1.500 persone decedute nel 2008

* Black Agenda Report
15/07/09

L’organizzazione “Salvare il Darfur” negli ultimi cinque anni ha prodotto un’abile e miliardaria campagna mediatica, infarcita di stelle dello spettacolo, per dipingere la spaventosa visione di una guerra di sterminio (arabi contro negri) con ben 400.000 morti. Uno scenario privo di spiegazioni di qualunque tipo, né storiche, politiche o di classe, ma soltanto un genocidio in cui sono in scena il bene contro il male, e che rende necessario un nostro interevento.

Ma le grandi frottole raccontate sul Darfur ora si stanno sgretolando. Giornalisti, accademici e pure qualche inviato degli Stati Uniti, tornano dalla regione raccontando che se mai vi sia stato un genocidio, ora non c’è più. Il governo britannico ha deciso che “Salvare il Darfur” non può usare la cifra di 400.000 morti che compare continuamente negli spot lanciati negli USA, per il semplice motivo che non è vera.

Cent’anni fa W.E.B. Dubois in Souls of Black Folk scrisse: “..l’interesse per i fatti che riguardano i negri, si è spostato sui dolci”. Se oggi fosse ancora vivo, Dubois potrebbe dire lo stesso dell’interesse statunitense per i fatti del Darfur, del Sudan e il resto dell’Africa, dell’Iraq e del resto del mondo. I fatti sono una cosa complicata. I fatti provengono da un contesto storico e hanno conseguenze incerte. Le verità eterne, come il bene contro il male, invece, sono comprensibili: dolci come le caramelle, semplici e gradevoli.

Da quando è stata fondata nel 2004, “Salvare il Darfur” ha speso decine di milioni in sofisticate campagne mediatiche per descrivere uno scenario che è proprio quello di cui si parlava: facile da capire, dolce e consolatorio soprattutto perché noi siamo i buoni. Il Darfur, per usare le parole di Samantha Power, è “un problema uscito dall’inferno”, un caso di malvagità senza ambiguità in cui il potere globale degli USA può essere usato in modo costruttivo, perché un genocidio chiama all’azione e non a fare politica. Fermare un genocidio, ci dicono, è la prima cosa da fare.
La lezione di un genocidio è che le grandi potenze devono fare qualcosa, la gente di coscienza e buona volontà deve intervenire.

Ci sono vari problemi al riguardo, come proposizione generale e nell’attuazione specifica nel Darfur. Anzitutto, il genocidio si definisce come il tentativo di cancellare dalla mappa una nazione o un popolo. Ci sono così poche prove che in Darfur vi siano stati degli assassini di massa che, nel 2007, a “Salvare il Darfur” in Gran Bretagna è stato proibito l’uso della cifra di 400.000 morti, come invece accade negli Stati Uniti. Questo perché in Gran Bretagna esiste un ente chiamato Autorità per gli Standard Pubblicitari e questo ente ha verificato i dati citati da “Salvare il Darfur” sulla base della documentazione fornita sull’argomento dal GAO (Organismo di Ricerca dipendente dal Congresso USA che controlla le credenziali per gli esborsi dei fondi pubblici) statunitense. Lo studio del GAO aveva stimato che i morti erano tra i 50.000 e 70.000, provocati da un insieme di cause (che colpiva entrambe le parti in conflitto), dalle malattie alla carestia per la desertificazione. Quell’ente aveva anche precisato che il picco di decessi si era verificato fra 2004 e 2005, e che da lì in poi era andato scemando.

Il professore africano Mahmood Mamdani ha viaggiato per settimane in Sudan e Darfur per il progetto “Dialogo par il Darfur” dell’Unione Africana, intervistando funzionari, attivisti e popolazione locale in conflitto. In una conversazione presso l’Howard University il 20 marzo 2009 ha riferito che solo qualche giorno prima, il comando delle forze di pace dell’Unione Africana in Darfur ha stabilito il numero di morti complessivo (compresi i deceduti nei campi profughi e nei loro dintorni) in 1.500 decessi. Anche se la cifra totale di morti, che va dai 50.000 ai 70.000, è un fatto gravissimo, non può essere considerato un genocidio in corso.

Mentre alcuni membri del congresso si facevano arrestare nell’ambasciata sudanese a Washington, Afhin Rattansi, un reporter e presentatore di Al Jazzera, CNN, The Guardian, Bloomberg News e altri media, viaggiava nel Sudan parlando con africani, rappresentanti d’organizzazioni occidentali per le donne e testimoniava che poteva muoversi liberamente.

Anche il generale Scott Gration de l’USAF, inviato speciale nell’area è tornato la settimana scorsa a Washington dicendo che la situazione nel Darfur, al peggio, presentava solo “le tracce di un genocidio”, lasciando intendere che la violenza era terminata da un pezzo. Forse le dichiarazioni del generale Gration si spiegano alla luce delle differenze dell’amministrazione statunitense, anche se l’ambasciatrice alle Nazioni Unite, Susan Rice, appena due giorni prima aveva dichiarato che in Darfur era in corso un genocidio.

Di fatto, la storia del genocidio in Darfur è sempre meno credibile.
Ma “salvare il Darfur”, è una campagna pubblicitaria, e come tale non ha l’obbligo di dire la verità. Si tratta di un campagna mediatica, non di un movimento di base. E’ guidata da un’agenzia che ha clienti come Dupont, l’azienda chimica responsabile dell’assassinio di decine di migliaia di persone a Bhopal, quando è esplosa una delle sue fabbriche in India.

Come BAR (1) ha rivelato nel 2007, “Salvare il Darfur” è una campagna pubblicitaria per giustificare le guerre per il petrolio e le risorse in Africa.

Secondo il resoconto del Wasthington Post dell’estate 2007: “Save Darfur” è stata creata nel 2005 da gruppi preoccupati dal genocidio in corso nel paese africano.. il “American Jewish World Service” e il “Museo statunitense per la memoria dell’Olocausto”… Trenta persone con esperienza in politica e relazioni pubbliche.. Le sue risorse ammontano a circa 15 milioni di dollari… “Save Darfur”, che questa settimana ha cercato di mettere in cattiva luce la Cina – sede delle Olimpiadi del 2008 – a causa del suo sostegno al governo sudanese, rifiuta di far sapere quanto ha speso per la sua campagna pubblicitaria. Ma un portavoce dell’organizzazione dice che la spesa è nell’ordine di milioni di dollari”.

Anche se la campagna mediatica di “Salvare il Darfur” impiega tecniche di marketing viral (2), estesa a studenti universitari e bloggers africani, non è un movimento di base, come lo furono i movimenti contro l’apartheid o di appoggio ai movimenti di liberazione africani in Sudafrica, Namibia, Angola e Mozambico di una generazione fa. Piena di cristiani evangelici che predicano la prossima guerra della fine del mondo, e con elementi noti per l’appoggio incondizionato delle politiche israeliane in Medio Oriente, “Save Darfur” è una campagna di propaganda che usa milioni di dollari per creare consenso a favore dell’intervento militare statunitense in Africa con la giustificazione di fermare o prevenire un genocidio.

La costruzione di genocidi, “problemi usciti dall’inferno” negli angoli del mondo dove gli USA devono intervenire, sono molto utili. Sembrano essere i successori della cosiddetta “guerra al terrore” come giustificazione per le avventure dell’esercito statunitense nel mondo.

Lo si ascolti dalla bocca dell’ambasciatrice statunitense all’ONU, Susan Rice:
La Responsabilità di Proteggere, o cosiddetto R2P (acronimo dell’espressione inglese Right To Protect), è un passo avanti nella storica lotta per salvare vite e curare l’interesse dei popoli in pericolo a causa di conflitti. Stabilisce che gli Stati hanno delle responsabilità oltre agli interessi, e che hanno obblighi particolari in materia di protezione delle proprie popolazioni da depravati e assassini. Questa prospettiva è audace. E’ importante, e gli Stati Uniti le danno il benvenuto..

(..)

Il vero Darfur è un posto complicato, con una politica complicata che “Salvare il Darfur” non aiuta a capire. Ciò che “Save Darfur” non ci dice, è che c’è una guerra civile con molte formazioni ribelli e altrettante che vi lottano contro, e non un massacro indiscriminato di civili. “Save Darfur” non dice mai che l’area è stata inondata d’armi da USA, Francia e Israele da un lato, e da Libia e Unione Sovietica durante la decennale guerra del Chad. E dimenticano sempre di dirci che la linea che separa chi è “negro” da chi è “arabo”, in Darfur è stata fluida per secoli, e come spiega Mahmood Mamdani nel suo libro “Saviors and Survivors” (Salvatori e Sopravvissuti) ha più a che vedere con la cultura e lo status che con la “razza” in termini occidentali.

L’orribile immagine descritta da “Save Darfur”non fa altro che prolungare il conflitto civile in questo sfortunato paese, animando una o l’altra fazione in modo da evitare il negoziato ed alimentare la speranza che l’intervento occidentale li porterà al potere.

La dottrina della “responsabilità di proteggere” promossa dall’ambasciatrice Rice serve a garantire che nonostante i fatti, “Salvare il Darfur” guadagnerà l’attenzione dei legislatori per fornire le pubbliche motivazioni utili ad intervenire in altri paesi.

Note:

1-   Black Agenda Report, radio statunitense ascoltabile anche in Internet (blackagendarport.com)
2-   Il marketing virale o la pubblicità virale sono termini usati per riferirsi alle tecniche di marketing che cerca di sfruttare reti sociali e altri media elettronici per produrre processi di autoriproduzione virale analoghi all’espansione di un virus informatico.

 

Articolo originale

http://www.blackagendareport.com/?q=content/darfur-%E2%80%9Cgenocide%E2%80%9D-lies-unraveling-%E2%80%93-only-1500-darfuris-died-2008-says-african-union

Versione spagnola www.rebelion.org/noticia.php?id=88664&titular=las-mentiras-sobre-el-“genocidio”-en-darfur-están-saliendo-a-la-luz

Traduzione dallo spagnolo per www.resistenze.org (popoli resistenti – sudan – 20-07-09 – n. 283) a cura di F.R. del Centro di Cultura e Documentazione Popolare