Ho fatto un piccolo esperimento: ho chiesto a bruciapelo a una ventina di persone di diversa età, collocazione sociale, condizione economica e di varia cultura qual’ è il contrario del concetto di “morte”.
Mi hanno invariabilmente risposto: “vita”.

 

Risposta del tutto evidentemente sbagliata, come generalmente i miei interlocutori riconoscevano immediatamente allorché lo facevo loro notare. Infatti il concetto contrario a “morte” è “nascita”, entrambi essendo parte integrante (in qualità di fine e di inizio rispettivamente) del concetto di “vita”; il quale è invece il contrario di “non-vita”, ovvero di “mineralità”.

 

Senza la vita non vi sarebbe la morte (così come non vi sarebbe la nascita), senza la morte (così come senza la nascita) non vi sarebbe la vita. Per lo meno la vita quale di fatto esiste realmente nel nostro mondo naturale nel quale siamo inseriti come parte integrante e del quale soltanto possiamo avere conoscenza razionale, dal momento che questa vita realmente esistente o “naturale”, l’ unica di cui possiamo ragionare realisticamente, è finita: ha un inizio (la nascita) e una fine (la morte). Una vita senza fine (immortale; e magari senza nascita, eterna) si può ben immaginare, ed è immaginata ed affermata, oltre che da varie filosofie che si pretendono più o meno fondatamente razionalistiche, da quasi tutte le religioni, da moltissime superstizioni, da varie ideologie, fra le quali in particolare -mi sembra del tutto evidente- quella dominante nel nostro mondo occidentale “tardocapitalistico”.

 

E poiché credo che la filosofia sia scarsamente coltivata oggi in occidente in generale e fra i miei “intervistati” in particolare, e che anche la religione (cristiana) intesa in senso “forte”, cioè come complesso di convinzioni profondamente meditate, credute e praticate e non semplicemente come insieme di abitudini conformisticamente, acriticamente, per così dire routinariamente seguite, lo sia ben poco di più, mi sono convinto che questa fortissima tendenza ad ignorare la finitudine della vita e dunque la naturale inevitabilità della morte per chiunque viva (del tutto esattamente come l’ inevitabilità della nascita) sia espressione eclatante della diffusione oggi estremamente estesa e pervasiva dell’ ideologia dominante.

 

D’ altra parte è una caratteristica fondamentale dell’ ideologia dominante l’ ignoranza in generale dei limiti: dei limiti del mondo naturale, delle risorse in esso accessibili all’ uomo, delle possibilità di dominio e trasformazione di esso attraverso le applicazioni tecniche delle conoscenze scientifiche; nonché, a mo’ di “corollario scientista” (ma antiscientifico! E irrazionalistico), l’ ignoranza dei limiti della scienza stessa, anch’ essa inevitabilmente finita come tutto ciò che è naturale.

 

Infatti il funzionamento del sistema capitalistico globale, fondandosi sulla proprietà privata dei mezzi di produzione, è caratterizzato “da sempre” e finché esisterà inevitabilmente sarà caratterizzato dalla concorrenza fra unità produttive reciprocamente indipendenti nella ricerca del massimo profitto individuale (di ciascuna) a breve termine e ad ogni costo (sociale, ambientale e di qualsiasi altra natura): l’ impresa (capitalistica) che per assurdo si facesse degli scrupoli in tema di limitatezza delle risorse ambientali e di danneggiamento arrecato all’ ecosfera dalle sue produzioni, così come di deterioramento della salute dei suoi dipendenti (malattie professionali, incidenti sul lavoro), così come delle loro condizioni di vita (pauperizzazione, disoccupazione, ecc.), così come di malessere inflitto ai consumatori dei suoi prodotti per la loro nocività o pericolosità (l’ esempio più evidente, ma non affatto esclusivo a ben guardare, è quello del tabacco), inevitabilmente produrrebbe merci meno appetibili ai potenziali compratori e/o a maggior costo, e sarebbe conseguentemente ben presto costretta al fallimento, a cedere il passo ad altre imprese “meno scrupolose”.

 

E’ per questo che il capitalismo, ormai da vari decenni almeno (cioè da quando le capacità tecniche di alterare la natura -nel bene e nel male- hanno superato determinati livelli di efficienza o “potenza” trasformatrice), è oggettivamente incompatibile con la sopravvivenza dell’ umanità. Ed è per questo che l’ ideologia dominante pretende di ignorare la morte ed in generale i limiti della vita umana: limiti non solo quantitativi, di durata, ma anche qualitativi, di soddisfazione, di piacevolezza.

 

Si pretenderebbe infatti di prolungare la gioventù oltre ogni ragionevole limite temporale attraverso l’ impiego massivo (oltre e piuttosto che di forme sane di vita e di alimentazione) dei cosmetici e della chirurgia plastica, con risultati a mio parere generalmente di un cattivo gusto semplicemente raccapricciante: si pensi a non poche attrici bellissime in gioventù (negli anni sessanta o magari cinquanta del secolo scorso!), e che potrebbero invecchiare dignitosamente mantenendo magari anche un certo fascino relativo, trasformate in delle specie di mummie viventi con la pretesa del tutto evidentemente fallimentare di nascondere i segni del tempo e col risultato effettivo di sottolinearne ancor più impietosamente (e a mio avviso non di rado orrendamente) la vecchiaia, un po’ come una cornice pretenziosa non potrebbe che esaltare la pochezza di un quadro di scarso valore al quale fosse applicata. Addirittura vi è, perfino fra gli “addetti ai lavori” (ricercatori biologi, medici, dietologi, igienisti), chi non si perita di affacciare la prospettiva di un allungamento della vita media di quattro o cinque decenni (ma -ammesso e non concesso- con che qualità? A che prezzo?), e perfino di delirare di una futura “possibile immortalità”. E così la morte tende a non essere ammessa come fatto naturale ma ad essere considerata sempre e comunque “colposa”: recentemente a Bologna i parenti di un uomo di novantacinque -dicesi 95!- anni colto da infarto e deceduto due giorni dopo essere stato dimesso da un ospedale hanno intentato una causa per “malasanità”, come se oltre i novant’ anni ogni giorno non potesse del tutto naturalissimamente verificarsi un accidente mortale (e non ci fosse casomai da essere contenti per ogni giorno di vita guadagnato come di una grande fortuna).

 

Espressione evidente della pretesa assurda, pazzesca, delirante di ignorare i limiti qualitativi della vita, di esorcizzare le difficoltà, la durezza, il dolore che almeno in una qualche misura inevitabilmente ne sono parte integrante -esattamente come lo sono le gioie, i piaceri, la felicità- e che dunque in condizioni di “normalità” o di “salute mentale” si dovrebbero sapere affrontare e superare o sopportare a seconda dei casi con dignità (solo in casi assolutamente estremi essendo preferibile darsi la morte, come ben sapevano già i saggi dell’ antichità, stoici ed epicurei in primis) mi sembra l’ abuso della psicologia (probabilmente mediato dal grande potere di influenza lobbistica della corporazione degli psicologi).

 

Ormai da anni in occasione di gravi sciagure (disastri aerei, ferroviari, terremoti, ecc.) i giornalisti ci informano con totale naturalezza, come se fosse qualche cosa di assolutamente ovvio, pacifico, che vengono inviati in soccorso ai sopravvissuti non solo medici, pompieri, funzionari della protezione civile, al limite contingenti militari, ma anche psicologi.

 

Ora a me sembra che dovrebbero avere bisogno dell’ opera di psicologi persone che si trovino in condizioni mentali anomale, patologicamente alterate per lo meno in una qualche misura, non persone “normali“, ovvero psicologicamente sane, che si trovino ad affrontare gravi disgrazie, dispiaceri, lutti; i quali ultimi sono purtroppo casi della vita del tutto “fisiologici”, che possono ben accadere a chiunque.

 

Una persona psicologicamente normale di fronte ad una grave disgrazia cercherà di reagire facendo leva sulla propria forza d’ animo, sull’ aiuto di amici, conoscenti, parenti, al limite di “buoni samaritani” fino ad allora sconosciuti ed animati da disinteressata pietà e solidarietà umana. Non diventa ipso facto un “malato mentale” o comunque una persona psichicamente “anomala”, bisognosa di “terapie”.

 

Inoltre mi domando che efficacia potrebbe avere un intervento “professionale”, esercitato come mestiere e regolarmente retribuito, allo scopo di dare solidarietà umana, consolazione, sostegno morale a chi -mentalmente del tutto sano- sia colpito da gravi lutti o sciagure, quando il disinteresse, la gratuità è con ogni evidenza un prerequisito indispensabile, una conditio sine qua non perché tali forme di aiuto fraterno (per l’ appunto!) abbiano una qualche efficacia: il pretendere di arrecare una consolazione a pagamento, da parte di un professionista per essa pagato, mi ricorda molto da vicino l’ assurda pretesa di vendere o comprare l’ amore attraverso la prostituzione.

 

…A meno di considerare “patologico”, anomalo, non facente parte della normalità della vita (accanto alla gioia e alla felicità, ovviamente e per fortuna!) anche il dolore, per l’ appunto secondo la perversa, delirante ideologia dominante.

 

La quale, per essere caratterizzata soprattutto dalla pretesa di ignorare i limiti in generale della realtà naturale di cui siamo parte e in particolare della vita, al contrario di quanto sostengono molti suoi critici, anche in buona fede e talora fortemente e valorosamente impegnati a combatterla, mi sembra del tutto evidentemente caratterizzarsi fondamentalmente per il suo irrazionalismo, essendo invece il razionalismo innanzitutto consapevolezza dei limiti, dei rapporti fra le cose del mondo naturale, del loro non essere per nulla assolute o illimitate (anche etimologicamente “ratio” mi sembra significare originariamente “rapporto”, “relazione”, “limite”).

 

Inoltre frequentemente molti di questi stessi critici irrazionalisti o antirazionalisti dello stato di cose presenti e dell’ ideologia dominante sono sostenitori di un differenzialismo culturale indiscriminato che mette sullo stesso piano ogni cultura umana presente in qualsiasi epoca storica e in qualsiasi contesto geografico, in nome di una pretesa “tolleranza” universale, assoluta, acritica. Sintomatico di questo atteggiamento è l’ uso, che personalmente ho sempre trovato fastidiosissimo, del temine di “saperi” al plurale, polemicamente contrapposto al sapere scientifico, che pretenderebbe arrogantemente di essere l’ unico valido.

 

Da razionalista incallito (ma non arrogante) credo esista un unico sapere, fondato sulla ragione (il ragionamento) e sull’ osservazione, sapere che non è esclusivamente scientifico (ad un elevato livello di sofisticazione) ma che è anche (a livelli più elementari) quello delle conoscenze correntemente impiegate nella vita quotidiana e quello di molte conoscenze prescientifiche o paleoscientifiche di varie popolazioni primitive; e che è sostanzialmente (ad un livello pure assai elevato di sofisticazione, anche se applicato ad altri problemi o argomenti di conoscenza) anche quello della filosofia e delle altre “scienze umane”. Mentre credo che le varie forme di irrazionalismo, superstizioni, magia, astrologia, parapsicologia e chi più ne ha più ne metta, non siano in alcun modo forme di “sapere”, di conoscenza, ma credenze infondate e del tutto inaffidabili tanto sul piano teorico quanto sul piano pratico.

 

E credo inoltre (questo soprattutto da vecchio marxista) che questa pretesa di mettere acriticamente ed indiscriminatamente sullo stesso piano tutte le espressioni della cultura umana nelle sue varie fasi storiche e differenziazioni locali sia espressione di una insuperata (o non superata in modo del tutto conseguente) subalternità all’ ideologia dominante dell’ assenza di limiti e della negazione della morte da parte di questi pur valorosi ed ammirevoli combattenti antisistemici. La morte caratterizza infatti come un suo connotato o aspetto essenziale non solo la vita meramente biologica, ma anche la vita culturale: come le cellule, gli organismi, le specie ed i gruppi tassonomici di maggiori dimensioni, così anche le tradizioni, le lingue, le correnti artistiche, le scuole di pensiero, gli ordinamenti giuridici, i costumi etici, le strutture economiche che ne sono fondamento, le espressioni culturali umane tutte nascono, si sviluppano e muoiono. E solo idealizzando molte espressioni passate o presenti della civiltà umana, ignorandone o trasfigurandone molti importanti aspetti di arretratezza, malvagità ed iniquità ci si può illudere sulla pretesa di salvaguardare indiscriminatamente dalla (desiderabile) decadenza e dal (positivo) superamento ogni e qualsiasi filone culturale sia stato o anche solo sia tutt’ ora vivo e presente nel vasto panorama del pensiero e dell’ azione umana (ben diverso essendo ovviamente il doveroso e benemerito studio storico di ogni aspetto della cultura e della civiltà umana, anche di quelli da gran tempo superati e scomparsi).