Il titolo di questa relazione potrebbe far pensare che lo sbocco bellico sia una prospettiva più o meno imminente, o, nel migliore dei casi, un’eventualità futuribile. Ora, benché in Europa si ricorra agli esorcismi linguistici pur di negarlo, io penso che il mondo sia in uno stato di guerra già da vent’anni, ossia dalla caduta del Muro di Berlino. Rotto l’equilibrio che per mezzo secolo aveva poggiato sulla diarchia imperiale scaturita dalla fine del secondo conflitto mondiale, l’implosione dell’URSS ha infatti scatenato la hybris dell’oligarchia statunitense.

E se non fossero stati sufficienti i conflitti in Bosnia, Serbia, Kossovo, Libano, Palestina, Afghanistan, Iraq, Mauritania, Somalia, Sudan, Ciad, Centrafrica, Congo, Timor Est, Sry Lanka, si fa adesso sempre più probabile una nuova aggressione contro il Pakistan e l’Iran. E dopo la fallimentare avventura bellica in Georgia-Ossezia, perfino i malati cronici di eurocentrismo sono costretti ad ammettere che anche da noi la guerra è tornata d’attualità.

Nel rilevare la radicale svolta storica, tuttora sottostimata, costituita dalla scomparsa dell’URSS, da parte mia non c’è alcuna nostalgia per le diverse declinazioni del cosiddetto «socialismo reale», un modello economico e politico a tal punto screditato e indifendibile, che il suo inglorioso fallimento ha finito per trascinare con sé anche il rigetto dell’idea stessa di socialismo, e perfino il declino di una giustizia sociale minima quale obiettivo imprescindibile di una democrazia degna di questo nome.

C’è piuttosto l’amara constatazione – come ricordava Fareed Zakaria – che «il collasso del regime sovietico è stato uno spartiacque ben più sconfinato di quanto si sia realizzato a suo tempo, perché ha significato non solo la caduta di un regime, ma anche la fine di una visione del mondo come alternativa al modello occidentale liberale di governo. Ciò ha portato (…) alla fine di ogni dibattito ideologico-culturale su quale forma di governo sia la più giusta» 1.

Ma c’è anche la constatazione di un fatto raramente evidenziato, e cioè che la quarantennale politica del containment – la strategia nord-atlantica che mirava a contenere militarmente l’espansionismo sovietico in Europa occidentale tramite la NATO – aveva prodotto come involontario effetto collaterale il contenimento anche dell’espansionismo statunitense. Caduta l’URSS, non c’è più stato alcun limes al tentativo degli USA di imporre il proprio dominio a tutto il mondo. E ciò, in forza di una potenza talmente pervasiva da risultare ormai, appunto, incontenibile.

Il vuoto causato dall’implosione sovietica

Da qui nasce l’azzardo delle ultime quattro dirigenze statunitensi, azzardo che non inizia certo all’indomani dell’11 settembre, ma che va retrodatato al momento stesso in cui davanti al mondo si spalanca l’horror vacui, il formidabile vuoto provocato dal disfacimento del blocco sovietico.

Alcune date sono significative: il Muro di Berlino va in frantumi il 9 novembre dell’89; il Patto di Varsavia viene sciolto il 1° luglio del ’91, e il 26 dicembre del ’91 è la stessa Unione Sovietica ad autosciogliersi, per decisione (ovviamente caldeggiata da Washington) di Boris Eltsin. Un anno prima – e la coincidenza è tutt’altro che irrilevante – McDonald’s aveva aperto il suo primo fast food a Mosca: sulla Piazza Rossa, per giunta, come sfida altamente simbolica al Mausoleo di Lenin. Nell’arco brevissino di 25 mesi, insomma, gli Stati Uniti si trovano improvvisamente privi del loro vecchio nemico storico.

Da lì, dal suicidio dell’impero geograficamente più esteso mai realizzato nella storia – uno schianto che nessuno aveva immaginato potesse effettuarsi tanto rapidamente, e soprattutto in maniera incruenta – inizia la vera e propria vertigine di quella che l’ex ministro degli Esteri francese Hubert Védrine definirà per la prima volta «l’Hyperpuissance américaine». Definizione che – con buona pace di Toni Negri – mi sembra più adeguata di impero. Il termine impero, infatti, definendo uno spazio preciso, pone ipso facto dei confini; delimitando la sua estenzione territoriale, fissa dei limiti; indicando qualcosa di compiuto, di chiuso, di stabile, rimanda a una tangibile solidità; indica cioè uno spazio oltre il quale restano altri spazi che all’impero ancora non appartengono. Iperpotenza, invece, suggerisce qualcosa di inafferrabile proprio perché – come direbbe Zygmunt Bauman – liquidamente non contenibile; evoca insomma il dinamismo allo stato puro, che nel suo farsi via via crescente esprime il dilagare della Macht.

E in effetti, nel momento in cui gli USA vengono universalmente riconosciuti come l’unica Iperpotenza, la White Eagle, l’aquila imperiale nordamericana, si guarda intorno e si scopre improvvisamente sola, priva di nemici alla sua altezza, domina ormai incontrastata dell’intero orbe terracqueo. Basti dire che gli USA dispongono di 770 basi militari situate in 63 Paesi stranieri, con 300.000 soldati che vi stazionano in permanenza – di cui 82.460 nella sola Europa e 33.286 in Giappone – oltre a più di 700.000 civili, e che truppe statunitensi sono presenti in 146 Paesi, vale a dire nel 75% della superficie del pianeta.

Convinta di essere ormai in grado di decidere i destini di 6 miliardi di esseri umani senza dover più rendere conto di niente a nessuno, perché nessuno è più in grado di opporle un limite invalicabile, un’opposizione concreta, un’alternativa credibile, è a quel punto che Washington ne approfitta, perché un’occasione simile non solo non si è mai verificata nella storia, ma presumibilmente non si ripeterà più.

L’inaudita novità inebria una leadership sempre più americocentrica, incapace di sottrarsi a una volontà di potenza che sta ormai trasformandosi in delirio di onnipotenza. Un delirio nutrito da una vena messianica che percorre la storia degli USA fin dalla fondazione delle prime colonie puritane, una nazione il cui agire non ha mai smesso di essere mosso dai ben noti mitologemi del «destino manifesto», dell’America come «nuova Terra Promessa», the shining city on the hill: «la città splendente sulla collina», la cui missione è quella di apportare al mondo libertà e democrazia.

È su questo sfondo fideistico divenuto infine strategia geopolitica, che i neoconservatori – già sotto la presidenza Clinton – stringeranno come mai era avvenuto prima i rapporti fra gli Stati Uniti e l’altra nazione “eletta” – Israele – anch’essa impregnata di millenarismo e ormai alle prese con la crescita politica dei coloni ultrasionisti, in massima parte ebrei nordamericani e russi di recentissima immigrazione, che aspirano alla Grande Israele e che – ettaro dopo ettaro – espandono gli insediamenti e riducono al minimo la presenza palestinese in “Giudea e Samaria”, come il Gush Emunim (Blocco dei fedeli) e il Likud chiamano la West Bank.

Stravolgimento di parole e princìpi

Con la complicità attiva delle “sinistre di governo” europee, si registrano tre fenomeni aberranti che per la loro sfrontatezza non hanno precedenti. Il primo è lo stravolgimento autenticamente orwelliano del linguaggio, per cui, ad esempio, gli atti di guerra diventano “missioni di pace”. Il secondo è la violazione irridente dei più elementari princìpi del diritto internazionale in nome dei “diritti dell’uomo”. È in questo modo che si giustificherà la prima guerra condotta su territorio europeo dopo il 1945, vale a dire l’aggressione della NATO alla Serbia socialista con i relativi bombardamenti sulla popolazione civile: una scelta di pura barbarie che verrà politicamente approvata e militarmente attuata da un governo di centro-sinistra presieduto da un ex comunista ansioso di legittimazione atlantica. Il terzo è la degenerazione del principio di legittima difesa in arbitrio assoluto, che si manifesta con una violenza centuplicata che ignora l’idea stessa di “proporzionalità” e che si riassume in una formula di matrice religiosa – shock and awe – che evoca il terrore sacro suscitato dal manifestarsi di una potenza sovrumana e che mira esplicitamente a terrorizzare i nemici, prevalentemente civili, privati di qualunque umanità e ridotti a cavie impotenti.

Ormai certi di poter agire nella più totale impunità, l’Iperpotenza USA e il suo alleato israeliano – i cui attacchi al Libano, alla Striscia di Gaza e ai Territori occupati sono ormai routine – sanciscono in tal modo quella condizione permanente di guerra, di arbitrio e di caos magistralmente descritta da Shakespeare, in cui «la forza si fa diritto; o per dir meglio, il diritto e il torto – sul cui conflitto consiste la giustizia – pérdono il loro nome, e così pure la giustizia stessa. Allora tutto si risolve nel potere, il potere in volere, il volere in appetito; e l’appetito, lupo universale, doppiamente assecondato dalla volontà e dal potere, vuole fare dell’intero universo la sua preda, e alla fine divora se stesso» 2.

Una breve egemonia globale

In effetti, a partire dai primi anni ’90 gli USA esercitano la loro egemonia globale su tutti i piani:

– egemonia economica: mediante i quattro pilastri del cosiddetto Washington consensus: Ministero del Tesoro USA, Fondo Monetario Internazionale, Organizzazione Mondiale del Commercio, Banca Mondiale;

– egemonia politica: boicottando innanzitutto l’aspirazione a un’effettiva autonomia da parte dell’Europa, che in termini di PIL sta ormai sopravanzando gli stessi Stati Uniti, rischia di diventare un loro pericoloso rivale, e che proprio per questo, nei piani di Washington, deve restare un nano politico; da qui la necessità, teorizzata da Donald Rumsfeld, di spaccare il nostro Continente fra “vecchia” e “nuova” Europa, ossia fra alleati riottosi e sudditi ossequenti dell’Iperpotenza;

– egemonia culturale, mediante l’imposizione – o, nel caso italiano, grazie alla supina ed entusiastica accettazione, anche “a sinistra” – degli ideali, dei modelli di vita e dei valori nordamericani, con la contemporanea abdicazione alle rispettive peculiarità nazionali e locali;

– egemonia militare, infine, ogniqualvolta l’intervento diretto e solitario del Pentagono risulti preferibile alle inevitabili mediazioni della NATO. Non solo per imporre regime changes e nations building, ma soprattutto per ricompattare l’opinione pubblica nordamericana sotto le insegne di un patriottismo bellicista, assicurare laute commesse al colosso militare-industriale, ribadire l’indiscutibile centralità del dollaro sui mercati finanziari mondiali, allontanare lo spettro di una resa dei conti interna con l’economia più indebitata del pianeta, ma soprattutto rispondere con il Warfare, una sorta di «keynesismo di guerra», a quella che – dopo gli scandali finanziari, i fallimenti a catena e lo scoppio delle prime «bolle» speculative – già dieci anni fa si configurava come una vera e propria crisi sistemica del capitalismo.

Nonostante si tratti di un falso storico, molti “esperti” economici sostengono che l’inizio dell’attuale recessione risalga all’11 settembre. Questo significa invertire le cause con gli effetti, perché è vero esattamente il contrario: nel settembre 2001, gli USA erano entrati in recessione da almeno 11 mesi, ossia sotto la presidenza Clinton, tanto osannata dai riformisti neoliberisti – da Tony Blair a Walter Veltroni – come artefice del presunto boom della “new economy”. Si potrebbe anzi dire che è proprio dalla necessità di salvare dalla bancarotta il modello economico-finanziario anglo-americano, che nasce – con l’ascesa alla Casa Bianca di Bush – l’idea di esportarlo, con la forza, in tutto il mondo.

La merce “America” ha perso il suo appeal

Senonché, alla prova dei fatti, «esportare l’America» come se fosse Mc Donald’s si è rivelato un fallimento totale. Se infatti è vero che «l’America, la terra che ha dato al mondo la Coca Cola, il film Titanic e l’Uomo Marlboro, sta facendo molta fatica a vendere se stessa», come riconosceva già sei anni fa l’editorialista del New York Times Christopher Marquis 3, ciò dipende dal fatto che il resto del mondo, soprattutto se musulmano, ha dimostrato una certa refrattarietà ad essere trattato come un emporio coloniale a cui l’America decide di vendere in franchising un’unica, medesima merce, etichettata sull’involucro come «democrazia», ma il cui contenuto altro non è che il cosiddetto «libero mercato». Non foss’altro perché – come ammonisce lo storico britannico Arnold Toynbee – «la vaga e astratta parola greca democrazia, con la quale si è finito per denominare la peculiare istituzione creatasi attraverso la monarchia dell’Inghilterra medievale e i suoi discendenti politici, ha fatto dimenticare che lo sviluppo del regime parlamentare è stato un fenomeno locale molto specifico, e non si può dare per scontato che possa adattarsi a un ambiente straniero».

Si tratta di verità empiriche che dovrebbero risultare evidenti perfino ai politologi nostrani, che da vent’anni bruciano incensi al dio della globalizzazione e predicano la superiorità del modello anglo-americano, in cui la lotta politica è concepita secondo la radicale alternativa “Coca Cola o Pepsi”. Senonché – come ha scritto Upton Sinclair (1878-1968) –«è difficile far capire qualcosa a una persona il cui stipendio dipende dalla sua capacità di non capirla»

Declino dell’egemonia culturale

In questa fase storica segnata dalla scomparsa delle ideologie, condannate a morte dal pensiero unico, ossia dall’unica ideologia obbligatoria, non c’è bisogno di essere gramsciani di stretta osservanza per riconoscere che il concetto di egemonia culturale risulta dunque tutt’altro che superato. Anzi, direi che mai come oggi il sistema capitalistico, per potersi reggere senza ricorrere alla violenza estrema contro i propri cittadini, deve frenare l’erosione di quel cemento ideologico che negli ultimi vent’anni gli ha consentito di imporsi come l’unico e l’ultimo sistema possibile, oltre che – ovviamente – il migliore in assoluto.

E anche se le recenti elezioni europee indurrebbero al pessimismo più nero, c’è da chiedersi se non si stia forse assistendo all’inizio di uno spettacolo che altri europei hanno visto esattamente vent’anni fa sulla sponda opposta del Continente, ossia al lento sgretolarsi di un’egemonia prima di tutto culturale che fino a ieri era parsa invincibile. In effetti, nell’arco di due soli decenni, l’Occidente potrebbe aver vissuto il declino di entrambi i modelli ideologici antagonisti che hanno caratterizzato il ’900. Come ha recentemente sintetizzato lo storico marxista inglese Eric Hobsbawm, infatti, «il socialismo ha fallito, il capitalismo ha fatto bancarotta, e adesso che succede?» 4.

Non disponendo di una sfera di cristallo, ritengo che per formulare delle ipotesi minimamente attendibili sul futuro che ci attende, occorra riflettere sul recente passato onde trarne qualche insegnamento. Una lettura sbagliata degli eventi-chiave dell’ultimo quarto di secolo rende infatti impossibile, o comunque perdente, qualunque risposta politica si voglia dare alla crisi in cui siamo precipitati.

La guerra: da “ultima ratio” a soluzione permanente

Ora, io penso che la prospettiva di una conflagrazione bellica come sbocco a breve-medio termine dipenda da tre fattori:

  1. la crisi economico-finanziaria che ha ormai assunto un carattere sistemico;

  2. la strategia USA che punta sul “grande scacchiere” dell’Asia centrale;

  3. il disegno sempre più pericolante della “Grande Israele” in Medio Oriente. Con la precisazione, da non sottovalutare, che gli interessi e le strategie degli Stati Uniti e di Israele a volte convergono al punto di venire esplicitamente concertate – come nel caso della presidenza di G.W. Bush – e a volte invece divergono, com’è avvenuto con la presidenza di Dwight Eisenhower nei primi anni ’50, con quelle di Ronald Reagan e di Bush padre negli anni ’80, e come accade attualmente con la presidenza Obama 5.