L’astensionismo primo partito anche in Italia
Più di un italiano su tre – per l’esattezza il 35,0% – domenica si è astenuto. L’Europa è sempre meno di moda anche nel nostro paese.
Come sempre, dopo ogni votazione, la discussione scivola sui dettagli. Le percentuali vengono tirate in largo e lungo, si misurano le variazioni non solo sulle elezioni precedenti, ma anche sulle attese. E se le europee sono andate male ci si consola con le amministrative o viceversa.
In mezzo a tanti dati, quello sulla crescita dell’astensione è però quello più netto e significativo. Quasi 18 milioni di elettori non si sono recati al seggio: 4 milioni in più del 2004, 7 milioni e mezzo in più delle politiche del 2008.

In totale, calcolando anche le schede bianche e nulle, hanno espresso un voto 30 milioni e 600mila persone su 50 milioni e 300mila elettori chiamati alle urne.
E’ vero che si è pur sempre votato assai più che in Francia, Germania e Gran Bretagna, ma si tratta comunque di un’autentica valanga, un segnale inequivoco contro l’Europa e le sue istituzioni, contro il sistema politico italiano ed i suoi partiti.
Non stupisce che il ceto politico dominante voglia oscurare questo dato. Preoccupa invece la tendenza diffusa a non vederne le potenzialità, consolandosi magari con qualche zerovirgola del tutto ininfluente.

Frena il bipartitismo, regge il bipolarismo
Chiarito che il 40% degli italiani ha scelto di rimanerne fuori, è certamente utile capire come si è comportato il restante 60%.
Alcuni dati sembrano abbastanza chiari, purché si sappia che i risultati elettorali ci parlano solo in parte, ed in genere in maniera abbastanza distorta, dei processi reali che investono la società. Al tempo stesso va saputo che in alcuni casi i dati possono essere fortemente influenzati da fatti contingenti capitati durante la campagna elettorale: chi non ricorda il sorpasso del Pci alle europee del 1984 sull’onda della morte di Enrico Berlinguer?

Il primo elemento da sottolineare è la brusca frenata subita dalla tendenza al passaggio dal bipolarismo al bipartitismo. I primi due partiti italiani (Pdl e Pd), che un anno fa avevano complessivamente il 70,6% dei voti, sono oggi arretrati al 61,4%. La prima conseguenza di questo stop è la morte certa del referendum ultra-maggioritario del 21 giugno, la cui pericolosità antidemocratica abbiamo già segnalato in precedenti articoli.
E’ vero che Fini scalpita. E’ vero che forse il Pd sarà tentato di superare a destra il Pdl, ma con un Berlusconi azzoppato e bisognoso della Lega il referendum non ha alcuna chance di ottenere il quorum del 50%+1 necessario alla sua approvazione, e questo è molto positivo.

Il secondo elemento, una vera sorpresa anche per chi scrive, è rappresentato dall’arretramento del Pdl (-2,1%, -2 milioni e 800mila voti).
Probabilmente questo insuccesso è dipeso in primo luogo dalle vicende delle ultime settimane, ma non per questo non avrà conseguenze assai importanti. “Lo stop colpa di Sicilia, mia moglie e Kakà”, questa la sintesi (surreale?) del Cavaliere azzoppato riferita dal Corriere della Sera del 9 giugno.
Ma oltre al calcio, al gossip ed alle beghe locali è difficile pensare che non ci sia dell’altro. Non sarà che la crisi economica comincia a produrre qualche effetto sui consensi al governo?
Naturalmente, lo stop imposto a Berlusconi non significa che il blocco reazionario che gli si raccoglie attorno sia in fase disgregativa, ma resta il fatto che le due soglie-obiettivo – 40% per il Pdl, 50% per la coalizione di centrodestra – sono state mancate entrambe di un 5%: non è poco.

Il terzo elemento è invece la tenuta del bipolarismo. Mentre i partiti principali arretrano, i secondi delle coalizioni del 2008 (Lega da una parte, Idv dall’altra) avanzano entrambi. Allo stesso tempo chi era sotto la soglia del 4% nel 2008 c’è rimasto anche nel 2009.
Il significato appare chiaro: c’è scontentezza per la politica dei due partiti principali, ma essa si esprime con il consenso all’alleato più vicino. Insomma, la logica bipolare è veramente penetrata nel profondo della società italiana, inutile farsi illusioni che così non sia.

La sconfitta del Pd
Se c’è una sconfitta ancora più pesante di quel che appare questa è la sconfitta del Pd.
Un anno fa questo partito a “vocazione maggioritaria” raccoglieva il 33,2% dei voti, oggi si ferma al 26,1%. Un -7,1% (con una perdita di  4 milioni e 100mila voti) pesantissimo, che però una parte del gruppo dirigente saluta come “tenuta”.
Vedremo cosa accadrà in vista del congresso, ma non sembra irrealistico pensare ad una nuova resa dei conti interna.

La sconfitta è più pesante di quel che appare perché non è vero che in questa circostanza non abbia pesato il richiamo del voto utile. Ha pesato, eccome, come si deduce dai risultati di tutte le liste minori. Il Pd ha dunque un consenso inferiore agli stessi voti raccolti, ma in ogni caso il suo risultato porta ad un allargamento della forbice con il Pdl, che passa da uno scarto del 4,2% del 2008 ad uno del 9,2% quest’anno. Non è poco nell’ottica bipartitica, e comunque anche la forbice tra le due coalizioni si è ulteriormente dilatata a favore della destra.

Ma il problema per il Pd sarà innanzi tutto quello di una coalizione da ricostruire ex novo.
Mentre Berlusconi ha risolto questo problema con la fondazione del Pdl da un lato ed il patto di ferro con la Lega dall’altro; il Pd ha al proprio interno chi guarda verso l’Udc, chi pensa a recuperare a sinistra, chi addirittura non vuol saperne di Di Pietro. Ovviamente saranno proprio i meccanismi bipolari a spingere per nuove alleanze, ma come impedire una ricaduta nella Babele dell’Unione di prodiana memoria?
La difficoltà di ricostruire una qualche forma di coalizione non sta solo nelle diverse posizioni dei possibili contraenti di un nuovo patto, quanto nei loro diversi interessi che – a differenza della coalizione berlusconiana – non sanno trovare né un vero cemento, né un’autentica leadership.
 

Lo spareggio-salvezza che non ha salvato nessuno
Quello tra Prc-Pdci e Sl (Sinistra e libertà) è stato un vero spareggio-salvezza, ma alla fine non si è salvato nessuno. Resta il fatto che il 3,4% dei primi ed il 3,1% dei secondi dà un totale che è più del doppio del 3,1% raccolto nel 2008 dall’Arcobaleno.
Se la confusa ammucchiata raccoltasi attorno a Vendola non aveva in partenza alcuna possibilità di superare il quorum, diverso è il discorso per l’accoppiata Ferrero-Diliberto. Costoro, sulla carta, potevano farcela, se solo fossero stati capaci di mettere in piedi uno straccio di iniziativa di opposizione. Invece sono rimasti immobili, incapaci di mordere, soprattutto incapaci di rompere veramente con il menopeggismo e con la logica bipolare.

Dopo il disastro dello scorso anno avevano la possibilità di riprendersi. Ma senza coraggio non si va da nessuna parte. L’occasione l’hanno sprecata nel loro penoso immobilismo e ben difficilmente ne avranno un’altra.
Se la rotta di Vendola & C. verso il Pd è già tracciata, quella del Prc-Pdci appare più difficile ed a rischio. Ma alla fine la direzione sarà la stessa: un nuovo riflusso moderato, dall’esito incerto ma comunque letale per ogni prospettiva di opposizione anticapitalista conseguente.
Del resto il gruppo dirigente di questi due partiti è quello che è. Figlio legittimo dei due vecchi padri-padroni Cossutta e Bertinotti, questo gruppo dirigente ha tutti i difetti dei predecessori senza averne un pregio.
Ora sono già cominciate le litanie su una “nuova” unità della sinistra e sui “nuovi” cantieri da aprire.
La cosa è più che altro fastidiosa. L’unico consiglio che ci sentiamo di dare è di infischiarsene totalmente: da lì ormai non potrà venire più niente. Non per il risultato elettorale, ma per l’opportunistico immobilismo che l’ha prodotto, quello sì un indicatore infallibile di un percorso ormai prossimo al capolinea.

Ed ora?
La delegittimazione delle istituzioni europee grazie al crescente astensionismo e la battuta d’arresto subita dal partito berlusconiano sono certamente gli aspetti più positivi delle elezioni di domenica scorsa.
Sia chiaro: si tratta di elezioni che non cambiano in maniera significativa il quadro generale, mentre confermano tendenze già in atto da tempo.
Questo non vuol dire però che la situazione sia stabile, tanto più in presenza della più grave crisi economica del dopoguerra. 

Se è vero che il sistema ha assorbito assai bene la prima ondata della crisi, evitando che il conflitto sociale si accendesse; è altrettanto vero che non si vede all’orizzonte una credibile fuoriuscita dalla crisi.
Questo è il nodo che spaventa le classi dominanti ed i politicanti bipartisan.
In questo l’atteggiamento delle varie forze politiche ha un tratto comune assai impressionante, quello di evitare di confrontarsi con il carattere strutturale e sistemico della crisi.
Se il Pdl favoleggia di una crisi “psicologica” e la Lega pensa di affrontarla con la xenofobia, dall’altra parte per il Pd è solo un problema di buongoverno e per l’Idv addirittura una questione giudiziaria.
Anche la sinistra ex arcobalenica non è messa meglio, dato che si affida unicamente ad un armamentario sindacale finalizzato soltanto ad ammortizzare le tensioni sociali.

Non è questa la sede per affrontare questo discorso, ma se è verosimile che l’esito elettorale sia stato influenzato dal quadro fosco di una crisi senza sbocco, è ancora più certo che proprio lì si giocherà la partita dei prossimi mesi.
Il berlusconismo ha subito uno stop, e questo è bene. Ma ora il problema è l’opposizione e la costruzione di una prospettiva strategica anticapitalista.
Può sembrare troppo, ma senza questa prospettiva ogni opposizione avrebbe il fiato corto.
Abbiamo invece bisogno di un’opposizione forte ed immediata, ma anche consapevole e capace di un progetto di trasformazione.
Ci attendono tempi duri, e non sarà possibile affrontarli con le modalità della politica leggera degli ultimi decenni.