Chi intenda partecipare al referendum elettorale del 21 giugno, sappia che un’eventuale vittoria dei segnerebbe la fine anche formale di quel pochissimo di democrazia rappresentativa che ancora rimane nel nostro Paese.

Benché i “grandi” media – tutti impegnati a rimestare nel letamaio velinaro – ne parlino poco o punto, esiste infatti un infausto precedente storico che ha molte analogie con l’attualità e che dovrebbe aprire gli occhi ai distratti. Il 18 novembre 1923, il Senato del Regno d’Italia approvò la cosiddetta Legge Acerbo, ossia la riforma elettorale elaborata da un certo Giacomo Acerbo, deputato fascista e sottosegretario alla presidenza del Consiglio nel governo presieduto da Benito Mussolini. Sfacciatamente intesa a favorire il Partito Nazionale Fascista in nome della “governabilità”, tale legge assegnava alla lista che avesse ottenuto il 25% dei voti i 2/3 dei seggi parlamentari. A questa palese aberrazione, che calpestava il principio cardine della rappresentatività democratica – una testa, un voto – soltanto il Partito Comunista d’Italia e il Partito Socialista Italiano (sia reso loro onore postumo) si opposero strenuamente. Ma non ci fu nulla da fare, perché la vecchia classe dirigente liberale – imbelle, codarda e ormai marcescente – aveva deciso di suicidarsi, e la Legge Acerbo gliene offrì l’arma. La riforma trovò immediato riscontro alle successive elezioni del 6 aprile 1924, quando il cosiddetto “listone” fascista consegnò legalmente a Mussolini il pieno controllo del Parlamento. Fu uno degli esempi più clamorosi della differenza e addirittura del contrasto che può intercorrere fra legalità e legittimità. In compenso, la “governabilità” venne indubbiamente assicurata: per vent’anni.

Ora, se domenica il referendum raggiunge il quorum e prevalgono i sì, avremo un sistema elettorale peggiore non solo di quello attuale, partorito dal leghista Calderoli e da lui stesso definito “una porcata”, ma perfino di quello introdotto dalla famigerata Legge Acerbo. La riforma proposta dalle menti illuminate dei professori Guzzetta e Segni prevede infatti che a prendersi il 55% dei seggi non sia più la coalizione vincente, come avviene ora, bensì il partito che ottenga anche soltanto un voto in più degli altri. Quanto sia iniqua tale innovazione lo dimostra un semplice esempio: se alle elezioni si presentano cinque partiti, e quattro raccolgono ciascuno il 19.9% dei voti, il quinto – prendendo solo una manciata di voti in più, ossia il restante 20.4% – ha diritto al premio di maggioranza, e dunque a governare da solo. Ma questa è ovviamente un’ipotesi accademica, e in fondo la migliore delle ipotesi. Perché nella concreta realtà italiana, la riforma consegnerebbe su un piatto d’argento una vittoria schiacciante al PdL, che a quel punto potrebbe governare in assoluta e indisturbata solitudine, senza più bisogno della stampella leghista. Berlusconi verrebbe insomma legalmente incoronato dominus dai suoi presunti avversari. Non per nulla il Cavaliere si è subito dichiarato a favore del , con gran dispetto di Bossi, che minaccia sfracelli. Di Pietro, che stupido non è, si è pentito dell’iniziale sostegno al referendum e adesso invoca l’astensione.

Confermando la loro superiore intelligenza politica, i vertici del PD hanno invece deciso di appoggiare il , nella speranza – tanto cinica quanto infondata – di poter un giorno approfittare di un meccanismo che resta antidemocratico qualunque sia il partito che ne risulti avvantaggiato. La cosa non stupisce, perché segna un ulteriore passo verso il baratro da parte dei “riformisti”. Non contenti del bipolarismo e ormai convertiti al bipartitismo, i litigiosi boiardi del PD dovrebbero a questo punto riconoscere in Marco Pannella il loro vero leader: dopo una miriade di referendum inutili e falliti, centinaia di patetici digiuni ricattatori, e trent’anni di grottesca polemica contro la “partitocrazia” – ossia contro il sistema proporzionale – il vecchio liberale-liberista-libertario sta infatti per vedere premiati i suoi sforzi perché anche l’Italia si appiattisca definitivamente sul modello anglo-americano.

Con la vittoria del , gli italiani seppellirebbero i resti della democrazia parlamentare, e a fungere da becchini, questa volta, sarebbero proprio i sinistri eredi del PCI e del PSI. I loro padri si rivoltano nella tomba, ma che importa? Per confermarsi proni ai voleri dell’oligarchia dominante e assicurare la “governabilità”, si fa questo ed altro.