Non è dato sapere, anche a causa della rigida censura cinese, la dinamica dei violenti incidenti svoltisi a Urumqi e nelle principali città del Turkestan orientale (Xinijang). Le autorità cinesi confermano tuttavia la carneficina (più di centocinquanta dimostranti ammazzati, millecinquecento arresti), il che dà la misura dell’ampiezza della rivolta. Scommettiamo che fra un paio di giorni, contrariamente a quanto accadde in Tibet, questa tragedia finirà nel dimenticatoio. Qui i rivoltosi non hanno il volto seducente del buddismo, tanto caro ai benpensanti occidentali, ma quello “repellente” dell’islamismo, contro il quale tutto il “mondo progredito” ha dichiarato un’implacabile crociata.
Chi ci segue sa bene quale sia stata la nostra posizione sulle proteste in Iran. Fermo restando che comprendiamo la sete di diritti civili di buona parte della gioventù iraniana, delle donne, di quegli oppositori che non sono al soldo degli americani. Ferma restando la nostra critica al Velayat i-Faqih, ovvero all’assetto istituzionale della Repubblica Islamica per cui le leve decisive del potere spettano ai chierici shiiti e non agli organismi repubblicani eletti direttamente dal popolo. Noi ci siamo schierati dalla parte di Ahmadinejad, non solo per ripulsa dell’ossessiva campagna messa in atto dalla poderosa macchina della propaganda occidentale, non solo perché siamo contro i pezzi da novanta del regime che volevano defenestrarlo e che in fatto di “fondamentalismo” non sono migliori del presidente attuale (basta ricordare cosa avessero fatto i governi di Mousavì, Rafsanjanì e anche Khatamì). Ci siamo trovati dalla stessa parte di Ahmadinejad perché, in quanto antimperialisti, il nostro cuore pulsa sempre dalla parte dei poveri, perché usiamo la testa e siamo sempre dalla parte di chi è sotto attacco delle grandi potenze capitaliste.
Chi ci segue sa altrettanto bene quanto disprezzo abbiamo nutrito per le cosiddette “rivoluzioni colorate” come quelle ucraina e georgiana, sfrontatamente foraggiate e sostenute dagli Stati Uniti e dai loro alleati NATO.
Chi ci segue avrà anche capito tuttavia che non siamo affetti dal morbo del cospirazionismo o del dietrologismo, per cui si liquida ogni rivolta popolare, ogni sommossa che scuota paesi, se non nemici certo non servi degli USA, come mero e ingannevole epifenomeno, come manifestazione di complotti orditi dalla CIA. Questa è la posizione-pass-partout di diversi nostri amici, una posizione che non condividiamo in quanto inficiata dalla paranoia o come minimo brutalmente semplificatoria e per di più ingiusta perché esprime un viscerale disprezzo per i sacrosanti diritti dei popoli, per quanto “piccoli popoli”, alla loro autodeterminazione. Il difetto congenito di ogni teoria complottista è che per essa nessun popolo esiste come fattore storico-politico, esistono solo o dei grandi condottieri o dei demoni di cui il “popolo bue” è destinato per sua natura ad essere vittima inconsapevole. Non è che sempre e dovunque occorre essere dalla parte del popolo, ma quando un popolo o la sua grande maggioranza si alzano in piedi, non è ammissibile considerarli una massa di pecoroni manovrati da nobili o demoniaci centri di potere. Questo “realismo politico” è lo sporco delle unghie di quello del grande Macchiavelli. E comunque a questo cinico “realismo” preferiamo il nostro idealismo rivoluzionario, che poggia sull’assunto che non i complotti o le congiure ma solo le rivoluzioni di massa cambiano davvero il corso della storia. Un “idealismo” che fa l’analisi concreta della situazione concreta e che tiene nel conto non uno o due fattori, come in un’addizione, ma una molteplicità strutturata di fenomeni sociali e politici.
Quei nostri amici che davanti alle proteste uigure hanno espresso ed esprimeranno solidarietà alle autorità cinesi (vuoi perché le considerano “socialiste”, o soltanto perché le ritengono antiamericane) assumono anzitutto i paradigmi della geo-politica per cui, presupposta la giusta causa di questa o quella grande nazione, prendi ad esempio la Russia o la Cina, tutto il resto viene sacrificato su quell’altare, tutti crimini della “grandi nazioni” contro quelle “piccole” vengono giustificati e financo invocati come legittimi.
Quello del Turkestan orientale è un caso esemplare.
Chiediamoci: quale diritto storico ha la Cina di sottomettere il Turkestan e la minoranza uigura sotto il suo ferreo tallone? Quaranta o cinquanta anni fa questo diritto poteva appoggiarsi alle necessità di espandere la rivoluzione sociale maoista. Ammesso e non concesso che un grande “stato socialista” abbia il diritto di calpestare il diritto all’autodeterminazione nazionale di questa o quella minoranza, come offrire questo diritto ad un paese come la Cina attuale, profondamente impregnata di capitalismo selvaggio e quindi lanciata nella grande corsa a dominare il mondo?
La risposta è che la Cina, per essere più precisi la nazione Han dominante, non ha questo diritto storico sugli Uiguri, non ha alcun diritto a umiliare la loro cultura, a sradicare le loro millenarie tradizioni, a sottoporli ad una politica capitalista di assimilazione forzata e di hanizzazione per quanto camuffata col vestito del “progresso”.
Ci rispondono, con discorsi di stampo hegeliano e/o provvidenzialistico, che “Parigi val bene una messa”, che se la Cina è l’unico solido baluardo mondiale per mettere in ginocchio l’impero americano, non si deve disturbare il guidatore, che tutto ciò che si frapponga all’avanzata cinese merita di essere tolto di mezzo. Magari gli uiguri non sono un manutengolo degli americani come i lama tibetani, magari è vero che questa minoranza turkestana non è manovrata dagli americani, ma che vadano a quel paese! visto che staccare il Turkestan dalla Cina equivarrebbe a spezzettarla, a indebolirla a favore degli imperialisti americani.
Chiediamo a questi nostri amici: ma non vi insegna nulla la storia dell’URSS? Non vi insegna nulla la penosa implosione del 1991 avvenuta tra l’altro su linee nazionali o micronazionali? Quale solidità può avere un paese che sia percepito dalle sue minoranze come un penitenziario? Che forza espansiva può avere una nazione che per farsi largo e fronteggiare la politica colonialistica dei suoi nemici, applichi verso le proprie minoranze nazionali una politica non meno colonialistica? Un simile paese, parafrasando Mao, sarebbe nient’altro che “un gigante dai piedi d’argilla”.
C’è davvero un piano Brezinsky per frantumare Cina e Russia usando le minoranze nazionali? Può essere. Ma allora la soluzione non è reprimere nel sangue, schiacciare legittime rivendicazioni all’autodeterminazione, criminalizzare i popoli ma al contrario, leninisticamente, andare incontro alle loro aspirazioni, farseli alleati, staccarli dal potenziale abbraccio mortale con gli imperialisti.
Non vorremmo cadere noi nel campo aleatorio della dietrologia, ma avvertiamo, in questa ottusa negazione dei sacrosanti diritti del popolo uiguro, una non confessata paranoia antiislamica. Non è questo il luogo per mostrare le specifiche caratteristiche dell’islam uiguro (per capirci, tutt’altro che salafita o takfirita e quanto mai tollerante), ma chi ritiene credibile la versione cinese che le rivolte sarebbero fomentate dai “terroristi islamici”, in particolare delle due principali organizzazioni combattenti, l’Organizzazione di Liberazione del Turkestan e il Movimento Islamico del Turkestan Orientale, dovrebbe quanto meno sapere che gli americani, con grande giubilo di Pechino, le hanno illo tempore rubricate nella lista nera delle organizzazioni terroristiche, perseguitandone i militanti che combattevano in Afghanistan, alcuni dei quali essendo ancora rinchiusi a Guantanamo.
Non riteniamo affatto che una sommossa dell’ampiezza di quella che sta scotendo il Turkestan (segnata non solo dall’attacco alle forze di polizia e militari d’occupazione cinesi ma pure dall’assalto a svariate proprietà di immigrati Han) sia il risultato di una congiura americana (ma figuriamoci!), e neppure il frutto di un appello delle minuscole organizzazioni “terroristiche” islamiche. Pensiamo che un simile sussulto popolare, che non è il primo e non sarà l’ultimo, abbia piuttosto profonde cause sociali, esprime legittime aspirazioni nazionali. Ma anche ove onnipresenti servizi segreti stranieri o minuscole organizzazioni armate abbiano una tale irresistibile potenza, quella di sobillare centinaia di migliaia di persone le quali avrebbero risposto come un sol uomo, rischiando la galera o la morte; delle due l’una: o è un complotto americano o degli islamisti.
Falso problema, ci risponderanno i dietrologi, visto che per loro, CIA e fondamentalismo islamico sono la stessa cosa, che i secondi ubbidiscono ai primi.
Dove può portare l’ossessione cospirazionistica (guarda caso tipicamente americana)!
Pendiamo dalle labbra dei complottisti, visto che noi non avremmo capito un cazzo.
Essi ci illumineranno e ci spiegheranno che il mondo che vediamo noi è solo immaginario e illusorio. Ci spiegheranno che non c’è alcuna guerra americana contro il “terrorismo islamico”. Che è solo una grande menzogna a cui solo noi, da poveri scemi, abbocchiamo. Ci spiegheranno che in Afghanistan la gigantesca guerra che oppone le armate imperiali alle milizie taliban e non solo, è solo uno specchietto per le allodole. Che è un inganno la sanguinosa lotta in corso in Pakistan, non solo nella valle dello Swat. Che è una invenzione della Cia pure la guerra in corso in Somalia contro le milizie degli Shebaab. Che era ed è un falso storico la accanita battaglia di sterminio che gli occupanti hanno ingaggiato in Iraq per debellare l’irriducibile guerriglia qaedista.
Tertium non datur: o noi siamo degli sciocchi, e dovremmo essere distenebrati, o loro sono dei dementi monomaniacali, e sarebbe il caso che si facciano vedere da un ottimo psichiatra.