Il Nulla fatto partito

Tra la “vocazione maggioritaria” del recente passato e le “nuove alleanze”di un incerto futuro, il Partito democratico ha però un certezza: il Nulla del presente.
La cosa interessante è che il Nulla va a congresso. Ma non ad un congresso normale, come fanno tutti i normali partiti del mondo. No! Loro sono un’altra cosa e faranno un percorso a due tappe: prima (11 ottobre, un giorno basta e avanza!) la “convenzione“, poi (il 25 ottobre) le primarie per la scelta del segretario.
La convenzione, avrebbero voluta chiamarla Convention e vedrete che alla fine così la chiameranno, altro non sarà che una sfilata dove andranno ad esibirsi i candidati che si scontreranno alle primarie.

Non a caso tutta l’attenzione è concentrata sul 25 ottobre, e precisamente sulla lotta per la leadership tra il democristiano di lungo corso Dario Franceschini ed il rodato privatizzatore Pierluigi Bersani, mentre il terzo candidato (il chirurgo Ignazio Marino) non sembra avere alcuna chance.
Parlare di congresso, come fa la stampa e come fanno gli stessi dirigenti del Pd, è dunque assai arbitrario anche alla luce dello statuto del partito. Così funziona la politica bipolare in questa strana fase di passaggio: possiamo d’altronde definire “congresso” la passerella che ha dato vita al Pdl?

Ma, al di là delle stravaganze americaneggianti del Pd e del suo statuto, secondo Franco Marini scritto “dal dottor Stranamore“, resta la curiosità sui temi politici che verranno proposti in questi mesi di lunga campagna elettorale.
Cosa dice il Pd sulla crisi economica, al di là delle polemichette quotidiane con Berlusconi e Tremonti? Nessuno lo sa, ma difficilmente lo sapremo ad ottobre.
Cosa dice sul welfare, a partire dalla pressione europea per aumentare l’età pensionabile per le donne? Niente.
E nulla da dire su questa Europa “lacrime e sangue”? Nessuna riflessione su un’elezione del parlamento di Strasburgo in cui si è recato ai seggi solo il 43% degli europei? Niente. Niente di niente.
Ed a proposito di democrazia, c’è forse qualche riflessione sul referendum ultra-maggioritario, che il Pd sosteneva, e che è stato sonoramente bocciato dall’astensione del 77% degli italiani? Non ci risulta.
E c’è forse qualche discussione sulla politica estera, sulla presenza dei militari italiani in Afghanistan, sulla guerra in preparazione contro l’Iran? Niente.

Potremmo continuare, ma per capire che aria tira è più utile dare la parola a Massimo D’Alema, che così si è espresso al (non ridete!) Democratic Party (ovvero l’ex festa dell’Unità) di Roma, domenica scorsa: “La situazione del nostro partito è preoccupante. Penso per esempio alle primarie utilizzate solo come rese dei conti interne“. Ed ancora: “Il Pd è stato diretto nel modo peggiore in cui possa essere diretto un partito“.
Cattiverie di un’ex Pci messo un po’ ai margini da Veltroni prima e da Franceschini poi?
Non sembrerebbe. La cattiveria c’è senz’altro, ma ecco quanto ha affermato una ex-Dc come Rosy Bindi, intervistata dal Corriere della Sera il 27 giugno, a proposito del “ritorno” di Veltroni: “Il suo ritorno non mi convince perché al Lingotto (dove avvenne il discorso di “investitura” dell’ex segretario – ndr) si è sbagliato tutto. Veltroni di fatto si candidò a presidente del Consiglio, quando c’era già un presidente del Consiglio del suo partito. E la “vocazione maggioritaria” si è trasformata in vocazione alla solitudine“. Amen.

Che dire? Evidentemente la coppia Veltroni-Franceschini fa schifo anche ad una parte non secondaria dello stesso gruppo dirigente del Pd, che ora appoggia la candidatura di Bersani.
Ma, domanda, costoro cosa propongono?
Cercare di capirlo attraverso le loro interviste sarebbe soltanto un’avvilente perdita di tempo. Parlano di errori (altrui), della necessità di non perdere le radici (già, ma quali?), si oppongono al nuovismo anche in virtù dell’anagrafe, contrappongono la necessità delle alleanze al posto della balorda idea dell’autosufficienza. Ma sulle grandi questioni prima elencate anch’essi tacciono. Crisi, politica internazionale, pace e guerra, democrazia, riscuotono tra i bersaniani lo stesso interesse che registriamo tra i veltronian-franceschiniani.
Bersani ha lanciato la sua candidatura parlando del partito, con la promessa di voler dare “più potere agli iscritti” rispetto al sistema delle primarie. Ma sul resto la genericità è stata assoluta, come facilmente intuibile già dal titolo della sua mozione: “Per l’Italia“. Originale, no? 
Bersani parla addirittura di “partito di combattimento“, ma per fare che cosa? Per – ancora una volta tratteniamo la risata! – sostenere le sue “lenzuolate” liberalizzatici, che ha voluto ricordare nel terzo anniversario delle misure prese dall’allora governo Prodi. E chi è Prodi per Bersani? Ma è ovvio: “Il padre nobile di tutti noi!

Ancora frasi fatte e nessuna sostanza, da una parte e dall’altra. Se per i veltronian-franceschiniani questa è la norma (a proposito, ma Franceschini non aveva assicurato a febbraio, quando ha preso il posto di Veltroni, che non si sarebbe candidato alle primarie?), a tale regola non sfuggono certo i bersaniani: il problema non sarà allora la natura stessa del Partito Democratico?
Un partito dell’élite economica dominante che non riesce però ad avere abbastanza consenso politico. Un partito della “governance” che espelle ogni visione, ogni concezione della società che non sia immediatamente triturabile nella semplice amministrazione del presente.

E’ inutile allora che D’Alema (La Repubblica, 3 luglio) si lamenti del fatto che: “Andiamo ad un congresso in cui non si può parlare di politica“. Per D’Alema questo è dovuto al fatto che: “Alla nascita del Pd ha presieduto lo stesso spirito del 1992-’94, con esiti analoghi e perfino più negativi, uno spirito di antipolitica, una sorta di berlusconismo debole articolato su capo, media e massa. Ma nel centrodestra tutto questo è strutturato mentre dalle nostre parti è debole“.
Finalmente una bella ammissione del fatto, per noi assai evidente, della similitudine tra i due partiti sui quali – ovviamente con ruoli differenziati ma complementari – si regge il bipolarismo.

Quel che D’Alema non può mettere in luce è la vera differenza tra Pd e Pdl, la ragione per cui il secondo è assai più forte del primo.
Differenza riassumibile nel fatto che mentre il partito berlusconiano aggrega un ampio blocco sociale reazionario, il partito della joint-venture exDc-exPci, proponendosi invariabilmente come partito delle oligarchie economiche dominanti non può aspirare ad un analogo consenso. Da qui, tra l’altro, il complicato problema delle alleanze.
Detto in altre parole, nonostante i primi segni di una crisi del berlusconismo, il populismo di destra resta di gran lunga più forte dell’idea di un partito puro della borghesia come quella impersonata dal Pd. E ciò sarà tanto più vero con l’approfondirsi della crisi.

Ecco perché al congresso (pardon, convention + primarie) del Pd non sarà possibile “parlare di politica“. Perché la politica per il Pd non si tratta tanto di farla, quanto piuttosto di amministrarla. Con buona pace di D’Alema, che comunque dovrebbe essere persona informata dei fatti.