Nell’imperversare della crisi, le analisi e le ricette per uscirne sono venute da più parti. Ci occuperemo di una delle tesi che ha un certo seguito in campo anticapitalista, poiché le analisi e le proposte che provengono, ad esempio, dalla “sinistra democratica” non meritano commento, visto che non si discostano nella sostanza da quelle formulate dal potere economico finanziario.

Una posizione originale, e un po’ sconcertante*, è quella che sostiene l’inutilità, se non la dannosità, di battersi per difendere e migliorare il welfare e chiedere un forte intervento della spesa pubblica nei servizi e nelle infrastrutture. Anche quello che contraddice questa tesi, quello che per esempio sembra fare la Cina per contenere gli effetti distruttivi della crisi e rilanciare l’economia, non è preso in considerazione
Ma allora la Cina, spesso indicata come potenza emergente che insidia il dominio fino ad oggi pressoché integrale dell’America, sbaglia? Sembrerebbe di sì, e comunque questa non sarebbe la strada per un paese come l’Italia.
A sostegno di questa tesi si afferma che anche il New Deal rooseveltiano non riuscì a far uscire gli USA dalla famigerata crisi del 1929, che fu superata soltanto con la seconda guerra mondiale.
Naturalmente in ciò c’è del vero, poiché se una delle componenti principali della crisi capitalistica è la sovrapproduzione, cosa c’è di più potente della “distruzione creativa” della guerra?
Però una spesa pubblica indirizzata ai bisogni primari della popolazione, e al miglioramento dei servizi sociali, può essere un elemento molto importante per affrontare la crisi contrastandone le ripercussioni negative, e anzi essere un volano per la ripresa economica. Un esempio probante, accettato en passant anche dai marxisti di cui sopra, viene anche dalla politica sociale del Terzo Reich.
Com’è noto, la prima guerra mondiale e poi la Repubblica di Weimar, avevano lasciato la Germania in condizioni disastrose, con un’iperinflazione totalmente fuori controllo e miseria dilagante tra la popolazione. I nazisti arrivarono al potere in Germania nel 1933, in un periodo in cui l’economia era al collasso totale, con insostenibili riparazioni di guerra da pagare e nessuna prospettiva di investimenti dall’estero o crediti. Eppure, attraverso una politica monetaria indipendente e un programma di piena occupazione basato sulle opere pubbliche, nel giro di quattro anni il Terzo Reich fu in grado di trasformare una Germania in bancarotta nella più forte economia europea, perfino prima che iniziassero le spese del riarmo.
Sebbene Hitler meriti pienamente l’infamia che si è guadagnato per le innumerevoli nefandezze perpetrate, almeno per un certo periodo godette di un’enorme popolarità fra il popolo tedesco. Ciò era chiaramente dovuto al fatto che aveva salvato la Germania dall’abisso in cui era precipitata  e dall’aver attuato un’ardita politica di opere pubbliche: opere d’arginamento, restauro di edifici pubblici e abitazioni private, costruzione di nuovi edifici, strade, porti, canali e infrastrutture portuali. Anche l’altro aspetto, quello del welfare, non era stato trascurato: assistenza all’infanzia, alla maternità e servizi sociali in generale. Tutto impregnato dell’ideologia nazionalsocialista, con il lavoro certo non sovrapagato, e con i tremendi risvolti culturali che sappiamo, però funzionò.
Alla fine, come si sa, la Germania raggiunse una tale potenza da sfidare con un iniziale successo le più grandi e potenti nazioni del tempo.

Vediamo ora cosa propone certo marxismo “ripensato”: non certo la rivoluzione, di fatto mai così lontana dall’ordine del giorno, bensì una “politica di potenza”. Vale a dire una politica di sviluppo economico nazionale sottratto alla dipendenza degli Stati Uniti e delle nazioni europee al loro seguito. L’Italia, dopo aver finalmente investito in ricerca e alta tecnologia, si avvierebbe verso uno sviluppo di qualità che la porterebbe a partecipare degnamente a un “mondo multipolare” non più dominio incontrastato degli Stati Uniti. Un nuovo contesto storico che, secondo questo pensiero, renderebbe meno utopistica la prospettiva di una nuova organizzazione sociale.

Il ragionamento non è insensato, ma il percorso a noi sembra trascurare, come al solito, la sorte dei famosi “dominati”. Infatti se il welfare va evitato per non distogliere risorse dallo “sviluppo di potenza”, e se la spesa pubblica in generale deve coadiuvare lo sviluppo stesso, al “popolo bue” non restano altro che “lacrime sudore e sangue”. Una via fatta tutta di sacrifici, che oltre tutto ignora bellamente i problemi dello “sviluppo infinito in un mondo finito” e il ruolo dei popoli oppressi e immiseriti dall’imperialismo. Una strada difficile, che però condurrebbe a una porta spalancabile, allora sì, sull’alternativa. Naturalmente ciò pretenderebbe una diversa classe politica e un governo ad hoc, giacché sull’attuale non c’è alcuna speranza di rigenerazione. Ma allora, utopia per utopia, perché non ipotizzare una politica indirizzata verso il sociale?

A noi pare quindi che lo “stato sociale”, già gravemente impoverito negli ultimi trent’anni anche per opera dei sindacati e della sinistra di governo, vada come minimo difeso, come d’altra parte andrebbe preteso che se in questa congiuntura il debito pubblico non può che aumentare, ciò non sia causato dall’aiuto alle industrie decotte e alle banche avventuriste e rapinatrici, (come stanno facendo gli Stati Uniti e quelli che contano in Europa) bensì per investimenti in opere pubbliche con al centro casa, scuole, asili, sanità, trasporti, fonti di energia pulita ecc. ecc. Sarebbe questa una politica vetero socialdemocratica? Come definire allora, di grazia, quella per lo “sviluppo di potenza” ?

Rinunciare a questo fantastico sviluppo sarebbe un gran male?  Già oggi, senza il contributo dell’Italia, ci sono grandi stati che, con una dinamica tutta capitalistica, contendono agli Stati Uniti il dominio economico e militare, creando l’inizio di  quel “mondo multipolare” che in effetti segnerebbe la fine dell’ ”ordine globale” e la possibilità per molti paesi schiacciati dall’imperialismo di uscire dalla povertà.

La storia è per fortuna ricca di incognite. Forse non è il caso di cancellare dall’orizzonte, oltre al comunismo, anche il welfare, per inseguire un  fantomatico “sviluppo di potenza” dalle connotazioni raggelanti.

*La posizione alla quale si riferisce l’autore è quella espressa in particolare da Gianfranco La Grassa (vedi ad es. il blog http://ripensaremarx.splinder.com).