dei numerosissimi prigionieri.