Il PCL sulla crisi iraniana

Abbiamo ricevuto un commento sulla posizione assunta dal P.C.L. riguardo alle manifestazioni di protesta svoltesi in Iran. La pubblichiamo volentieri poiché ci sembra una critica lucida e sostanzialmente condivisibile. Qui infatti non c’è di mezzo solo l’analisi concreta della situazione concreta, ma la demistificazione di una apparente purezza ideologica usata come paravento per nascondere un cedimento reale all’ideologia democratica mainstream.

Qual’è il succo della posizione del PCL in merito ai recenti avvenimenti iraniani? Presto detto: sostenere le proteste studentesche per rovesciare Ahmadinejad senza tuttavia concedere alcun appoggio all’ala “riformista” di Moussavi. Ma sentiamo quanto scrive il PCL nel suo comunicato del 20 giugno:

«Per tutte queste ragioni è decisivo coniugare la piena scelta di campo a sostegno del movimento di massa iraniano con una coerente proposta politica indipendente.
Le istanze democratiche della rivolta vanno sviluppate conseguentemente sul loro stesso terreno: immediata riconvocazione delle elezioni! Via la repubblica islamica, via la teocrazia! Assemblea costituente, libera e sovrana, con un suffragio universale dai sedici anni di età!
Questo stesso sviluppo di una battaglia democratica conseguente richiede la rottura con Moussavi e Rafsanjani, con ogni ala della borghesia islamica e liberale, e l’ingresso in campo della classe operaia, a partire dalle sue rivendicazioni sociali.
Solo una classe operaia che si ponga alla testa della rivolta democratica può contrastare ogni sua subordinazione alle pressioni dell’imperialismo.
Solo un blocco sociale autonomo da Rafsanjani, dalla borghesia degli arricchiti, dall’imperialismo, può incrinare il blocco sociale su cui si regge il regime, sottrargli il consenso dei settori poveri, nelle campagne e nelle città.
Solo un blocco sociale di lavoratori, giovani, strati popolari delle città, può rovesciare i rapporti di forza, precipitare la crisi del regime, aprire la via di un’alternativa vera.
Solo un governo operaio e popolare in Iran, che rompa con la borghesia e l’imperialismo, può trascinare la realizzazione compiuta delle rivendicazioni democratiche, entro una dinamica di rivoluzione permanente.

Questo programma richiede lo sviluppo di un partito comunista rivoluzionario dell’avanguardia di classe in Iran, che tragga le lezioni del movimento operaio iraniano e delle politiche fallimentari delle sinistre iraniane: dalla subordinazione degli stalinisti a Khomeini nella rivoluzione iraniana del ’79, sino alla subordinazione del riformismo e del centrismo ai fronti popolari con la cosiddetta “borghesia democratica” (“Consiglio della resistenza iraniana”).

Il PCL fa appello a tutte le forze della sinistra italiana per un’azione di autonomo sostegno al movimento di massa iraniano contro la repressione teocratica sulla base di un programma e di una proposta coerentemente classista e antimperialista. In aperto contrasto con quelle operazioni politiche dell’imperialismo e del sionismo che lavorano ad assorbire la rivolta iraniana entro il proprio programma di omologazione dell’Iran al controllo occidentale.»
(http://www.pclavoratori.it/files/index.php?c3:o1375)

Io ritengo che questa posizione sia doppiamente sbagliata. E’ sbagliata l’analisi degli avvenimenti e del movimento di protesta, e sono di conseguenza sbagliati l’approccio e la proposta politici. Faccio subito una domanda: da che dipende la giustezza di una proposta politica rivoluzionaria? E’ forse giusta una proposta politica solo perché essa ricalca nel modo più fedele quanto fatto o suggerito da venerati maestri, o da quanto scritto in questo o quel programma (del ‘38)? Ovviamente no, ma è proprio questo l’errore che compie il PCL: adottato uno schema e una griglia interpretativa, considerati sacri alcuni principi tattico-strategici, non occorre far altro che incrociarli et voilà, ecco che abbiamo la “giusta linea”. Che è sempre dogmaticamente la stessa, fatte salve alcune irrilevanti sfumature.

Si rilegga infatti attentamente il comunicato del PCL. Si provi a sostituire teocrazia e repubblica islamica con “dittatura”. Si immagini che al posto di Moussavi e Rafsanjani mettiamo “x” e “y” (che stanno, facciamo tanto per dire, per Kerensky, Prodi, Bertinotti, Lula o Chavez). Cosa avremo? Avremo una posizione pass-partout, onnicompresiva, valida per tutte le stagioni e ad ogni latitudine.

Un metodo simile io lo chiamo dogmatico. Un metodo di questo tipo è sbagliato alla radice e non può che portare a posizioni astratte, che possono mettere in pace la coscienza supponiamo molto pura di chi lo utilizza, ma che sono destinate alla più disarmante inefficacia. Come può sfuggire tutto questo ai dirigenti del PCL?  Come può sfuggire che le loro sono soltanto declamazioni verbali prive di qualsiasi solidità e realismo politici? Se accettiamo che questi dirigenti credono in quel che dicono, la sola spiegazione che abbiamo è che le prese di posizione, per i dirigenti PCL, hanno scopi essenzialmente identitari, servono cioè anzitutto a contraddistinguersi, mi vien da dire a farsi belli. Il resto sembra avere poca importanza.

So che voi del Campo non liquidate sic et simpliciter le proteste di Tehran come “rivoluzione colorata”. Forse avete ragione, o forse no, forse c’è un effettivo gioco di sponda tra l’ala rafsanjanista e la Casa Bianca. Ad ogni modo mi pare che siamo d’accordo su un fatto: la natura di un movimento di protesta non possiamo giudicarla prendendo in considerazione un criterio soltanto, quello delle rivendicazioni democratiche che solleva. Altrimenti, appunto, avremmo dovuto appoggiare non solo tutte le “rivoluzioni colorate” ma la gran parte dei tentativi controrivoluzionari, molti dei quali istigati in nome della democrazia e dei diritti umani.

Il giudizio su un dato movimento (analisi concreta della situazione concreta diceva Lenin) va dato incrociando più fattori e più criteri. Per esempio: qual’è la composizione sociale del movimento? Mobilita esso gli sfruttati e gli oppressi oppure no? Quali sono, oltre ai diritti democratici le altre rivendicazioni del movimento? Si tratta di un movimento effettivamente spontaneo oppure esso è pilotato? E se pilotato, da quali forze ? Chi sta alla testa del movimento? Che legami hanno i capi del movimento con le frazioni dello Stato e/o con l’imperialismo?  Che funzione svolgono in questo movimento eventuali forze rivoluzionarie e/o antimperialiste? Cosa dice questo movimento dell’imperialismo e del sionismo? Ove vi fosse, qual è il sostrato culturale del movimento?

E’ evidente, leggendo il comunicato, che il PCL non si pone affatto queste domande e dunque non si perita di fornire alcuna risposta. La posizione del PCL è di un semplicismo disarmante. La tabellina pitagorica ci fa la figura della dialettica hegeliana. Si parte da un assioma: la dittatura di Ahmadinejad (che a torto si scambia con la teocrazia), e da qui si ricava il teorema che non solo ogni rivendicazione democratico-borghese è legittima, si fa discendere automaticamente il teorema che ogni movimento che alzi il vessillo della democrazia sarebbe progressivo e quindi sostenibile. Non solo, usando come fosse una parola magica, un  Abracadabra, il concetto della “rivoluzione permanente” si stabilisce che ogni movimento di lotta democratico è destinato per sua natura, come se ubbidisse ad un disegno provvidenziale, a trasformarsi o a trascrescere in movimento di lotta per il socialismo o il “governo degli operai”.

Qui si scambiano lucciole per lanterne. Non si vuole prendere atto che possono esservi movimenti democratici a carattere reazionario, o filoimperialista, o puramente borghesi. Insomma: per nulla destinati a trascrescere e a svilupparsi in movimenti di lotta anticapitalisti o antimperialisti. Senza scomodare le repellenti “rivoluzioni colorate”, se ci atteniamo alla storia degli ultimi trent’anni, in particolare alla devastante parentesi del crollo di quelli che i dirigenti del PCL si ostinavano trotskysticamente a definire “stati operai”, URSS in testa, è macroscopico che fossimo  davanti a processi di controrivoluzione sociale capitalistici, tutti indistintamente avvenuti in nome della “democrazia” (borghese). Vorrei fare solo un esempio, quello venezuelano. Non è forse vero che la controrivoluzione ha sollevato, mobilitando masse ben più enormi di quelle che stanno dietro a Moussavi e Rafsanjani, rivendicazioni democratiche? E che alcune di esse fossero formalmente legittime, poteva forse giustificare l’appoggio ai contras e chiedere il rovesciamento di Chavez?

Per Dio! Ma dopo tutto quanto è successo ancora non vogliamo vedere che democrazia e controrivoluzione possono andare a braccetto? Trotsky si rivolterà nella tomba, ma non solo per questo, per l’uso superficiale e opportunistico della sua teoria della “rivoluzione permanente”.

Provo a spiegarmi. Chi avesse afferrato seriamente il pensiero di Trotsky sa bene che la sua teoria, alludeva sì ad un processo storico obbiettivo (ovvero che nei paesi arretrati non c’è una muraglia tra rivoluzione democratica e rivoluzione socialista, che la prima ha la tendenza a trasformarsi nella seconda), ma metteva in guardia gli stolti da ogni lettura determinista e/o meccanicistica. Trotsky ha cioè sempre insistito che senza un partito rivoluzionario alla guida del movimento democratico mai e poi mai esso si sarebbe potuto trasformare in movimento per il socialismo. Quante conferme ha avuto questa visione! Ogni volta che frazioni borghesi o anche piccolo-borghesi si sono poste alla testa delle rivoluzioni democratiche, ogni qualvolta non hanno voluto compiere il passo verso la radicale rottura con l’imperialismo, il tutto è finito in fragorose e sanguinose sconfitte.

Chiedo al PCL: c’è forse una forza rivoluzionaria alla testa delle proteste? Vi sembra un dettaglio che una frazione, che tra l’altro voi stessi affermate non essere migliore di Ahmadinejad, sia alla testa delle proteste? E se questi ittiosauri come Rafsanjani soffiano sul fuoco della rivolta non significa forse che non di un movimento popolare spontaneo si tratta ma di una mobilitazione ben orchestrata?

Altre due domande: in Iran oggi siamo forse di fronte ad una situazione rivoluzionaria o prerivoluzionaria? O non siamo invece davanti allo scontro tra un regime autoritario ma antimperialista e forze interne borghesi e antioperaie, stanche del populismo ahmadinejadista e ansiose di ottenere una spartizione della torta a proprio vantaggio? E non è forse vero che l’imperialismo mondiale coalizzato è tutto dalla parte dei rivoltosi perché si augura il rovesciamento di un governo schierato non solo con le punte avanzate della Resistenza, ma coi regimi antimperialisti come quelli di Chavez e Evo Morales?

Un’ultima peregrina domanda: al movimento anticapitalista e antimperialista mondiale conviene che Ahmadinejad venga rovesciato e al suo posto salgano al potere i suoi avversari dichiarati?

I compagni del PCL si proclamano trotskysti. Io da parte mia mi ci ritengo. Chi di noi si sta sbagliando?

Un trotskysta anonimo