Le divergenze tattiche tra Washington e Tel Aviv

L’ultimo numero di Limes ha un titolo assai significativo: “La rivolta d’Iran nella sfida Obama-Israele“. Lasciando qui da parte i giudizi che vengono dati sulla situazione iraniana – l’Iran è uno di quei temi sui quali il pensiero unico imperiale non ammette sfumature di sorta, e Limes non può dunque fare eccezione – colpisce la centralità che viene assegnata alle divergenze esistenti in questa fase tra Washington e Tel Aviv. Per Limes, il tradizionale rapporto di totale sintonia tra la capitale dell’impero ed il suo avamposto mediorientale appartiene ormai ad un passato che la nuova leadership americana si sarebbe lasciato definitivamente alle spalle.

Ci siamo già occupati diverse volte della nuova strategia obamiana, ed in particolare del significato del discorso pronunciato dal presidente americano agli inizi di giugno al Cairo. Senza dubbio l’obamismo rappresenta un tentativo assai articolato di rinnovamento delle forme del dominio  americano nel mondo, in particolare in Medio Oriente. Un cambiamento delle forme necessario proprio per preservare la sostanza della configurazione imperialistica degli ultimi decenni, ma che ha indubbiamente generato un certo nervosismo nel governo israeliano.
E’ dunque in atto, per dirla con Limes, una sfida Usa-Israele, o se preferite Obama-Netanyahu?
Se parlare di sfida risulta senz’altro eccessivo e fuori luogo, sarebbe però sbagliato ignorare le divergenze tattiche esistenti sulla questione iraniana. In tempi normali queste divergenze verrebbero sicuramente riassorbite all’interno della relazione privilegiata che esiste tra Usa ed Israele, ma sono questi tempi “normali”?

Lotta di classe a Teheran

Prima di cercare di dare una risposta a questo interrogativo conviene fare un passo indietro per dare un’occhiata agli ultimi avvenimenti iraniani.
L’approccio geopolitico di Limes è infatti alquanto semplificatorio: mentre i fatti di Teheran rappresenterebbero l’inizio della fine della prima repubblica islamica, dando quindi slancio all’iniziativa politica di Obama; la vittoria di Ahmadinejad darebbe invece forza al “falco” Netanyahu che spinge per un attacco in tempi brevi.
Nulla ci viene invece detto sulla reale natura dello scontro interno all’Iran, ma questo atteggiamento accomuna praticamente tutta la stampa italiana, come già avvenne sulla resistenza irachena, da Libero a Liberazione.
Fa eccezione un’intervista alla Stampa del 18 luglio di Juan Cole, islamista ed esperto del Medio Oriente, nonché consulente di Obama, che così spiega lo scontro in atto: “Rafsanjani rappresenta la borghesia rivoluzionaria che si sente minacciata da Ahmadinejad, considerandolo un nemico di classe“. (Rafsanjani) “appartiene ad un ristretto gruppo di leader khomeinisti che dopo la rivoluzione si è arricchito con lo sviluppo di commerci e il controllo di industrie manifatturiere ed è diventato espressione degli interessi di questa classe. Il cui avversario è oggi Mahmud Ahmadinejad“.
Cosa viene esattamente imputato al presidente rieletto? Ma è chiaro: “La decisione di Ahmadinejad di sfuttare gli ingenti proventi del greggio per pompare denaro a favore del ceto medio-basso ha fatto impennare l’inflazione, che ora tocca il 30 per cento, e i bazaris non amano l’inflazione perché erode i loro profitti economici. E’ solo uno dei tanti esempi. Bisogna tener presente che Rafsanjani rappresenta un’idea moderna di capitale economico mentre Ahmadinejad è un populista che punta a sfruttare le risorse nazionali per rafforzare il sostegno politico di cui gode nei ceti più poveri dell’Iran. Sotto questo aspetto Ahmadinejad è un nemico di classe per il mondo produttivo nel quale si riconosce Rafsanjani” (evidenziature nostre, ndr).
Cole ammette dunque che nello scontro in atto in Iran l’aspetto economico e sociale è prevalente.
E’ esattamente quello che abbiamo sostenuto fin dal principio, ed è questa la spiegazione principale del travolgente successo elettorale di Ahmadinejad. Il fatto che Rafsanjani, alias lo “Squalo”, sia dovuto scendere direttamente in campo per dirigere lo scontro al posto del candidato sconfitto Mousavi, la dice lunga su quale sia la posta in gioco.
Ma Rafsanjani è anche l’uomo più odiato del paese (l’intervista di Cole spiega chiaramente il perché), e la sua appare come una mossa disperata che alla fine non potrà che rafforzare la posizione di Ahmadinejad e Khamenei.
Si scordino dunque il “regime change” per via politica e si scordino anche l’addomesticamento della leadership del paese.

I preparativi militari israeliani

Tutti sanno che anche un’eventuale vittoria elettorale di Mousavi non avrebbe cambiato molto per quanto riguarda i programmi nucleari dell’Iran. Tuttavia, l’esito del voto e l’evidente sconfitta che si va profilando per i cosiddetti “riformisti” nello scontro che ne è seguito tolgono di mezzo anche questa illusione coltivata in diversi circoli occidentali.
Ecco allora che ritorna l’interrogativo iniziale proposto anche da Limes. Ci sarà, oppure no, l’attacco all’Iran? E da chi sarà effettuato, dagli Usa o da Israele?
Vediamo intanto alcuni fatti. Pochi giorni fa un funzionario del ministero della difesa israeliano ha dichiarato al Times che “Israele si sta preparando alla complessità di un attacco all’Iran“. Fanno parte di questa preparazione lo schieramento di navi e sommergibili nel Mar Rosso, l’esibizione degli accordi esistenti con alcuni paesi arabi (vedi l’attraversamento del canale di Suez da parte di diverse unità della marina israeliana, compreso un sommergibile Dolphin – vedi foto – in grado di lanciare missili con testata nucleare), le notizie sulla disponibilità dell’Arabia Saudita alla concessione dello spazio aereo per permettere il passaggio dei bombardieri israeliani diretti in Iran.
D’altronde, il consigliere per la sicurezza nazionale di Israele, Uzi Arad, ha minacciato esplicitamente l’Iran dichiarando al quotidiano Haaretz che “Israele deve rafforzare la sua forza di dissuasione con armi tremendamente potenti“. E, mentre Israele non ha risposto alle accuse iraniane di stare progettando con i Mujaedheen del popolo l’assassinio di Ahamdinejad, il capo dello staff israeliano, Moshe Ya’alon, ha dichiarato ad un giornale australiano che “serve un immediato confronto con la rivoluzione iraniana, perché non ha senso stabilizzare il Medio Oriente oggi, senza prima avere sconfitto il regime iraniano“. E su Ahmadinejad, Ya’alon ha candidamente detto che: “Noi dobbiamo studiare la possibilità di ucciderlo. Qualunque opzione deve essere considerata“.
Ma questi progetti sono solo israeliani?
Come mai, allora, l’ambasciatore statunitense all’Onu, John Bolton, ha sentito il bisogno di dichiarare che è logico attendersi una disponibilità di alcuni paesi arabi per la concessione dello spazio aereo, basta che Israele “non se ne vanti“?
E perché Hillary Clinton, non più tardi del 15 luglio, ha ribadito che “l’Iran non ha diritto di avere una capacità nucleare militare“, e che “gli Usa sono decisi a impedire che l’acquisisca“? A scanso di equivoci, la ministra degli esteri dell’amministrazione Obama ha così concluso: “non esiteremo a difendere i nostri amici, i nostri interessi e soprattutto il nostro popolo con vigore e, se necessario, con la forza militare più potente del mondo“.

Cosa aspettarsi adesso?

La storia degli ultimi decenni non è stata priva di momenti di contrasto tra Usa ed Israele. Alleati di ferro, Washington e Tel Aviv hanno avuto anche in passato motivi di dissenso legati ai loro diversi interessi. Tuttavia la crisi di Suez è ormai lontana nel tempo, e negli ultimi 40 anni gli Stati Uniti hanno sempre finito per assecondare le posizioni e le iniziative militari israeliane.
E’ stato così anche 7 mesi fa, con la strage di Gaza benedetta sia dall’amministrazione uscente di Bush, sia da quella entrante di Obama.
Quei tempi sono davvero finiti? Lo vedremo.
La divergenza tattica tra Obama e Netanyahu è semplice da spiegarsi: Israele ha lo scopo di innescare il conflitto, puntando in primo luogo alla distruzione degli impianti nucleari iraniani; gli Stati Uniti possono scatenarlo solo con l’obiettivo di un cambio di regime a Teheran. Netanyahu può accontentarsi di un successo parziale, ma per Obama – impegnato con sempre maggiori forze in Afghanistan e Pakistan e tutt’altro che fuori dal pantano iracheno – la guerra potrebbe essere giustificata solo da un obiettivo decisamente più ambizioso, come appunto il regime change.
Ma, piccolo particolare, una guerra all’Iran che avesse quell’obiettivo scatenerebbe un conflitto dieci volte più impegnativo di quello iracheno. Può permetterselo Obama in questa fase?
Com’è facilmente intuibile il fattore tempo avrà un’importanza straordinaria. Si dice, ad esempio, che il no americano ad attacchi alle installazioni nucleari di Teheran valga fino alla fine del 2009. Ma in questi casi è bene andare cauti sulle scadenze, mentre è invece necessario avere chiara la posta in gioco.

Stati Uniti ed Israele hanno diverse agende, diverse priorità, diverse esigenze e diversi interessi, ma condividono rigorosamente lo stesso obiettivo strategico: impedire lo sviluppo del programma nucleare iraniano per impedire il consolidamento dell’Iran come potenza regionale a cavallo tra il Medio Oriente e l’Asia Centrale.
Non possiamo sapere in anticipo come le diverse esigenze tattiche andranno a fondersi con il comune obiettivo strategico, ma possiamo avanzare un’ipotesi: un attacco israeliano al quale seguirebbe l’intervento americano nel caso di una risposta militare iraniana.
Lo schema si presenta abbastanza semplice. Israele bombarda, con risultati più o meno efficaci ma comunque significativi. L’Iran viene a trovarsi tra l’incudine della non risposta, con la conseguente perdita di credibilità interna ed internazionale, ed il martello di una reazione che verrebbe certamente presa a pretesto dagli Usa. Ragionevolmente Teheran sarebbe costretta alla seconda opzione, ed a quel punto la guerra diventerebbe una realtà.
Questo schema è di sicuro nella mente degli strateghi israeliani, alcuni dei quali dicono chiaramente che solo gli Stati Uniti hanno i mezzi per poter vincere uno scontro di questa portata.
Esso è condiviso anche dalla Casa Bianca, od almeno da una parte importante dell’amministrazione Usa? Non lo sappiamo. Certo Washington non ama farsi dettare l’agenda da altri, ma il meccanismo oggettivo innescabile da Israele ben difficilmente potrebbe essere fermato.
Ecco perché il governo razzista di Tel Aviv è fortemente tentato di accendere la miccia. Del resto, se così non fosse non si capirebbero gli inviti Usa alla prudenza quanto meno sui tempi dell’attacco. Ma gli israeliani sono determinati perché sanno che in ogni caso (vedi le dichiarazioni della Clinton che abbiamo citato) il sostegno americano non mancherà.
Tornando allora alla domanda iniziale –  Israele sta veramente preparando l’attacco all’Iran? – la risposta è certamente sì, lo sta preparando. Incerti sono i tempi, non la scelta della guerra.

PS
Dedichiamo le ammissioni contenute nell’intervista di Juan Cole ad una sinistra cieca, ormai incapace di ogni analisi di classe oltre che di quella dell’imperialismo. Le dedichiamo in particolare a chi ha manifestato sabato scorso a Firenze (Socialismo Rivoluzionario ed altri) per un “Iran libero”, cioè di fatto per un colpo di stato filo-occidentale.
Dedichiamo invece le notizie sui preparativi di guerra ai pacifinti con la bandiera arcobaleno: sono tutti in vacanza, od hanno semplicemente mandato il cervello all’ammasso obamiano?