Cosa ci dicono le elezioni libanesi

La scheda sul macchinoso e sostanzialmente confessionale  sistema elettorale libanese pubblicata l’altro ieri serviva a mettere in guardia coloro che vorrebbero spiegare le dinamiche politiche e sociali di questo paese usando la pietra angolare (occidentalizzata) dei risultati elettorali. La vittoria indiscussa ma non schiacciante del “Blocco del 14 marzo” capeggiato da Hariri e apertamente sostenuto dagli U.S.A., dall’Unione Europea, dalle satrapie arabe nonché da Israele, non equivale ad una sconfitta della Resistenza nazionale né, tantomeno, di Hezebollah. Analizzati in controluce i risultati elettorali dimostrano che il Libano resta un paese seduto sopra un vulcano in procinto di eruttare.

 

Il valore internazionale delle elezioni

Se il Medio Oriente era e resta il centro nevralgico delle tensioni internazionali, il Libano ne rappresenta il terminale più sensibile. In un certo senso è vero che quelle libanesi sono state elezioni mondiali. Non è un mistero per nessuno che gli U.S.A., gli europei e l’Arabia Saudita abbiano riversato nelle casse dello schieramento di Hariri milioni di dollari allo scopo di finanziare la loro asfissiante campagna elettorale. Lo stesso cardinale maronita Nasrallah Butros Sfeir era dovuto intervenire per denunciare i colossali flussi di denaro provenienti dall’estero, ammonendo che essi compromettevano la competizione elettorale. Ciò infatti è accaduto platealmente, visto che molti elettori hanno venduto il loro voto alla coalizione di Hariri per una cifra oscillante attorno agli 800 dollari, mentre molti emigrati sono tornati a votare grazie ai biglietti gratuiti offerti loro da comitati a vario titolo collegati ad Hariri. Elezioni mondiali per eccellenza in cui pochi “grandi elettori” straneri hanno avuto un peso determinante.
Parliamo anzitutto degli Stati Uniti e di Israele. Come da noi segnalato ha avuto un peso enorme la visita del vice-presidente americano Joe Biden, che non ha solo incontrato i leader del Blocco del “14 marzo” ma ha affermato senza alcun pudore il suo sostegno ad Hariri, minacciando i libanesi che ove Hariri avesse perso, gli U.S.A. avrebbero cessato di fornire aiuti e assistenza al paese. A questa pesantissima ingerenza ha fatto seguito nientemeno che il ministro della guerra israeliano Ehud Barak che ha minacciato i libanesi affermando che una vittoria di Hezbollah avrebbe costretto l’esercito sionista a “…prendersi quella libertà d’azione che non ebbe nel luglio 2006”. Detto altrimenti una invasione su larga scala —invasione, sia detto di passata, che Israele non solo brandisce ma che secondo i più attenti analisti starebbe già preparando.
A Stati Uniti e Israele hanno fatto eco i governanti egiziani e sauditi che sono intervenuti a gamba tesa nella competizione elettorale spalleggiando il Blocco del “14 marzo”.
Neanche Mahmoud Ahmadinejad ha potuto evitare l’autogol di dichiarare il proprio aperto appoggio al Blocco della Resistenza nazionale, provocando con ciò non pochi guai alla medesima, accusata di essere una mera pedina della politica estera iraniana. E’ dovuto intervenire il numero due di Hezbollah Naim Kassem a limitare i danni di questa uscita e a sfumarla.
La vittoria del Blocco del “14 marzo” segna certo un punto a favore della santa alleanza imperialista, dell’obamismo in particolare, ma si tratta di una vittoria alquanto relativa e aleatoria. Essa ha due obbiettivi, uno tattico e l’altro strategico. Quello tattico, togliere alle forze della Resistenza nazionale il loro diritto di veto nel Consiglio dei Ministri (di cui fanno parte dopo gli Accordi di Doha del maggio 2008), e dunque di quello strategico: il disarmo di Hezbollah. Nonostante il successo elettorale nessuno di questi due obbiettivi sembra realistico. Non solo occorrerebbe stracciare gli Accordi di Doha (che sanciscono il diritto di Hebollah a mantenere proprie milizie armate fino a quando permarrà il conflitto con Israele), occorrerebbe che il Presidente Suleiman, eletto in quanto garante della pacificazione nazionale, venga rimosso, o quantomeno che passi armi e bagagli con il Blocco del “14 marzo”. Entrambi questi passaggi, tutti lo sanno in Libano, sono dirompenti, aprirebbero le porte dell’inferno e della guerra civile. Lo sa tanto bene il vincitore delle elezioni Hariri, che ha rilasciato dichiarazioni alquanto biforcute ma concilianti. Egli deve anche mettere nel conto, nel caso osasse spingersi a stracciare gli Accordi di Doha, uno spappolamento del suo blocco. Il druso Jumblatt ha già messo le mani avanti, non solo affermando che Hariri non deve montarsi la testa, ma allacciando contatti con il Blocco della Resistenza nazionale.
Stallo, questo è il termine giusto per descrivere la situazione libanese dopo le elezioni del 7 giugno.

 

Una nazione incompiuta

La guerra psicologica orchestrata dalle potenze imperialiste, tesa a strappare consensi tra gli elettori con l’utilizzo simultaneo della carota obamiama e del bastone israeliano per aizzarli contro Hezbollah, ha avuto un peso enorme nella contesa, ma questo fattore solo non spiega la vittoria del blocco reazionario.
Altri due sono i fattori fondamentali senza tener conto dei quali ogni veritiera comprensione delle dinamiche politiche libanesi risulterebbe preclusa: il peso delle divisioni confessionali e religiose (non si dica “etniche”, per l’amor di Dio!, dato che in Libano nemmeno gli armeni si considerano una “etnia”) nella vita sociale e politica libanese da una parte, dall’altra quello dello stato di guerra col potentissimo vicino israeliano.
In Libano le affiliazioni religiose giocano un ruolo decisivo, certamente più importante, tanto per fare un esempio, che quelle tribali o di clan in Iraq. Decenni di guerra civile nonché di conflitti con Israele hanno rafforzato queste adesioni comunitario-religiose, al punto che esse prevalgono sul senso di appartenenza alla nazione libanese, al punto che esse hanno la meglio sullo Stato e quegli organismi istituzionali che formalmente dovrebbero essere a-confessionali. Non c’è alcuna autorità in questo paese che possa esercitare un ruolo di primus inter pares, tantomeno di super partes.
In buona sostanza il paese è una turbolenta confederazione di sette e lo Stato non può adottare alcuna decisione senza il loro consenso. L’interesse pubblico o generale viene dopo quelli particolari e comunitari (sedici sono i gruppi confessionali riconosciuti a cui spettano de jure seggi in Parlamento). Come è stato documentato nella scheda pubblicata l’altro ieri, questo carattere di nazione-mosaico, di confederazione di sette religiose, si esprime in una forma chimicamente pura e cristallizzata, sia nella tripartizione delle maggiori cariche istituzionali (Cristiani, sunniti e shiiti) sia nel sistema di voto fondato sulle quote di rappresentanza, concepito per assicurare un seggio in Parlamento a tutte le confessioni, anche le più insignificanti dal punto di vista storico e numerico. Ciò produce un gioco complicatissimo di alleanze e controalleanze, sempre esposte a mutevoli riposizionamenti e passaggi di campo.
Il fatto che il Libano sia un centro geopolitico nevralgico, e che sia allo stesso tempo un paese che deve la sua relativa prosperità al fatto di essere il centro finanziario del Medio oriente, acutizzano le tensioni tra le diverse sette ( la controprova negativa è il declino recente che ha conosciuto il pur tradizionalmente forte Partito comunista). A ragion veduta Khaled Ghazal, opinionista conservatore del quotidiano al-Hayat, scriveva poco prima delle elezioni: «I discorsi e le pratiche politiche attuali sono il preludio della guerra civile, la quale normalmente esprime la profondità delle divisioni all’interno della società, e l’impossibilità di giungere ad un accordo fra coloro che la compongono. I discorsi che si fanno sono infatti tipici discorsi da guerra civile. Ad essi non manca che il ricorso alle armi».
Questa permanente latenza di guerra civile è a sua volta approfondita dal fatto che le due coalizioni principali si sfidano non tanto e non solo per decidere chi debba avere il controllo delle leve del potere, ma pure per stabilire quale debba essere la collocazione geopolitica del Libano, se a favore o contro Israele. Si può anzi dire che il primo fattore dipenda dal secondo. Ognuno capisce quanto profondo sia il solco che separa coloro i quali hanno combattuto e vinto la recente guerra con Israele e i loro avversari interni che si comportano come quinta colonna dei sionisti e che brigano addirittura per disarmare la Resistenza di Hezbollah e dei suoi alleati.
Alcune anime belle occidentali, con la spocchia “democratica” che li distingue, guardano dall’alto al basso il puzzle libanese affermando che nessuna setta o blocco di sette meriterebbe alcuna simpatia. In virtù del paradigma laicista e liberal-progressista mettono tutti i protagonisti libanesi nello stesso sacco del “confessionalismo”. Essi non vogliono vedere che essendo il Libano cruciale campo di battaglia tra il blocco imperialista-sionista e le Resistenze arabe, musulmane e cristiane, il primo indiscutibile criterio di giudizio non può che essere strategico e internazionale. I libanesi ce l’hanno talmente chiaro in testa, questo principio, che ogni volta che qualche intellettuale occidentalizzante ha provato nell’ultimo decennio ad elevarsi sopra la mischia proponendo un movimento politico “indipendente” è finito anzitempo nel dimenticatoio.
O di qua o di la, non c’è spazio in Libano né nel mezzo, né sopra né al di sotto.

 

Le elezioni del sette giugno

Ma quali sono stati gli aspetti salienti della tornata elettorale che ha sancito la risicata vittoria del Blocco del “14 marzo”?

1. Ci si aspettava uno sfilacciamento dei tradizionali blocchi politico-religiosi, che gli elettori si sarebbero svincolati dalle tradizionali appartenenze confessionali, invece abbiamo avuto che ogni comunità ha ubbidito compatta ai propri notabili; ciò è stato vero per gli shiiti ma anzitutto per i sunniti. Ciò è confermato dal fatto che gli elettori, molto più massicciamente che nelle precedenti elezioni, hanno imbucato nelle urne le liste prestampate consegnate loro dai differenti raggruppamenti all’ingresso dei seggi, invece di compilare quelle in bianco distribuite dagli scrutatori.
2. La principale sorpresa è venuta dalle circoscrizioni elettorali (kazas) miste, ad esempio quella di Beirut-1, Zhale e Koura, dove i sunniti hanno non solo votato in massa per i candidati del Movimento Futuro di Hariri, ma per quelli cristiani di Geagea (e Gemayel), determinando la sconfitta del Movimento Libero Patriottico di Aoun. In poche parole ciò significa che il Blocco della Resistenza Nazionale non solo non ha sfondato tra gli elettori sunniti ma ha addirittura perso i consensi che aveva.
3. Hezbollah, che certo non può lamentarsi per il risultato ottenuto, aveva in effetti sperato di strappare più ampi consensi tra i sunniti, sfumando allo scopo il carattere confessionale delle sue liste, inserendo diversi indipendenti, calcando forte sul proprio aspetto patriottico della propria campagna. Se queste aspettative sono andate deluse, se i sunniti hanno votato compattamente in base al criterio di appartenenza confessionale è forse anche perché essi malsopportarono quello che la Resistenza definisce “il giorno glorioso”, ovvero la sonora lezione inflitta alle milizie sunnite, proprio nelle loro roccaforti di Beirut, il 7 maggio del 2008.
4. Questa cristallizzazione confessionale ha del resto funzionato anche nel versante opposto, visto che nelle regioni a maggioranza cristiana come Baabda, Jbeil e Jezzine gli shiiti hanno votato compatti, oltre che per i propri, per i candidati di Aoun, determinando la loro schiacciante vittoria su quelli di Geagea.
5. Evidente, rispetto alle elezioni del 2005, il calo di consensi nelle zone a maggioraza cristiana, alla lista di Aoun. Il quale sembra aver pagato un prezzo per la sua alleanza con Hezbollah e per avere aspramente polemizzato sia con il presidente Suleiman che col patriarca maronita Butros Sfeir, ovvero le due cariche prestigiose che simboleggiano la cristianità libanese. Nonostante questa sconfitta, ma solo grazie al voto massiccio degli shiiti nelle kazas miste, la lista di Aoun ha tenuto, potendo costituire in parlamento il secondo gruppo più numeroso dopo quello del Movimento Futuro di Hariri. 
6. Jumblatt, com’era prevedibile, ha vinto nelle kazas del Chouf e di Aley, ma ha perso pezzi importanti altrove. Secondo alcuni analisti libanesi ciò sarebbe la conseguenza del suo avvicinamento a Berri e del suo tentativo di pacificazione coi siriani.

Più sopra indicavamo col termine “stallo” il senso più profondo dei risultati usciti dalle urne. I due blocchi politici e confessionali sono andati alla conta e sanno di equivalersi sostanzialmente sul piano dei consensi. Ma se i voti si contano, essi si pesano pure: la vittoria di Hariri è una battuta d’arresto per la Resistenza, che resta tuttavia immensamente più forte sul piano militare. In questa situazione di stallo nessuno puo’ sperare di governare contro l’altro. É dunque prevedibile che il prossimo esecutivo resti un governo di unità nazionale, che il diritto di veto per l’opposizione resti e che nessuno tenterà davvero di provocare Hezbollah esigendo la consegna delle armi.