«Gli operai europei dovranno attraversare quindici, venti, cinquanta anni di guerre civili e internazionali, non solo per trasformare la situazione ma per trasformare anzitutto se stessi».

Karl Marx

Una crisi storico-sistemica

Dopo essere stato espunto dall’orizzonte concettuale come pure dall’impianto categoriale e lessicale della scienza economica ufficiale, il concetto di “crisi del capitalismo” conosce in questi mesi uno straordinario revival. Che il capitalismo sia in “crisi” è diventato addirittura un luogo comune, e in quanto tale esso non può dirci né spiegarci nulla sulle sue cause, sulle sue dinamiche e sui suoi esiti possibili.

 

Il concetto è infatti, per sua natura, descrittivo, astratto, algebrico, ad esso vengono fatte corrispondere cifre e valori differenti. Si va dalla fisiologica interruzione di un ciclo economico espansivo, ovvero la recessione con la relativa contrazione degli indici coi quali si misura lo “sviluppo economico”, alla stagnazione, per finire con la depressione (figura tanto esorcizzata dato che riporta al crollo del 1929 e alle sue catastrofiche conseguenze mondiali).

Sono dell’avviso che questa crisi sia talmente peculiare che a poco serva, per comprenderla, utilizzare queste figure o ricorrere ad analogie storiche. Intanto noi, sin dall’autunno scorso, abbiamo parlato di “crisi sistemica del capitalismo”. Certo, anche questa è solo una figura, ma una figura che vuole dare il senso della sua profondità e ampiezza, del carattere epocale delle sue ripercussioni, economiche, sociali e politiche. Potremmo infatti essere più precisi e parlare, dentro una concezione non uni-lineare ma multi-lineare del corso storico, di crisi storico-sistemica del capitalismo (occidentale). Le parole sono importanti e siamo tenuti a spiegarle.

Non intendiamo per crisi solo quello che lo stesso Obama ha definito, riferendosi al crack finanziario partito dagli USA, “collasso sistemico”; non intendiamo solo un evento, il punto culminante della malattia che afferra il corpo sociale, bensì un processo, una trasformazione, il punto di passaggio che segna un mutamento della formazione sociale che ha rappresentato il basamento dell’economia-mondo, il limes oltre il quale essa non sarà più la stessa.

Storico non è dunque un sostantivo che adopriamo a caso. Quali che potranno essere gli esiti momentanei del collasso sistemico (tra cui può esserci anche una breve ripresa del ciclo) esso non solo annuncia la fine di un intera fase, forse di un’epoca storica, e l’ingresso in un nuovo periodo contraddistinto dall’incipiente spostamento del baricentro sistemico da ovest verso est. Il sostantivo qualifica altresì la caratteristica del periodo nuovo in cui entriamo, che sarà turbolento, caotico e accidentato, segnato da conflitti plurimi che afferreranno anche le cittadelle dell’Occidente imperialistico. Conflitti che decideranno il corso storico sul lungo periodo e forse anche le sorti dell’umanità.

Sistemico, è un aggettivo di filiazione marxiana che indica la profondità e l’ampiezza del mutamento. Per noi sistema non è solo le relazioni economiche, l’economia di mercato, quanto l’insieme sociale, costituto dai modi di produzione, dalla forze produttive, dai rapporti sociali e di proprietà, dalle sovrastrutture politiche, statuali e geopolitiche, dalle loro reciproche e indissolubili connessioni.

Il concetto di capitalismo, a sua volta, non è meno controverso. Noi non pensiamo, come invece ritengono la quasi totalità delle dottrine economiche accademiche che il capitalismo sia un sistema naturale, che ogni processo produttivo sia capitalistico, quindi che ogni strumento di produzione sia capitale (che cioè siano la medesima sostanza la zappa del contadino dell’antico Egitto, l’arco del cacciatore aborigeno fino al grande impianto industriale odierno). Con Marx noi riteniamo che il capitalismo sia oltre che un prodotto storico, uno specifico modo di produzione, contraddistinto da peculiari rapporti sociali e da ben precise leggi di movimento.

Una nota epistemologica

Se assumiamo quest’ultimo paradigma siamo tenuti a considerarne le sue conseguenze.

La prima è di carattere filosofico: se il capitalismo è un prodotto storico, se non è condannato all’eternità, è non solo lecito ma obbligatorio interrogarsi sul suo destino.

Assunta questa prima ne discende una seconda, di carattere scientifico: se il capitalismo è uno specifico modo di produzione occorre indagarne le caratteristiche peculiari, analizzare la sua struttura, svelare le sue leggi e, ove sia il caso, i suoi contrasti costitutivi (visto che nulla in questo mondo è privo di contrasti, anzi sono proprio essi a determinare l’evoluzione di ogni organismo sociale, le sue crisi e il suo sviluppo) e il loro possibile sbocco.

Se accettiamo queste premesse dobbiamo sapere che esse, certo non contengono conclusioni a priori, ma tracciano sia il perimetro di gioco che le sue regole. Così facendo compiamo un’ulteriore rottura con la manualistica economica, per la quale non ha alcun senso, né chiedersi quale sia il destino storico del capitalismo (essendo esso naturale ed eterno), né parlare di contrasti costitutivi o contraddizioni sistemiche.

Si discetta molto su quanto Marx debba ad Hegel, basti qui segnalare che Marx non tenta nemmeno di rispondere alla domanda filosofica sul destino ultimo dell’umanità o quella ontologica sul senso dell’esistenza umana. Marx ha preso un’altra strada rispetto ad Hegel: si è sforzato di designare un apparato analitico e categoriale per capire il capitalismo, ha tentato di svelare le sue leggi di movimento e quindi indicato il suo approdo finale. Questo, nel bene e nel male, è stato lo sforzo ciclopico di Marx.

V’è una specificità dell’approccio epistemologico marxiano, ed è l’intreccio indissolubile tra la prospettiva rivoluzionaria e l’attività scientifica.

Per gli scientisti quest’intreccio è una vera e propria bestemmia. L’attività scientifica è per essi neutrale e indifferente rispetto ai fenomeni che essa indaga. Ogni analisi sociale sarebbe pregiudicata ove essa non fosse obbiettiva, distaccata dal suo oggetto. Per dirla con Weber: lo scienziato deve limitarsi a dare giudizi di fatto (i soli che avrebbero il rango della dignità scientifica), senza mai associarli a giudizi di valore.

In verità il rigore analitico dell’indagine marxiana del sistema capitalistico non viene meno a causa dei suoi presupposti critici. Questo rigore ha anzi una solidità a fortiori dal momento che solo lo sguardo critico e appassionato può evitare la pura descrittività, giungendo a vedere fin dentro le viscere del sistema, alle sue fondamenta, nei recessi ove si annidano i suoi congeniti contrasti.

Su questo piano, più che all’hegelismo, Marx paga un tributo alla rivoluzione copernicana di Kant. Il cosiddetto “fatto”, l’oggetto dell’indagine, è compreso dal soggetto solo nella misura in cui quest’ultimo sa dotarsi di un metodo analitico che risulta a sua volta da una serie di fattori storico-sociali, dal livello storicamente dato delle tradizioni e delle conquiste scientifiche. Il metodo non è mai indifferente all’oggetto dato che esso discende da determinate categorie a priori senza le quali il pensiero non conoscerebbe un bel niente. Per cui, radicalmente dissentendo dal Lenin di Materialismo ed empiriocriticismo, non è che la conoscenza sia un mero rispecchiamento, come se il pensiero fosse uno specchio in cui la realtà si rifletta esattamente com’è. È vero il contrario: per conoscere l’oggetto il pensiero non deve solo gettare su di esso il proprio sguardo, deve smontarlo, domarlo, afferrarlo nella propria struttura cognitiva, inquadrarlo entro l’orizzonte di una concezione del mondo.

Queste sono le premesse da cui Marx inizia la sua indagine scientifica. Tuttavia, procedendo nella sua fatica, avanzando nel tempo, egli resta impigliato dentro un’aporia, se volete una vera e propria ambiguità. Dove sta l’aporia? Sta che Marx —mentre contesta a Smith e Ricardo che essi trattino il capitalismo come un fenomeno naturale, e quindi pretendano di comportarsi come degli astronomi che analizzano il moto meccanico dei corpi celesti— egli, condizionato dalla cultura positivistica ed evoluzionistica del suo tempo, aderirà ad una concezione illuministico-razionalista della scienza, finendo anch’egli per concepire lo sviluppo della società come un “processo di storia naturale” in cui ogni fenomeno soggiace a leggi bronzee e intangibili, finendo insomma per torcere il materialismo storico in un determinismo storico, in un meccanicismo.

Nota è l’affermazione di Marx in una prefazione al Capitale:

«Anche quando una società è riuscita a intravedere la legge di natura del proprio movimento —e fine ultimo al quale mira quest’opera è di svelare la legge economica del movimento della società moderna— non può né saltare né eliminare per decreto le fasi naturali dello svolgimento [ … ] Il mio punto di vista, che concepisce lo sviluppo della formazione economica della società come processo di storia naturale, può meno che mai rendere il singolo responsabile di rapporti dei quali esso rimane solamente creatura, per quanto soggettivamente possa elevarsi sopra di essi».

Lo scienziato Marx era dunque oramai lontanissimo dal filosofo degli anni ’40 quando, mutuando l’essenzialismo determinista hegeliano, così immaginava la funzione escatologica del proletariato:

«Ciò che conta non è che cosa questo o quel proletario, o anche tutto il proletariato si rappresenta temporaneamente come fine. Ciò che conta è che cosa esso è e cosa esso sarà costretto storicamente a fare in conformità a questo suo essere».

Resosi conto del carattere idealistico di quest’ultima premessa, Marx si sbarazzò della forma idealistica ma conservò la sostanza deterministica, appoggiandola non più sull’essenza teleologica del proletariato, bensì sulle leggi di movimento del capitalismo stesso. Il socialismo diventava il figlio legittimo dello sviluppo capitalistico, risultato della spinta delle forze produttive a superare i limiti rappresentati dai rapporti di produzione. La rivoluzione quindi, più che un salto emancipativo e catartico attraverso cui gli oppressi si sbarazzano delle loro catene, veniva concepita come uno sbocco necessitato, frutto inesorabile delle contraddizioni capitalistiche. La funzione storica del proletario non dipendeva più dal fatto che in esso sarebbe “… compiuta praticamente l’astrazione da ogni umanità”, ovvero perché date le sue condizioni disumane rappresentava il polo negativo e distruttivo della società borghese, ma in quanto esso era l’erede legittimo del capitalismo destinato a proseguirne la missione sviluppista.

Avrete spero tutti compreso che la mia opinione è che noi dobbiamo sbarazzarci, assieme all’illusione scientista, cioè al mito della neutralità e a-valutatività della scienza sociale, anche della sua forma economicistica, cioè del determinismo insito nell’opera più matura di Marx, allo stesso modo di come egli seppe sbarazzarsi della sua forma idealistica degli anni ’40.

Marx e le crisi del capitalismo

Queste premessa era necessaria, poiché mentre ora daremo uno sguardo all’analisi critica del capitalismo di Marx, raccolta come è universalmente noto nel Capitale, dovremo sapere di quale Marx stiamo parlando. Stiamo parlando, ripetiamolo, di un Marx che mentre riconosceva il proprio debito filosofico verso Hegel e la sua dialettica, si considerava non un filosofo, ma uno scienziato del capitalismo, colui che, salendo sulle spalle dei classici, riteneva di averne decifrato le leggi di movimento obiettive ed esposto le contraddizioni intrinseche che ne avrebbero causato il superamento.

Dico subito che non è possibile né plausibile rispondere alla domanda se la teoria marxista può aiutarci a capire le cause dell’attuale collasso dell’economia capitalistica prescindendo appunto dalla diagnosi marxiana del sistema, poiché per Marx non solo le crisi parziali ma a fortiori quella che poi sarà chiamata “crisi generale”, non dipendono da distorsioni accidentali o da deficienze momentanee; sono al contrario l’ineluttabile conseguenza dei meccanismi sistemici, il logico sbocco del suo movimento evolutivo, momenti che disvelano il modus essendi e operandi del capitalismo medesimo.

La prima tesi marxiana

Essa è nota: il saggio di profitto (ovvero il rapporto tra il plusvalore e il capitale complessivo, costante e variabile), costituisce la molla che muove la produzione capitalistica. Questa tesi è alquanto semplice: la macchina capitalistica si mette in moto solo in quanto può estorcere plusvalore, produce soltanto ciò che può riconsegnare un profitto e nella misura in cui tale profitto può essere intascato.

E’ vera o no questa prima tesi? Che cioè il saggio di profitto, l’estrazione del plusvalore, e in ultima istanza il profitto, siano la forza motrice di tutto il marchingegno capitalistico?

Io ritengo che sia vera, che sia anzi una verità lapalissiana. Da questa verità ne deriva immediatamente una seconda che ci aiuta non poco ad inquadrare la causa di ultima istanza di ogni crisi capitalistica: il meccanismo capitalistico s’inceppa, il capitale non ha motivo di continuare a produrre merci, ove accadesse che le aspettative riguardo al saggio di profitto siano ritenute insufficienti oppure, il che è la stessa cosa, che il saggio non restituisca, oltre al valore del capitale, il plusvalore atteso. Questo inceppamento Marx lo qualificava come crisi di sovrapproduzione.

Su questa qualificazione vale la pena fare una precisazione e far parlare Marx:

«La parola sovrapproduzione induce in sé in errore. Finché i bisogni più urgenti di una gran parte di società non sono soddisfatti, o lo sono soltanto quelli più immediati, non si può assolutamente parlare di una sovrapproduzione di prodotti, nel senso che la massa dei prodotti sarebbe eccedente relativamente ai bisogni. Si deve dire, al contrario, che sulla base della produzione capitalistica vi è sempre, in questo senso, una costante sottoproduzione. Il limite della produzione è il profitto dei capitalisti, non il bisogno dei produttori. Ma sovrapproduzione di prodotti e sovrapproduzione di merci sono due cose completamente distinte. (…) Da un lato l’incondizionato sviluppo delle forze produttive e quindi la produzione in massa sulla base della massa dei produttori rinchiusi nel cerchio dei mezzi di sussistenza necessari, e dall’altro il limite dato dal profitto dei capitalisti: su queste basi si sviluppa la sovrapproduzione».

Mi sia concesso, anche allo scopo di verificare la validità di questa legge (della crisi di sovrapproduzione) di compiere una prima precisazione che si rivelerà decisiva al fine di comprendere la peculiarità dell’attuale crisi storico-sistemica e dei suoi sbocchi più probabili. Marx scriveva in tempi in cui le grandi masse vivevano in una condizione di miseria, ovvero di generale penuria di beni e di servizi, in cui solo i “bisogni più immediati” erano soddisfatti mentre non lo erano nemmeno quelli “più urgenti”. È sotto gli occhi di tutti che dopo la seconda guerra mondiale, col definitivo superamento della grande depressione e l’avvento del modello consumistico, la situazione è radicalmente mutata. Marx non poteva prevedere che il capitalismo avanzato (che è quello di cui egli analizzava le dinamiche evolutive), lungi dal tenere le masse in stato di miseria, avrebbe fatto proprio dell’accesso delle larghe masse a livelli compulsivi di consumo di merci il vero e proprio motore dell’intero meccanismo economico.

Il fatto che Marx non potesse prevedere quest’esito non giustifica noi dal tacere che egli sia stato smentito, che si sia sbagliato a prefigurare una congenita incapacità del capitalismo di soddisfare i “bisogni più urgenti di gran parte della società”. Prevedendo cioè “una costante sottoproduzione” di prodotti. Ben al contrario il capitalismo occidentale ha partorito un sistema sociale che oltre ad aver soddisfatto “i bisogni immediati e urgenti della gran parte della società”, ha istituito un modello fondato sulla sovrabbondanza di beni, anzi sull’eccedenza di prodotti rispetto agli stessi bisogni primari, fino al punto che la produzione di merci, pur di estendersi ad una scala sempre più larga e capillare, è dovuta ricorrere a creare artificialmente bisogni nuovi, fino al giorno prima sconosciuti o considerati del tutto superflui. Il lungo boom postbellico si deve spiegare proprio a causa di questa devastante rivoluzione copernicana, per cui non solo la macchina produttiva ha teso a realizzare ogni bisogno reale, ma ha saputo inventarsene in modo smisurato sempre di nuovi, invadendo ogni poro della società, occupando ogni spazio possibile, compresi quelli reconditi delle sfere immateriali e oniriche. Per dirla con J, K. Galbraith: «Se si vuole incrementare la produzione, i bisogni debbono essere effettivamente inventati, altrimenti l’aumento di produzione non si verifica.

Ma una seconda precisazione s’impone. Rileggiamo attentamente questa frase: «Da un lato l’incondizionato sviluppo delle forze produttive e quindi la produzione in massa sulla base della massa dei produttori rinchiusi nel cerchio dei mezzi di sussistenza necessari, e dall’altro il limite dato dal profitto dei capitalisti: su queste basi si sviluppa la sovrapproduzione». Cosa dobbiamo ricavarne? Che Marx aveva visto giusto che le forze produttive contenevano un impulso a svilupparsi incondizionatamente (ed è proprio questo impulso a spiegare il boom postbellico), tuttavia il capitalismo ha potuto smentire Marx, ovvero che la massa dei produttori non è restata per niente rinchiusa nel cerchio dei mezzi per la mera sopravvivenza necessari alla riproduzione delle proprie energie lavorative e, non meno importante, che la ricerca del profitto non ha affatto costituito un freno insormontabile alla produzione in massa di prodotti. Oggi abbiamo che sovrapproduzione di merci equivale anche a sovrapproduzione di prodottti, proprio nel senso letterale per cui la produzione di beni è eccedente rispetto non solo alla capacità del mercato di assorbirli e realizzarli come merci, ma a quelle del corpo sociale di utilizzarli poiché del tutto superflui.

V’è una terza conclusiva precisazione da fare. Marx non lascia dubbi di sorta sul fatto che le masse proletarie debbano impugnare al capitalismo questo suo limite invalicabile avocando a sé lo “sviluppo incondizionato delle forze produttive”, acquisendolo come proprio compito storico supremo. Oggi sappiamo che questo dogma è fallace, sappiamo che non si deve parlare di “sviluppo incondizionato”, che questo principio liberista proprio delle grandi imprese transnazionali, va anzi rigettato, che si deve non solo ripensare la qualità dello sviluppo, ma che va addirittura fermato dal punto di vista quantitativo. Se il vecchio movimento operaio è imploso è anche perché non ha saputo rovesciare il paradigma sviluppista, per il tragico accodamento all’apprendista stregone del capitalismo onnivoro.

Possiamo ora rispondere alla domanda: è stato l’attuale collasso sistemico, manifestatosi col corto circuito nella sfera della circolazione, ovvero il crack del sistema finanziario e bancario, causato dalla sovrapproduzione, ossia dalla caduta del saggio di profitto?

La mia risposta è netta: sì. Il collasso sistemico manifestatosi col crack finanziario del 2008 è solo l’epifenomeno, la conseguenza di ultima istanza della caduta generale del saggio di profitto almeno nella gran parte dei comparti dell’economia capitalistica occidentale.

Quand’è, in termini assolutamente generali, che abbiamo la crisi? Quando il capitale non può funzionare come tale, ovvero accrescere il proprio valore, quando non riesce a realizzare il plusvalore incorporato nelle merci e a trasformalo in un profitto adeguato. In questo caso il capitale, non senza cercare ogni possibile scappatoia, si svalorizza. La crisi è dunque la modalità con cui il capitale reagisce alla propria svalorizzazione, al fatto che siccome ha sfornato (grazie allo sviluppo delle forze produttive) troppe merci riguardo alla capacità di assorbimento del mercato, esso si trova nell’impossibilità di venderle ad un prezzo che riconsegni non solo il loro valore (che sta per il tempo di lavoro materializzato in ogni merce e che deve essere uguale al tempo di lavoro socialmente necessario alla loro produzione) ma pure il plusvalore.

Marx dice: «Nella produzione di merci, la trasformazione del prodotto in denaro, la vendita, è la conditio sine qua non. Con la non-vendita, sopravviene la crisi». A questo punto non resta che fermare la macchina produttiva, la recessione, in attesa che l’equilibrio tra offerta e domanda si ristabilisca. Se questo equilibrio non viene trovato presto avremo, non la ripresa del ciclo, ma la tanto esorcizzata depressione.

Perdonatemi la pedanteria. Provo a spiegare in modo più semplice la posizione di Marx in altro modo.

Quand’è che il ciclo espansivo si interrompe? Quando non si realizza la formula che racchiude l’essenza stessa del meccanismo capitalistico: D-M-D’. Il possessore del denaro-capitale desiste dal mettere in circolazione il proprio D, ovvero ad investire il suo denaro nel ciclo produttivo, ove temesse di non ottenere D’, quel surplus di valore che, come abbiamo visto, è il solo incentivo della produzione capitalistica. Senza D’ il capitale desiste dall’investire, preferisce, o mantenere il capitale nella forma monetaria aspettando circostanze più favorevoli, oppure, come è successo, indirizzarlo nel campo evanescente e aleatorio della pura speculazione finanziaria. Ecco dunque che il processo semplicemente si interrompe e scoppia la crisi. Nel nostro caso: la crisi di sovrapproduzione era già in atto negli anni ’80-’90, ciò che spiega come mai enormi masse di capitale scelsero la strada piscotropica della speculazione finanziaria, la scorciatoia illusoria che il denaro producesse denaro (D-D’). Il crack finanziario era inevitabile, come del resto i più accorti economisti avevano ampiamente previsto.

Ma proprio tenendo conto di quanto da me precisato sopra, noi dobbiamo parlare sì di crisi di sovrapproduzione, ma specificare che siamo in presenza di una crisi di sovrapproduzione raddoppiata: la capacità della macchina produttiva capitalistica è cresciuta in maniera talmente squilibrata e irrefrenabile che non abbiamo solo sovrapproduzione di merci, ma anche sovrapproduzione di prodotti. Questo è il dato inedito della crisi che vive il capitalismo occidentale, che lo pone davanti alla necessità di una riconversione sistemica, pena il definitivo declino.

La seconda tesi

Consiste in questo: che il saggio di profitto, a causa delle crescente composizione organica del capitale (il rapporto tra il capitale costante e quello variabile, ovvero la quota crescente degli investimenti destinata al macchinario, alle materie prime e in genere a tutto quanto non vada in salari) ha la tendenza a scendere progressivamente.

E’ vero che questa caduta del saggio di profitto sia tendenziale e che dipenda inesorabilmente dalla crescente composizione organica del capitale? Con altri teorici marxisti ritengo che no, che il saggio di profitto non sia condannato a scendere automaticamente a causa dell’aumento altrettanto inesorabile della composizione organica del capitale.

Intanto ribadiamo, a scanso di equivoci, due concetti: che la caduta del saggio è la causa ultima delle crisi generali, e che questa caduta può essere causata da altre ragioni che non l’aumento della composizione organica, ad esempio, come detto sopra, per l’impossibilità dei capitalisti sia di vendere le merci al loro valore (crisi di sovrapproduzione), che per l’eccedenza dei prodotti rispetto ai bisogni (crisi raddoppiata di sovrapproduzione).

En passant: questa stessa crisi, come possiamo vedere, può avvitarsi su se stessa a causa del corto circuito nella sfera finanziaria e bancaria, che produce a sua volta l’impossibilità di reperire denaro e credito necessari al rilancio della produzione. Ma da cosa dipende questo corto circuito? Questa sfiducia del capitale nella sua forma monetaria tesaurizzata di reimmettersi nel circuito produttivo? Dipende dal fato che il sistema bancario non crede che i quattrini eventualmente prestati potranno ritornare con i dovuti interessi; in altre parole non crede che si debba investire in un modello economico che ha fatto fiasco, in aziende che producano le medesime merci e i medesimi prodotti di prima. Tenendo stretti i cordoni della borsa il capitale finanziario è il primo a mostrare di non credere che si tratti di una crisi passeggera, che ci si possa affidare al puro e semplice rilancio della vecchia economia consumistica.

Tornando a quella che Marx considerava la legge di movimento fondamentale del capitalismo, ovvero la caduta tendenziale del saggio di profitto, va detto che Marx, pur avendo segnalato ben sei “cause antagonistiche” della legge, ovvero le sue controtendenze, non le tenne tutte nella debita considerazione. Marx comprese ad esempio che il commercio estero (oggi diremmo esportazione di capitali e super-profitti imperialistici estratti nei paesi dominati) o l’accrescimento del capitale azionario, potevano frenare la caduta del saggio di profitto. Ma non credette che queste controtendenze avrebbero potuto salvare il capitalismo dalla sua bancarotta.

Ma tra le “controtendenze” ve n’è una che si rivelerà di assoluta importanza. Si tratta della crescita del saggio di plusvalore o di sfruttamento (rapporto tra pluslavoro e lavoro necessario), accompagnata ad economie di scala sempre più grandi, derivati a loro volta dal poderoso aumento della produttività del lavoro. Questo aumento riduce infatti non solo il valore delle merci che entrano a comporre i mezzi di sussistenza della forza-lavoro, riduce anche il valore delle macchine e delle materie prime. Abbiamo così che all’aumento del volume fisico del capitale costante (macchinario e materie prime), non corrisponde sempre un aumento della composizione organica —che è un’espressione di valore e non concerne le dimensioni fisiche del capitale stesso.

Marx a ben vedere, nell’approntare lo schema sulla caduta tendenziale, aveva considerato questa principale controtendenza, ma non ha tenuto debitamente conto che uno degli effetti della maggiore produttività del lavoro è proprio la riduzione del tempo di lavoro necessario a produrre i mezzi di produzione, in altre parole non ha considerato la diminuzione della grandezza di valore degli elementi del capitale costante quindi la diminuzione anche della composizione organica.

Lo sviluppo poderoso del capitalismo ha dimostrato che vengono introdotte solo quelle innovazioni che possono moltiplicare la produttività del lavoro e di più volte il saggio di plusvalore. Ha mostrato altresì che l’aumento della “composizione tecnica” del capitale, dovuto all’utilizzo sistematico delle innovazioni scientifiche, si accompagna non solo ad aumenti quanto mai modesti ma addirittura ad una diminuzione della sua “composizione organica”. Oppure, per dirla con Sweezy, il saggio di plusvalore può accrescersi di pari passo alla composizione organica del capitale, così da annullare gli effetti che questa ha sul declino del saggio di profitto.