Sbaglia chi considera il conflitto in Darfur come un affare interno al Sudan. Esso è piuttosto un particolare di uno scontro geopolitico ben più ampio che coinvolge tutti i paesi confinanti col Sudan: l’Egitto e la Libia, il Ciad e il Centro Africa, il Congo e l’Uganda, l’Etiopia e l’Eritrea, come pure la Somalia. Tutti questi paesi sono legati l’un l’altro come in un sistema di vasi comunicanti. Se in Sudan i fattori religiosi non sono determinanti, lo sono invece quelli “etnici” e tribali. Non deve stupire in un paese sterminato in cui vivono più di 570 gruppi etnici, si parlano 400 lingue ed esistono migliaia di tribù. Questa complicatissima composizione etnica e tribale aiuta a comprendere lo scontro in atto in Darfur come in Sudan, dove i fronti si compongono e scompongono anche in base agli interessi delle diverse comunità.

 

In genere l’argomento che unisce tutti gli oppositori di al-Bashir, compresi i guerriglieri del J.E.M. (Movimento Giustizia e Eguaglianza) è che in Sudan la minoranza araba delle tribù arabe del Nilo settentrionale monopolizza il 90% del potere mentre gli africani neri del sud e gli arabi dell’Ovest sarebbero emarginati.

Tuttavia né l’etnologia né l’antropologia possono fornirci la principale chiave di lettura del conflitto, che risiede invece nel tenace tentativo delle potenze imperialiste occidentali di riconquistare la supremazia perduta, tentativo che punta al rovesciamento dei governi nazionalisti ostili all’imperialismo e tra questi quello che ha avuto il coraggio di costituirsi come prima trincea di sbarramento, quello sudanese di al-Bashir.

Lo spauracchio cinese

Se la propaganda nordamericana vorrebbe legittimare le proprie mire egemoniche col solito motivetto della lotta al “terrorismo qaedista” (sarebbero in odore di qaedismo non solo i ribelli somali che stanno riconquistando Mogadiscio, ma pure il governo sudanese e forse anche quello eritreo), una geopolitica d’accatto, anzitutto europea, vorrebbe ridurre questo magmatico e complesso conflitto come particolare della competizione tra Usa e Cina. Questa scuola, segnata da un inguaribile riduzionismo economicista, vorrebbe spiegare il conflitto regionale (e dentro questo quello in Darfur) come mera manifestazione della competizione sino-americana per il controllo e l’approvvigionamento delle materie prime. Questo fattore certamente ha un suo peso, ma secondario. Le forze nazionaliste e antimperialiste della regione, quelle sudanesi in primis, respingono sdegnate l’accusa di essere marionette di Pechino. Certo, esse debbono guardare alla Cina come partner economico privilegiato, e ne hanno bisogno per rimpiazzare le rapaci multinazionali occidentali, ma negano risolutamente di ubbidire alla eventuale geopolitica espansiva cinese. Diversi sono gli esempi che si potrebbero portare a conferma di quanto diciamo. Non è questa la sede.
E’ quindi grottesco il modo come certi geopolitici europei, tra cui quelli di Limes, raffigurano lo scontro in questa zona dell’Africa, come se tutti i suoi protagonisti locali fossero fantocci degli americani o dei cinesi. E’ una rappresentazione non solo semplicistica ma cinica, che ha lo scopo di delegittimare le resistenze e i governi antimperialisti. Questi cattivi maestri vorrebbero porsi come consiglieri della “terza forza europea”. A parte il fatto che l’Europa non esibisce neanche in quest’area alcuna ambizione a porsi come “terza forza” tra USA e Cina, si tratterebbe davvero di sciagurati consiglieri: quelli che negano ogni dignità e spessore alle resistenze o a leader come al-Bashir.
Se le forze antimperialiste facessero affidamento anzitutto sul sostegno cinese anziché sulle proprie capacità politiche e/o di combattimento, è come se esse scegliessero di mutilarsi o, addirittura, scegliessero una diversa corda con cui impiccarsi. Esse sono ben lungi dall’illudersi che Pechino possa offrire loro un appoggio incondizionato e, quel che più conta, non invasivo, ovvero rispettoso della loro indipendenza e libertà di manovra.

Il ruolo del Ciad

Il ministro della Difesa ciadiano, Adoum Younousmi ha ufficialmente confermato che truppe di N’Djamena, sostenute dall’aviazione, il giorno 17 maggio, sono penetrate per oltre 40 Km in territorio sudanese. Se Khartoum ha denunciato l’attacco, ricordando che in base alle deliberazioni dell’ONU l’area è interdetta all’aviazione militare di chicchessia, sono restati silenti tutti i paesi occidentali, sempre pronti invece a fare un baccano assordante in occasione di azioni militari attribuite al Sudan. Questa deliberata provocazione, possibile grazie al sostegno che le potenze imperialistiche occidentali forniscono al governo ciadiano (truppe francesi armate fino ai denti sono determinanti nel tenere in piedi il traballante regime di Idriss Deby), è stata giustificata con l’intenzione di attaccare le basi dei guerriglieri ciadiani “sostenuti dal Sudan”.

L’incursione ciadiana oltre confine ha riportato alla ribalta la esplosiva situazione in questo paese, situazione segnata sin dalla indipendenza nel 1960 da una perdurante e mutevole guerra civile tra i governi avvicendatisi (quasi tutti giunte militari) e le diverse opposizioni costrette alla via della lotta armata. Una lotta che per quanto fortemente condizionata dalla multiforme e conflittuale composizione etnica del Ciad (parliamo di almeno un centinaio di gruppi etnici ognuno parlante una propria lingua) ha visto sempre due fronti combattersi: da una parte i governativi appoggiati dall’ex potenza coloniale francese, dall’altra i ribelli, appoggiati dai paesi della regione ostili alla Francia e agli USA. Se una volta era la Libia di Gheddafi il principale alleato della opposizione ciadiana, da alcuni anni, ovvero dopo che Tripoli ha deciso una linea di basso profilo in politica estera, è il Sudan il principale punto d’appoggio delle opposizioni ciadiane.

Il raid del 17 maggio era in particolare rivolto contro uno dei gruppi (precisamente il Fronte Unito per il Cambiamento) che fanno parte dell’U.R.F. (Unione delle Forze della Resistenza) l’alleanza fondata nel gennaio 2008 che raggruppa il grosso delle opposizioni contro il governo di Idriss Deby e che si rifiutarono di deporre le armi nel 2007, quando un accordo di pace fortemente voluto dalla Francia venne siglato tra il presidente-dittatore Deby e il suo avversario, l’ex-ministro della Difesa Mahamat Nour. Non deve stupire che il Sudan appoggi i ribelli ciadiani dell’U.R.F. , poiché N’Djamena non fa mistero di sostenere da parte sua la guerriglia antisudanese in Darfur, anzitutto quella del J.E.M. Sotto ogni profilo il Ciad è una preziosissima pedina dei due paesi imperialisti più presenti in questa vasta regione africana, la Francia e gli USA. Sono infatti finiti, con il brutale ridimensionamento delle ambizioni francesi, i tempi del conflitto strisciante tra Parigi e Washington.

Ma chi è il J.E.M.?

L’ultima azione militare in grande stile da parte dei miliziani del J.E.M. è fresca fresca. Risale al 24 maggio, quando il J.E.M. ha conquistato, dopo violenti combattimenti contro l’esercito regolare sudanese, la cittadina di Umm Baru, 100 chilometri ad est della frontiera con il Ciad nella provincia sudanese del Nord-Darfur. La notizia è stata confermata non solo dal contingente Onu-Unione Africana (UNAMID) ma pure dal governatore della regione, che ha accusato il Ciad di aver affiancato il J.E.M. con proprie truppe. Da parte loro, pur senza dirlo apertamente, le autorità sudanesi sospettano che dietro a queste incursioni (le basi del J.E.M. sono tutte oltre la frontiera del Ciad) vi sia l’assistenza logistica e satellitare degli Stati Uniti e della Francia, paesi che indicherebbero ai miliziani, ogni volta con estrema precisione, dove siano dislocate le truppe regolari e quali siano i punti deboli del loro posizionamento sul vasto terreno del Darfur.
Il J.E.M. (ufficialmente fondato nell’anno 2000 ovvero poco dopo la frattura tra al-Turabi e al-Bashir) salì tuttavia alla ribalta il 10 maggio 2008 quando sferrò una improvvisa offensiva che giunse alla periferia occidentale di Khartoum, esattamente nella città di Omdurman. L’offensiva venne respinta, ma da allora il J.E.M. si pose come il più agguerrito movimento armato d’opposizione al regime di al-Bashir.

Fino a poco tempo prima sembrava che la principale forza guerrigliera che si battesse in nome delle minoranze non arabe del Darfur fosse lo S.L.A. (Esercito di Liberazione del Sudan). Fu infatti lo S.L.A. al comando di Minni Arkou Minnawi, nel febbraio 2003, ad iniziare la lotta armata in Darfur contro le truppe regolari sudanesi. Lo spazio per il J.E.M. si aprì nel 2006, quando lo S.L.A. firmò degli accordi di pace col governo di al-Bashir. Forte delle sue retrovie in Ciad e dell’appoggio occidentale, il J.E.M. si rifiutò di siglare quegli accordi perseguendo la strada dello scontro frontale.
Lo S.L.A. in effetti non era, come il J.E.M. sorto come longa manus delle potenze imperialiste occidentali. Era piuttosto un prodotto della crisi tutta endogena del Darfur. Esso si pose come milizia di autodifesa delle comunità contadine nere appartenenti in larga parte alle tre etnie dei Fur, degli Zagawa e dei Masalit le quali, dopo la devastante carestia del 1987, dovettero subire l’aggressiva pressione delle tribù nomadi arabe (a loro volta organizzate nelle milizie Janjaweed).

Il governo di Khartoum, davanti a questo conflitto, subì una pesante scissione. Hassan al-Turabi, noto intellettuale dell’Islam politico sudanese e vero artefice dell’ascesa di al-Bashir, decise di sostenere le ragioni dei ribelli darfuriani entrando così in un aperto conflitto con quest’ultimo il quale, alla fine, vinse la partita e cacciò al-Turabi e i suoi numerosi sostenitori dai posti che occupavano nelle istituzioni di Khartoum.
Sconfitto ed emarginato al-Turabi, lo S.L.A. (comunque mai secessionista) firmò nel 2006 con il governo di Khartoum gli accordi di pace che prevedevano la cessazione delle ostilità in Darfur in cambio di una più equa ripartizione delle risorse nonché di una democratizzazione delle istituzioni di Khartoum e di un sistema nazionale davvero federale. Fu dopo questi accordi che lo S.L.A. subì delle fratture interne, la cui principale quella tra la frazione guidata da Minnawi (di etnia Zagawa) e quelli fedeli a Muhamed el-Nur (di etnia Fur). La crisi dello S.L.A., che tuttavia non depose le armi, fu accentuata dal fatto di dover far fronte all’ostilità del J.E.M., che attaccò e continua ad attaccare ancora oggi le roccaforti dello S.L.A.

Tornando al J.E.M. (i cui comandanti sono di etnia Zagawa proprio come il dittatore ciadiano Idriss), sarebbe un errore pensare che esso goda solo dell’appoggio del Ciad e di Stati Uniti e Francia. Ridimensionato lo S.L.A., tutti sanno in Sudan che il J.E.M. ha mantenuto stretti contatti con Hassan al-Turabi il quale non fa mistero di sperare in una sconfitta delle truppe sudanesi in Darfur nella prospettiva di sconfiggere al-Bashir e ritornare al potere. Per dare una cifra di quale sia la attuale linea politica di al-Turabi e del suo ex-Fronte Nazionale Islamico, basti dire che è giunto addirittura a considerare legittimo (sic!) il mandato di cattura spiccato contro al-Bashir dal Tribunale penale internazionale.
Accomunano il J.E.M. e al-Turabi non solo il formale riferimento all’islam, ma l’obbiettivo dichiarato di un federalismo radicale che trasformerebbe il Sudan in uno sgangherato agglomerato di regioni semi-indipendenti (c’è il nome di questa entità: Regioni Unite del Sudan). C’è di peggio. Ricordiamo che un referendum è previsto nel sud Sudan nel 2011, un referendum col quale i sud sudanesi (vedi la storica guerriglia indipendentista dello S.P.L.M. (Movimento di Liberazione del Popolo sudanese) potrebbero scegliere l’indipendenza. Il J.E.M. ha formalmente dichiarato che se i sud sudanesi voteranno per staccarsi da Khartoum, essi dichiarerebbero a loro volta morto il Sudan come entità nazionale unitaria e si batterebbero per uno stato indipendente ad occidente del Nilo, comprendente non solo il Darfur, ma pure le regioni del Kordofan e dell’Omdurman.
Come se tutto questo non bastasse, e a chiarimento sulla natura delle forze in campo, nel febbraio scorso, Abdel-Wahid Al-Nur, dirigente di spicco del S.L.M. (Movimento di Liberazione dl Sudan – uno dei gruppi che in Darfur combattono contro le forze regolari sudanesi) si è recato in Israele su invito delle autorità sioniste, le quali non hanno mai smentito di sostenere militarmente lo stesso J.E.M.

Il disegno imperialista

Quale potrebbe essere la sorte del Sudan in caso di vittoria del J.E.M. e della cerchia di al-Turabi è quindi evidente: la scomparsa di questo paese come soggetto politico unitario e la nascita di micro-stati formalmente sovrani ma tutti in verità protettorati neocoloniali. E’ quindi proprio sul piano strategico, oltre che quello tattico di rovesciare il governo di al-Bashir, che gli interessi delle potenze imperialiste convergono con quelli del J.E.M. e dei gruppi guerriglieri ad esso alleati. Un disegno già applicato con successo in Jugoslavia e in via di compimento in Iraq. Che all’impero americano non piacciano stati-nazione forti e gelosi della propria sovranità è risaputo. Che esso desideri il loro smembramento puntando sugli attriti interni, siano essi politici, etnici o addirittura tribali è altrettanto noto. Il tradizionale divide et impera insomma, ma all’ennesima potenza (strategia della guerra preventiva permanente).
Non è solo al rovesciamento di al-Bashir dunque, che sono finalizzati il mandato di cattura del TPI e la sfrontata campagna mediatico-holliwoodiana “contro il genocidio in Darfur”. Dietro c’è la visione del mondo, non solo in senso filosofico ma geopolitico, del potere imperiale. Un impero unico a guida americana in cui sopravviveranno come stati-nazione formalmente indipendenti solo i paesi già vassalli, mentre quelli ostili o potenzialmente tali, dopo essere stati bollati come “stati canaglia” o “stati falliti”, verranno squartati, ridotti in poltiglia. Il tutto ovviamente allo scopo di meglio depredarli a tutto beneficio dell’Impero. L’importanza straordinaria che gli americani attribuiscono al Sudan, prima ancora che per le ricchezze del suo sottosuolo, dipende appunto dal fatto che questo immenso paese è un importante banco di prova per convalidare la loro strategia imperiale. Chi spera che Obama inverta questo disegno si sbaglia di grosso, visto anche che egli sta seguendo, non solo in Africa, il sentiero strategico affermatosi a Washington dopo il crollo dell’URSS.