In risposta all’articolo “Il welfare è da buttare?” ci è giunta dal blog Ripensaremarx la seguente replica:

Ma come si può dire una cosa del genere: “Una posizione originale, e un po’ sconcertante, è quella che sostiene l’inutilità, se non la dannosità, di battersi per difendere e migliorare il welfare e chiedere un forte intervento della spesa pubblica nei servizi e nelle infrastrutture”. Ma se abbiamo sempre sostenuto che qualsiasi battaglia per la preservazione dei livelli di vita delle masse dominate resta da rispettare e appoggiare?

Va bene che i pauperisti li metteremmo tutti al muro ma questo che c’entra con le lotte di chi, in maniera sacrosanta, rivendica salario e servizi per il proprio benessere? Noi diciamo, con convinzione, che chi ritiene lo stato un organo di compensazione pacifica degli interessi delle classi sociali non ha capito nulla di esso e della sua reale natura (quale strumento di coercizione e di egemonia dominante).
La spesa pubblica deve andare a vantaggio dei ceti più deboli ma questa non è detto che stimoli la ripresa del sistema tout court come qualcuno vorrebbe far credere. Questa è la nostra posizione e non l’abbattimento del welfare.

Risponde Gianluigi Maddalena

A proposito della ripulsa sull’utilità di una politica cosiddetta del welfare state da parte di “Ripensare Marx” (ma andrebbe precisato che ci riferivamo specificamente alle posizioni di Gianfranco La Grassa, non certamente all’intero blog.), ci viene obiettato che “quando mai ciò è avvenuto”, e anzi che “abbiamo sempre sostenuto che qualsiasi  battaglia per la preservazione dei livelli di vita delle masse dominate resta da rispettare e appoggiare”. Ci mancherebbe solo che le lotte “per la preservazione dei livelli di vita delle masse” non andassero “rispettate”(sic)!
La questione è un’altra, e non è facile estrarla da un flusso torrentizio e spesso ingarbugliato sulle strategie che andrebbero praticate dagli anticapitalisti, i quali dovrebbero comunque come prima mossa “mettere al muro i pauperisti” (lo stalinismo ha lasciato qualche illuminante strascico).
Secondo noi solo in “filigrana”, dall’insieme e dal reiterarsi di certe considerazioni, si coglie l’ossatura di un certo pensiero, lo “spirito” che lo sorregge.
Innanzitutto va sottolineata una previsione: ci viene detto che ancora per qualche decennio non sono realistiche le prospettive della nascita di una nuova organizzazione sociale. Ancora per almeno una generazione, vivremo, più o meno bene, con questo sistema. Nel frattempo cosa dovrebbero augurarsi e in che direzione dovrebbero agire i “dominati”, considerato che non è nelle condizioni storiche date operare per la rivoluzione?. Dovrebbero adoprarsi affinché il nostro paese, buttate a mare “l’industria decotta e la grande finanza”, attuasse una “politica di potenza” fatta di sviluppo tecnologico d’avanguardia e di investimenti adeguati, in grado di mettere l’Italia tra i paesi che contendono agli Stati Uniti il dominio economico (e militare, va da sé).
Per fare ciò le risorse non sono infinite e allora andrebbe imitata la politica degli USA che “non hanno mai avuto, in nessun frangente, il significato di una politica di Welfare” e che invece hanno indirizzato la spesa statale per rafforzare la loro “potenza mondiale” attraverso il sostegno alla “parte più avanzata del capitalismo,  vero motivo e motore di uno sviluppo a ritmi sostenuti”.
L’ideologia del Welfare invece, ad esempio quella realizzata da alcuni paesi a guida socialdemocratica, sarebbe stata “balorda” non perché lontana dal dar vita ad una società di liberi ed eguali, ma perché priva di qualsiasi “connotazione di potenza”. Di più: questa ideologia andrebbe  “sbaraccata, senza che ne resti la minima traccia” e le “non eccelse risorse italiane” dovrebbero andare invece “verso i progetti dell’ENI e quelli di altri settori e imprese avanzati”.
Mai una parola sulla necessità di sviluppare nel nostro paese le infrastrutture, il trasporto pubblico (vedi lo stato comatoso delle ferrovie), l’edilizia popolare, la struttura per l’assistenza sanitaria, l’istruzione ecc. Questo tipo di spesa privo delle “connotazioni di potenza” non avrebbe, oltre ai benefici diretti per le masse popolari, ricadute positive sull’intera economia? Secondo noi sì, lo avrebbe, eccome.
Per quanto riguarda poi l’altro aspetto del welfare, quello che andrebbe “rispettato”, ma non a caso sottaciuto, (pensioni, indennità di disoccupazione ecc.) più che rispettato andrebbe difeso e rivendicato il potenziamento con tutte le forze.
C’è invece chi è ipnotizzato dallo “sviluppo di potenza”. Affascinati e ammirati dalle dinamiche della “parte più avanzata del capitalismo” dimenticando bellamente che questa è anche la parte più aggressiva e bellicista (infatti il welfare, ahimè, è “imbelle”).
Anche Marx era affascinato dalle potenti dinamiche del capitalismo, ma intanto va ripetuto che la sua epoca non era la nostra, e poi non è detto che tutte le fascinazioni di Marx siano da condividere, mentre per ultimo si può anche dire che, studiando ad esempio le dinamiche delle cellule cancerogene, si può restare ammirati dalla loro potenza senza per questo cessare di detestarle e combatterle.
Insomma a noi non sembra che l’Italia debba dirigere tutte le sue risorse per sviluppare una potenza concorrenziale a quella degli USA “sbaraccando la balorda ideologia del Welfare”.
Un conto è staccarsi dall’attuale servaggio verso gli USA, altro è mirare a una potenza che a noi sembra fuori portata e fuori tempo massimo, oltre che pesantemente onerosa in termini sociali.
Invece una spesa pubblica non più sprecata in assistenza all’industria inefficiente, difesa dai tentacoli della corruzione e investita in ricerca, opere pubbliche e servizi razionali renderebbe l’Italia un paese più vivibile. Ciò è fantapolitica, ma lo è certamente meno di quella di potenza.
Siamo infatti in piena crisi, con una classe politica, dall’estrema “destra” all’estrema “sinistra”, corrotta e/o incapace, una struttura produttiva allo sbando e il dilagare di un’ideologia particolarmente individualista, meschina e xenofoba. Con una simile congiuntura stupisce che la mossa vincente teorizzata sia quella di un risiko economico, tecnico e scientifico, da attuare dopo aver “messo al muro i pauperisti”.