Perché questa volta siamo dalla parte di Ahmadinejad

La robusta vittoria elettorale di Ahmadinejad ha mostrato quale sia la principale frattura geopolitica mondiale. La Cina, la Russia, il Venezuela, il Brasile, e con loro molti altri paesi che non sottostanno al giogo imperiale americano (come del resto la gran parte dei movimenti di Resistenza) hanno prontamente riconosciuto la vittoria di Ahmadinejad. L’opposto ha fatto l’Occidente imperialista. Seguendo un copione già visto si è gettato sul succulento piatto persiano impugnando la richiesta di annullare e ripetere le elezioni  e dichiarando il proprio appoggio alle manifestazioni di protesta. Obbiettivo dell’Occidente? Spingere l’Iran nell’abisso del caos. Se è doveroso denunciare questo disegno destabilizzatore, sarebbe un errore fatale liquidare le proteste di Tehran come “rivoluzione colorata”, o ritenere l’opposizione ad Ahmadinejad come una “quinta colonna” degli imperialisti.

 

Cos’è la Repubblica Islamica dell’Iran

“L’Iran non è un paese democratico. L’Iran è una teocrazia. Il regime di Ahmadinejad  è una dittatura clericale”.  Questo è il giudizio che offrono i media occidentali, ovvero quanto le élite politiche fanno affermare ai media. Vero o falso? Una patina di verità per nascondere un nocciolo di bugie.
Dobbiamo quindi spendere qualche riga per spiegare la complicata struttura istituzionale iraniana, poiché senza una giusta comprensione di essa sarebbe impossibile capire le divisioni interne al regime, la loro natura e le cause e la dinamica degli avvenimenti in corso.
 
La Repubblica islamica dell’Iran pretende di aver ripristinato il sistema dell’imamato, ovvero di tenere assieme la sfera politica con quella spirituale e religiosa della comunità islamica. La concezione a cui si ispira l’architettura istituzionale, com’è noto, è il velayat-e faqih, ovvero il principio per cui la responsabilità di ultima istanza sugli affari politici nonché la tutela sulle istituzioni e il loro corretto funzionamento, spetta del giureconsulto islamico. Poteri immensi che vengono demandati al primo tra i giuristi-teologi islamici, al Rahbar, la Guida suprema, che viene considerato il luogotenente di Dio in terra – nel secolarizzato Occidente questa forma monocratica laicizzata ha preso il nome di Repubblica presidenziale. 
Tuttavia la struttura istituzionale iraniana, per quanto monocefala, è al contempo duale poiché, come afferma la Costituzione, se “la sovranità sul mondo appartiene a Dio, Egli ha voluto che l’umanità fosse sovrana sul proprio destino sociale”. Abbiamo così che organismi a legittimità religiosa coesistono organi a legittimità politica, come il Parlamento (Majlis), che ha effettivo potere legislativo, e il Presidente della Repubblica, ovvero il primo ministro. Gli organi a legittimità politica vengono scelti democraticamente, ovvero con regolari consultazioni popolari. Contrariamente a quanto si pensa esiste in Iran il pluralismo (il Partito delle Repubblica Islamica fu sciolto a causa delle profonde divisioni intestine negli anni ‘80), per quanto esso sia parziale visto che le varie frazioni in lizza debbono riconoscere a priori i principi fissati dalla Costituzione islamica.
Per quanto riguarda gli organi a legittimazione religiosa, oltre alla Guida, abbiamo l’Assemblea degli esperti (ottantasei membri tutti appartenenti al clero ed eletti a suffragio universale, che scelgono la Guida medesima e possono anche prenderne collegialmente le funzioni), e un Consiglio dei Guardiani di dodici membri (sei giuristi provenienti dal clero e sei civili preposti a vagliare la costituzionalità e la liceità islamica delle leggi parlamentari). Va detto che la coesistenza tra organi a diversa fonte di legittimità, religiosa e secolare, è fonte di costanti conflitti istituzionali.

Bene. Se per democrazia intendiamo la sovranità popolare, la sua espressione attraverso elezioni, il pluralismo politico, la libertà di stampa a d’opinione, l’esercizio dei diritti individuali ed umani, in Iran ne abbiamo molta di più che in Arabia Saudita o Egitto, per non parlare dell’Afghanistan o dell’Iraq occupati. Ne abbiamo di meno se ci riferiamo agli standard occidentali, dove tuttavia i diritti democratici, oltre ad essere stati acquisiti in secoli di lotte furibonde, non reggerebbero un solo giorno se le società non godessero di un diffuso benessere economico. Non appena i paesi occidentali sono stati travolti da prolungate crisi economiche (l’eccezione conferma la regola) le democrazie sono andate a farsi friggere, con la sospensione dei diritti costituzionali o spalancando le porte a dittature dispiegate. Non c’è democrazia politica senza opulenza spalmata anche verso il basso della scala sociale. Nessuna democrazia stabile può esservi in un paese che sia vittima della miseria, poiché esso sarà costitutivamente dilaniato da irriducibili opposizioni sociali. In questi casi avremo sempre regimi militari o stati di polizia, dittature aperte o camuffate. Che siano espressioni delle classi ricche o di quelle povere. Guardate ai PIL procapite dei vari paesi, avrete che la “democrazia” è un lusso che possono permettersi i paesi ricchi. Quando questa regola è infranta ciò è dovuto o all’ascesa di grandi movimenti popolari, o ad una coabitazione (per sua natura instabile e incerta) che le classi dominanti debbono accettare con quelle dominate.

L’Iran non sfugge a questa regola. Malgrado i profondi mutamenti avvenuti dopo la rivoluzione popolare del 1979 (rivoluzione che poteva ben trascrescere in socialista se solo il partito comunista e i suoi alleati, interni e internazionali, l’avessero voluto invece di restare alla coda di Khomeini nel biennio cruciale 1978-79), il paese non è solo stato vittima di una cruenta guerra per procura (il conflitto con l’Iraq ha determinato la sconfitta delle sinistre iraniane e il definitivo consolidamento del regime islamico), ma del costante ostracismo dell’Amministrazione Nordamericana. Si è fatto di tutto affinché l’Iran restasse incatenato al suo sottosviluppo per cui, malgrado sia una potenza petrolifera, esso è un nano economico, non è uscito da una condizione di minorità, resta un paese semicoloniale o, usando un eufemismo, “in via di sviluppo”. Non si potrebbe capire l’avvento di Ahmadinejad e la sua rielezione se non si tenesse conto di questo quadro, ovvero che l’Iran resta un paese che cerca una propria via allo sviluppo economico e al benessere.

Quali sono infatti i componenti della potente miscela che ha portato e riportato Ahmadinejad al potere? La diffusa povertà e il malessere che affliggono la maggioranza dei popoli iraniani, la delusione per le promesse d’emancipazione non mantenute, la ripugnanza verso i figli di papà imboscatisi durante la sanguinosa guerra con l’Iraq, la rabbia verso la borghesia mercantile del Bazar ingrassatasi con la guerra, l’idiosincrasia verso i ceti neo-borghesi emersi dal seno stesso della rivoluzione, l’odio verso tutti i politicanti, clericali compresi, che hanno usato i loro incarichi per arricchirsi alle spalle del popolo.

 

Ahmadinejad e il populismo

Fanno presto i nostri benpensanti politicamente corretti, gli intellettuali liberali appaltati come pennivendoli dai tecnici del dominio imperiale, a gridare al “populismo plebeo” di Ahmadinejad, a irriderlo come un “fanatico senza turbante”, come un “pauperista millenarista”, un “ invasato che ritiene di essere in contatto con l’imam nascosto”. Si tratta della stessa gentaglia che ha osannato come semi-dei i pescecani di Wall Street, che ha lustrato le scarpe ad un criminale come Bush che proclamava di essere in contatto niente meno che con Dio, o che chiosa con ossequiosa riverenza ogni litania di un Papa che si considera l’infallibile interprete della volontà divina. La credibilità di questi commentatori è direttamente proporzionale alla loro onestà intellettuale. Se volete capire l’Iran non dovete farà altre che gettare nel cestino la loro spocchiosa paccottiglia ideologica.

Ahmadinejad è un populista? Certo che lo è, non più tuttavia di un Obama, di un Sarkozy o di un Berlusconi. «Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello, e non t’accorgi della trave che è nel tuo?», intellettuale occidentale? Forse che per te “populismo” è solo un volgare epiteto per sputtanare chi è ostile ai tuoi committenti? Hai dimenticato, dotto e sofista intellettuale occidentale, che esso è solo una convenzione semantica, la generica categoria descrittiva di un fenomeno che può avere forme e sostanza radicalmente differenti?
Ciò che i detrattori di Ahmadinejad non possono digerire è che il populismo del presidente iraniano è un populismo allo stesso tempo, patriottico, antimperialista, antisionista, egualitario e, come lui stesso l’ha definito pochi giorni or sono in occasione del Consiglio di Shangai e Ekaterinemburg, “anticapitalista”. Un leader simile si deve criminalizzare, satanizzare, hitlerizzare, allo scopo dichiarato di farlo fuori. Ben venga dunque la fronda dei “riformisti”, le congiure di palazzo foraggiate dal Bazar, le sommosse studentesche, o la Twitter Revolution. Tutto fa brodo in vista dell’opzione di ultima istanza: una bella aggressione stile Belgrado 1999.

I nostri nemici sono prevedibili. Sono anzi un disco rotto. Sappiamo che chiunque pigli questa posizione di difesa del presidente iraniano sarà tacciato come “estremista”, “antisemita”, “facinoroso”, “nemico della democrazia e dell’Occidente”. Accuse che ci vennero già rivolte quando difendevamo la Jugoslavia di Milosevic, l’Iraq di Hussein (malgrado non avessimo risparmiato loro dure critiche). Non si pensi che i nostri nemici parlino a vanvera. Conosciamo i nostri polli. Con linguaggio felpato e peloso non stanno facendo altro che intimorirci. La loro è una laicissima fatwa: un metterci sull’avviso che dal momento che sposiamo la causa antimperialista di Hezbollah o Hamas, di Ahmadinejad o al-Bashir, ci condanniamo a seguire il loro destino. Messaggio ricevuto. Valga il contrario.

 

Rivoluzione colorata?

Una domanda in effetti si deve porre a bruciapelo: l’attuale movimento di protesta che scuote Tehran è assimilabile alle “rivoluzioni colorate” o “arancioni” avutesi in Serbia in anteprima, e poi in Ucraina, Georgia o Kirghizistan? La nostra risposta è No. Le similitudini non debbono trarre in inganno. Nemmeno la più evidente, il fatto cioè che quasi ogni “rivoluzione colorata” è esplosa dopo elezioni indette dai governi in carica e che ognuna di esse ha sfruttato come scintilla il pretesto dei brogli.
E’ evidente che Mousavi abbia spregiudicatamente copiato, e c’è da supporre progettato, il modello ucraino, ovvero che stia tentando di seguire le orme di Viktor Jushenko.  Ricordiamo cosa accadde. Le elezioni presidenziali del 21 novembre 2004 furono vinte dal candidato filo-russo. Jushenko, forte dell’aperto sostegno degli americani e dei loro alleati europei, denunciò grandi brogli elettorali facendo appello ai suoi elettori a mobilitarsi finché non fossero state proclamate nuove elezioni. La Corte Suprema gli diede ragione e invalidò il risultato elettorale, fissando nuove elezioni per il dicembre successivo. La campagna diede i suoi frutti: Jushenko, pur con strettissimo margine, vinse e divenne presidente.
Altrettanto chiaro è che l’Occidente stia seguendo a sua volta la tecnica adottata per l’Ucraina, con una martellante campagna tesa a sputtanare Ahmadinejad, delegittimando le forze e gli apparati istituzionali a lui favorevoli e istigare la gioventù alla rivolta. Come sempre, siccome c’è di mezzo la benemerita “democrazia”, tutta la combriccola occidentale si muove all’unisono. Destra e sinistra, compresa quella “radicale” (tale oramai solo nel senso pannelliano del termine) parlano la stessa lingua, usano le stesse parole: danno per certi i brogli, prendono per buoni i numeri gonfiati dei manifestanti, esaltano come sacrosanta la protesta, strillano senza alcuna evidenza alla strage compiuta dalla polizia. E’ come se fossimo davanti ad un pavloviano riflesso condizionato: quando si ritiene di aver preso in castagna uno “Stato canaglia” non c’è più destra o sinistra o centro che tengano, tutti si sentono anzitutto appassionatamente occidentali.
Va bene. Ma le similitudini finiscono qui.

La solidità della Repubblica Islamica dell’Iran non è nemmeno lontanamente paragonabile a quelle sgangherate costruzioni geopolitiche che sono gli stati dell’ex-URSS; le sue radici in un’autentica rivoluzione popolare e di massa sono ancora vive, il consenso patriottico alle sue ambizioni strategiche di potenza regionale è indiscusso, i sentimenti antiamericani, antisionisti e antimperialisti fortissimi.

Ciò significa forse che non serpeggi tra la popolazione un fortissimo malcontento? Ovvio che no. Il malcontento però, come accennato sopra, ha un duplice carattere. Quello degli strati più umili della popolazione ha condotto alla sconfitta della coalizione dei tecnocrati e dei cosiddetti “riformisti” e portato Ahmadinejad al potere. La povera gente si lamenta certo del potere eccessivo del clero shiita, magari vorrebbe anche più democrazia e diritti civili ma, dopo la lunga e fallimentare esperienza di Rafsanjani e Khatami, non abbocca più all’amo di quelle frazioni dominanti che vorrebbero utilizzare questo diffuso malcontento come piede di porco per ri-consegnare il paese alla nuova borghesia, per svendere le aziende pubbliche a rapaci e corrotti gruppi e affaristici privati. Essi, evidentemente,  prima ancora che la “democrazia”, hanno a cuore la giustizia e l’eguaglianza. Preferiscono lo statalismo autoritario di Ahmadinejad alla democrazia dei capitalisti, comprendono infine che un paese che non difenda con le unghie e coi denti la propria sovranità è destinato a perdere la propria libertà. La grande maggioranza degli elettori iraniani infine ha votato per Ahmadinejad perché vede e tocca con mano di che pasta siano fatte le “export-democrazie” ai propri confini.

Gli intellettuali a pancia piena faranno spallucce, ci diranno che non è lecito separare la libertà dall’eguaglianza. Ma noi non le separiamo affatto, solo invertiamo l’ordine dei fattori: per noi l’eguaglianza sociale viene prima delle libertà, visto che essa riguarda l’assetto strutturale della società, e che solo su fondamenta egualitarie le libertà individuali possono essere giuste, ancorate a sani principi di giustizia, e non usate come pretesto affinché ognuno faccia egoisticamente i cazzi propri a spese dell’altro, giungendo a sfruttarlo e umiliarlo, succhiandogli la vita  per  il proprio arricchimento. La regina di tutte le libertà è la libertà dall’indigenza, dalla fame, dall’accattonaggio salariale, dal lavoro coatto in cambio di un’umiliante sopravvivenza. La libertà di un popolo infine, viene prima di quella dei suoi singoli cittadini, visto che i cittadini di uno stato asservito al più forte, sono schiavi o servi e non liberti.

D’altra parte è comprensibile che coloro che hanno già un livello di vita accettabile e comfort di tipo occidentale, non considerino i diritti individuali un’optional e scalpitino per poter comprare ciò che vogliono, ascoltare la musica che preferiscono, leggere la stampa che gli pare, navigare in internet senza censura. Noi non vogliamo ierocraticamente liquidare questi bisogni come “manifestazioni del demonio”. Ogni popolo, raggiunto un certo grado di benessere, soddisfatti i bisogni primari, sarebbe destinato alla catalessi ove non puntasse a realizzarne di nuovi. Solo noi riteniamo (e sorvoliamo adesso sul micidiale meccanismo di fabbricazione pubblicitaria di bisogni negativi che induce una vera e propria depravazione dei costumi sociali)  che in una società che è ancora invischiata nel “sottosviluppo”, prima occorra pensare alle necessità fondamentali della maggioranza, di chi è rimasto indietro, e poi realizzare quelli della minoranza che sta già meglio. Significa questo, in Iran, stare dalla parte di Ahmadinejad? No problem.

Ci chiedono spesso: ma che fine ha fatto e da che parte sta la sinistra iraniana? Senza dimenticare che quella comunista fu fatta a pezzi dopo il 1980-81 dal regime di Khomeini, ciò che rimane della vecchia sinistra iraniana ha seguito lo stesso tragico destino di quella irachena o afghana: spaccata e divisa su due fronti contrapposti. Una parte si è gettata tra le braccia dell’imperialismo, denunciando come “fascista” il regime islamico, mentre l’altra, dopo essere andata ad ingrossare le file dell’Islam rosso di Shariati si è divisa a sua volta in due tronconi: una parte sta nel campo di Ahmadinejad, l’altra nel fronte opposto, quello dei “riformisti”.
 

Scontro al vertice

Come avrete capito noi non pensiamo che le proteste in corso, animate anzitutto dai giovani del ceto medio e della borghesia (e tra questi gli studenti universitari, già protagonisti di forti proteste politiche nel 1999 e nel 2003), siano il frutto di un “complotto occidentale” o di una macchinazione americana. Esse nascono da un disagio forte e reale, rivendicano diritti democratici sulla carta sacrosanti. Eppure, come accadde sia nel 1999 che nel 2003, l’appoggio dichiarato da parte degli USA e degli europei è come il bacio della morte, esso suona le campane a morto della protesta di piazza seguite alle elezioni. Se la protesta avesse mai avuto qualche chances di dilagare fuori dal perimetro della capitale, adesso, dopo l’ostentato sostegno imperialista e sionista è destinata a scemare e a rifluire, portandosi appresso l’onta di essere fiancheggiata dai peggiori nemici del paese.

Semmai queste proteste siano state pilotate, esse lo sono state da importanti frazioni del regime islamico, di cui Mousavì è solo un porta bandiera. Stiamo parlando del potentissimo blocco sociale, economico e politico comunemente chiamato “riformista”, che detiene ancora leve decisive del potere e il cui vero demiurgo è il pezzo da novanta che risponde al nome di Rafsanjani. Il  blocco che non ha digerito la politica egualitaria e sotto sotto anticapitalista di Ahmadinejad, e che sperava di farlo fuori alle elezioni per riprendere il controllo del governo e avviare una politica economica di laissez-faire, di privatizzazioni e di apertura al capitalismo. Ma non un capitalismo in salsa ucraina o georgiana, bensì in quella cinese.
Il progetto di Rafsanjani e dei tecnocrati che gli stanno dietro è fare dell’Iran una solida potenza regionale, ma importando il modello cinese, tenendo assieme dispotismo politico e capitalismo selvaggio. Questo blocco di potere è uscito con le ossa rotte dalle elezioni e come un animale ferito ha reagito in maniera scomposta. S’inganna chi pensa che a causa della batosta elettorale esso abbia scelto come prima opzione quella delle proteste di piazza. Che non sia così lo dimostrano appunto, dopo le prime sfuriate, gli appelli alla calma di alcuni importanti chierici shiiti e poi dello stesso Mousavi, o il peloso silenzio di dirigenti clericali e politici di spicco notoriamente nemici di Khamenei e Ahmadinejad. Le proteste sono servite e servono come azione complementare per delegittimare Ahmadinejad e Khamenei agli occhi delle più alte autorità islamiche, anzitutto dell’Assemblea degli Esperti. Punto. Neanche Mousavi pensava ad un confronto sovversivo, o di scardinare l’assetto istituzionale della Repubblica islamica. La drammatizzazione (“andrò avanti fino al martirio”) faceva parte del gioco.

Questo blocco congiura piuttosto a spaccare l’alleanza tra i radicali di Ahmadinejad e i clericali conservatori, isolando i primi e portando i secondi dalla propria parte. Per farlo debbono  “riformare” dall’interno le istituzioni (forse ritoccando nuovamente la Costituzione, per altro già modificata nel 1989 quando fu abolita la carica di primo ministro le cui funzioni verranno assunte dal Presidente della Repubblica). Proprio per la natura del suo disegno strategico infatti, adottare il modello cinese di sviluppo, questo blocco non si sogna nemmeno una prova di forza in stile Tienamen (Rafsanjani ha ben compreso la lezione della prematura fine politica di Zhao Ziyang che si oppose alla repressione cruenta della rivolta giovanile), né tanto meno di sfasciare le istituzioni, di cui esso ha bisogno proprio come in Cina per tenere a bada le masse e le stesse forze borghesi.
Chi pensa che Rafsanjani sia l’uomo del cedimento agli Stati Uniti, o che si opponga al disegno strategico di dotare l’Iran dell’energia atomica del paese, si sbaglia di grosso. Fu proprio sotto il suo governo che i piani nucleari conobbero un’accelerazione, fu sempre lui che nel dicembre 2001 affermò: «Se un giorno il mondo islamico si doterà anch’esso di armamento quale quello che oggi possiede Israele, allora la strategia degli imperialisti entrerà in stallo perché l’impiego di anche un solo ordigno nucleare su Israele distruggerà ogni cosa. Sebbene il mondo islamico non abbia alcuna intenzione di nuocere non è irrazionale prendere in considerazione ogni eventualità».

Sbaglia infine anche chi interpreta l’attuale scontro come prova di forza tra chierici e laici, dove i laici sarebbero i “riformisti” e i chierici starebbero con Ahmadinejad. Il clero shiita lo troviamo in entrambi i blocchi, per la verità più dalla parte di Rafsanjani che dall’altra. E’ un fatto acclarato, non solo che buona parte del clero (ad esempio i seguaci di Montazeri e Khatami) non ha mai accettato il principio del velayat-e faqih: è un fatto che tra gli stessi alti dignitari shiiti serpeggia una forte ostilità verso la Guida Khamenei. Lui è il vero bersaglio del composito blocco delle opposizioni, tra cui anche frazioni clericali decisamente reazionarie e quietiste. Battere Ahmadinejad con le elezioni era soltanto l’antipasto, poiché come due governi Khatami hanno mostrato e come chiunque in Iran sa bene, tutto dipende dalla Guida e poco può fare un primo ministro. La sconfitta elettorale ha certamente pregiudicato il piano di accerchiamento della Guida, ma i congiurati non demordono. Essi stanno adesso lavorando per portare dalla loro parte la maggioranza dell’Assemblea degli Esperti, ovvero dell’organo che solo può rimuovere il loro bersaglio grosso, Khamenei.

Così spieghiamo l’ultima notizia in ordine di tempo filtrata da Tehran, che Rafsanjani si sia recato nella città santa di Qom, dove risiedono buona parte dei membri dell’Assemblea degli Esperti, al fine di convincerli, se non ad eleggere una nuova Guida, a prenderne collegialmente le funzioni. Rafsanjani non è solo una vecchia volpe, non è solo esponente di una delle più importanti famiglie del Bazar, è anche un chierico di grande prestigio. Sta giocando le sue ultime ma pesanti carte. Ha già ottenuto l’appoggio del grande ayatollah shiita iracheno Ali Sistani, che gode di un’immensa autorità teologica e politica anche tra il clero iraniano.
Lo scontro al vertice è adesso ad un tornante cruciale. In nessun caso l’Occidente imperialista si può fare facili illusioni di vittoria.