“Stiamo perdendo l’Afghanistan”, è il ricorrente ritornello che almeno dallo scorso autunno vanno ripetendo diplomatici e generali. Ed in effetti la Resistenza afgana colpisce ormai quotidianamente le truppe d’occupazione, comprese quelle italiane, nonostante gli invasori abbiano rafforzato i contingenti, intensificato l’offensiva nelle regioni più a rischio e nonostante il fattivo contributo che gli Stati Uniti di Obama elargiscono, sotto forma di bombardamenti, al governo pakistano nelle c.d. aree tribali confinanti appunto con l’Afghanistan.
Nel paese, occupato dal 2001 con il consenso delle principali forze politiche occidentali sia di destra che di sinistra, sono alle porte le elezioni presidenziali (previste per il prossimo 20 agosto) e alle difficoltà che la Resistenza pone sul piano militare si aggiungono quelle politiche, la cui soluzione è indispensabile per trovare la tanto invocata exit strategy.
Non è un caso che Obama, rivolgendosi pochi giorni fa al primo ministro olandese Balkenende, abbia affermato: “Se riusciremo a superare con successo le elezioni in Afghanistan il mese prossimo, se proseguiremo ad addestrarne le forze e ne promuoveremo uno sviluppo economico maggiore, potremo sperare di passare a una fase diversa.”
Obama, che anche a detta di tanta sedicente sinistra rappresenta il nuovo, ribadisce già sul piano lessicale che l’Afghanistan è “cosa nostra” (“Se riusciremo…”, non “se gli afgani riusciranno”); ma contemporaneamente manifesta una preoccupazione tutta politica che lascia intravedere una speranza, cioè qualcosa che sta molto al di sotto di una probabilità.
In Iraq, sia pure solo parzialmente e provvisoriamente perché la Resistenza non solo non si è dissolta ma ultimamente ha ripreso un nuovo vigore, alcune difficoltà politiche sono state almeno contenute sia con la cooptazione nel governo del paese di una consistente parte della componente shiita – tradizionalmente vicina all’Iran, ostile agli Stati Uniti ma storicamente avversario delle altre componenti irachene – sia attraverso un patto con alcuni settori della Resistenza sunnita, anche di matrice baathista, in funzione antiqaedista. In Afghanistan invece gli invasori non sono riusciti a cooptare neppure in minima parte i talebani, che della Resistenza costituiscono la componente politica e militare maggioritaria, anche se non certo l’unica. Per cui, anche se il governo Karzai è senz’altro più fantoccio di quello iracheno a guida Al Maliki, la situazione in Afghanistan è più complicata.
A ciò va aggiunto il fatto che il fantoccio afgano è sempre più inviso alla popolazione, sia per la dilagante corruzione che per il fatto che tra i suoi alleati figurano autentici mascalzoni, quali il signore della guerra Dostum che non ha esitato a compiere per conto della CIA, sicuramente coperta politicamente dall’amministrazione Bush, i peggiori massacri, fra cui quello del 2002 su cui il Congresso e l’amministrazione Obama – con la consueta tecnica del “lo abbiamo fatto e se necessario lo rifaremo” – intendono ora aprire un’inchiesta.
Il fantoccio Karzai inoltre, viste le sacrosante proteste del popolo nel cui interesse dovrebbe governare, ogni tanto non può fare a meno di mettere in difficoltà il suo protettore americano per i bombardamenti indiscriminati sulla popolazione non combattente.
Né i principali alleati degli americani in Afghanistan, fra cui gli italiani, contribuiscono al dissolvimento delle nebbie politiche. Basti vedere l’insulsa lettera che il ministro degli esteri Frattini ha inviato al Direttore del Corriere della Sera, subito dopo l’azione della Resistenza che ha provocato la morte del parà Di Lisio e il ferimento di tre soldati, pubblicata il 16 luglio.
Questa lettera, dal titolo “La nostra via d’uscita è la pace”, è certo il frutto della solita ipocrisia dei governanti occidentali, italiani in primis, ma è anche il segno tangibile di una difficoltà politica che non si ha neppure il coraggio di affrontare.
Chi può ancora credere all’affermazione di Frattini secondo cui i soldati italiani sono in Afghanistan per “difendere la sicurezza nazionale”?
La verità è che la guerra in Afghanistan (ed in Pakistan) continua perché gli Stati Uniti considerano vitale per i loro interessi il controllo dell’Asia centrale. E’ questo uno dei cardini della “nuova” strategia di Obama. Ecco perché gli americani, seguiti dagli alleati della Nato (tra cui l’Italia), stanno aumentano le truppe ed intensificando gli attacchi alle forze della resistenza.
Ma niente lascia pensare che tutto ciò gli possa bastare, al di là della buffonata elettorale che andrà in onda tra un mese.