La rabbia del partito americano per South Stream

La «guerra dei gasdotti» è la vera partita geostrategica del nostro tempo. Dove si muovevano soldati e divisioni corazzate, oggi si muovono tubi e permessi di transito”. Con questa premessa un po’ troppo enfatica, un’editoriale di Franco Venturini sul Corriere della Sera dell’8 agosto dà la misura dell’irritazione del partito americano stanziato in Europa per il recente accordo sul gasdotto South Stream.
Relazioni pericolose” è il titolo assai significativo dell’articolo, che dà voce ad una rabbia euroatlantica tanto diffusa quanto interessante. Cerchiamo perciò di capire qual è la reale posta in gioco.

 

L’accordo di Ankara

L’importanza dell’accordo firmato ad Ankara il 6 agosto non sta tanto nei numeri (che vedremo più avanti), quanto nei suoi risvolti geostrategici. Il nodo è quello del legame energetico tra Russia ed Europa, un rapporto che gli Stati Uniti vorrebbero a tutti i costi incrinare.
E’ una partita complessa, che vede in campo diversi attori – basti pensare al ricorrente contenzioso Russia-Ucraina di cui ci siamo già occupati – ma che è in definitiva riconducibile al tentativo americano di indebolire la Russia. L’Urss è stata sciolta quasi vent’anni fa, l’“Impero del Male” non esiste più, ma non per questo la competizione è meno dura che in passato. Oggi, con le nuove ambizioni di Mosca da un lato, e con l’imporsi della dottrina Bzrezinski a Washington dall’altro, il conflitto è destinato a riaccendersi.
Del resto, per una di quelle strane coincidenze della storia, l’accordo di Ankara è venuto a cadere ad un anno esatto dall’attacco georgiano all’Ossezia del Sud che si risolse in un pesante rovescio politico-militare per Washington e Tbilisi.

Venendo ai gasdotti, la questione è semplice. La Russia, sia per la vicinanza geografica che per la consistenza delle riserve, è la fornitrice naturale dell’Europa, tant’è vero che svolge questo ruolo ormai da decenni.
Il flusso del gas russo incontra però degli ostacoli in alcuni paesi dell’ex Urss (Ucraina e, più recentemente, Bielorussia) ed in altri in passato facenti parte del blocco sovietico (Polonia). Da qui la necessità per Mosca di cercare percorsi alternativi, che hanno assunto il nome di North Stream e di South Stream, capaci di aggirare appunto a nord ed a sud il blocco dei paesi ostili o quantomeno inaffidabili.
Il caso dell’Ucraina è quello più eclatante, dato che è proprio questo paese il boccone più ghiotto del nuovo balzo ad est progettato dalla Nato, fermato per ora dalla debacle georgiana dell’estate 2008.
Mentre il progetto North Stream, che collegherà direttamente il territorio russo alla Germania attraverso il Baltico, va avanti sia pure in mezzo a mille difficoltà, il South Stream ha avuto fino ad oggi un percorso più accidentato.
Stati Uniti ed Unione Europea gli hanno infatti contrapposto un altro progetto, il cosiddetto Nabucco, un gasdotto che dall’Azerbaigian, attraverso la Georgia e la Turchia dovrebbe portare gas “non russo” in Europa. Con Nabucco, presieduto dall’ex ministro degli esteri tedesco Joshka Fisher (oggi membro della fondazione Rockefeller…), l’Unione Europea si è messa completamente in mano ai voleri della Casa Bianca, mentre non si sono invece del tutto allineati alcuni stati membri (Italia in primo luogo) e le rispettive aziende nazionali del settore.
E’ questo il fatto interessante che ha portato all’accordo di Ankara.

Non si capisce ancora dove lo sdoganeranno, quale gas vi faranno passare, anche perché l’Azerbaigian, dove Nabucco finisce non ha gas a sufficienza”. Con queste parole, che non hanno bisogno di particolari commenti, Paolo Scaroni, amministratore delegato dell’Eni ha liquidato il progetto Nabucco. Ed in effetti l’idea di un gasdotto che evita sia il territorio che il gas russo si scontra con un problema irrisolto: i paesi dell’Asia centrale non hanno ancora gas a sufficienza per alimentare un simile gasdotto, tant’è che si ipotizzano futuribili diramazioni verso l’Iraq ed addirittura l’Iran (chissà, domani, con un governo amico…).
All’incertezza di questo scenario ha corrisposto la prontezza di Putin nell’andare a chiudere il tassello mancante di South Stream, l’accordo con Ankara per il transito sui fondali del Mar Nero nelle acque territoriali turche. Va detto, però, che di un ultimo passo si è trattato, perché non meno importante era stato l’accordo di Gazprom con la Bulgaria, del gennaio 2008, che prevede la comproprietà del tratto bulgaro del gasdotto ed un patto “gas in cambio dell’attraversamento” che Sofia non ha potuto respingere.
South Stream attraverserà dunque il Mar Nero dalla città russa di Beregovaya fino a quella bulgara di Varna, mentre il tratto continentale non è stato ancora definito. Sono allo studio due direttrici: la prima, verso nord, attraverso la Romania, la Serbia, l’Ungheria e l’Austria (in questo caso la rete italiana verrebbe connessa attraverso il valico di Tarvisio); la seconda, verso ovest, passando per la Grecia, con destinazione Italia attraverso il canale d’Otranto.

L’accordo di Ankara ha dato dunque il via al progetto voluto da Putin. Non è detto che questo segni necessariamente la morte del concorrente Nabucco, ma questa è l’ipotesi più probabile. Oltretutto la potenzialità a regime di South Stream (63 miliardi di metri cubi all’anno) è doppia di quella ipotizzata per Nabucco (30 miliardi di metri cubi).
L’accordo è stato firmato da Gazprom ed Eni, che gestiranno l’impresa al 50% (costo previsto 20 miliardi di euro), e dalla Turchia che ha ricevuto in cambio la partecipazione di aziende italiane e russe ad alcuni progetti industriali nel paese.
La stretta di mano tra Putin, Erdogan e Berlusconi ha mandato su tutte le furie il partito americano che attraversa trasversalmente gli schieramenti politici europei. L’accusa è quella di “essersi messi definitivamente nelle mani dei russi”, in pratica un’accusa di tradimento rivolta in particolare al capo del governo italiano.

Alcuni dati

Per inquadrare correttamente la questione è necessario conoscere alcuni dati.
La dipendenza europea dal gas russo è rilevante, ma non così schiacciante come si vorrebbe far credere. Nel 2007, secondo i dati dell’Aie (Agenzia Internazionale dell’Energia) le importazioni dalla Russia coprivano solo il 24% dei consumi di gas europei. Al 43% prodotto negli stessi paesi dell’UE, va aggiunto il 15% proveniente dalla Norvegia, mentre la restante parte viene importata da Algeria (11%), Libia, Qatar e Nigeria.
E’ noto, però, che l’offerta di gas di produzione europea è in forte declino, mentre i consumi continuano a crescere al di là della crisi. L’Unione Europea stima un aumento della domanda interna dagli attuali 524 miliardi di metri cubi annui ai 636 previsti per il 2020. Di questi ultimi, 179 dovrebbero essere forniti dalla Russia. Una cifra enorme, ma pur sempre soltanto il 28% dei consumi finali. Tenendo conto che il gas naturale rappresenta circa il 25% delle fonti primarie utilizzate in Europa, ne consegue che l’importazione di gas dalla Russia (di cui quello proveniente dal South Stream sarebbe comunque soltanto un terzo) arriverà a coprire il 7% dei consumi energetici complessivi dell’UE. Un po’ poco per gridare alla sudditanza all’orso russo.

Se dal dato generale passiamo ad analizzare la dipendenza dal gas russo nei singoli paesi, quel che risulta chiaro è che essa deriva non da scelte politiche, ma da banalissime ragioni geografiche.
La dipendenza è infatti massima ad est, con punte del 100% in Estonia, Finlandia, Lettonia, Lituania e Slovacchia. Seguono Bulgaria (90%), Grecia (81%), Repubblica Ceca (78%), Austria (67%), Ungheria (65%), Slovenia (51%).
All’opposto, non consumano neppure un metro cubo di gas russo i seguenti paesi: Gran Bretagna, Danimarca, Irlanda, Lussemburgo, Olanda, Portogallo, Spagna, Svezia, Cipro e Malta.
In mezzo si collocano tre grandi paesi della UE: la Germania con il 39%, l’Italia (27%), la Francia (16%).

Questi dati ci dicono che nel settore del gas i fattori geografici sono tuttora dominanti, ed è logico che sia così. L’unico modo per stravolgerli si chiama rigassificazione, uno spreco enorme di risorse per il trasporto, l’impiantistica ed i rischi connessi. Uno spreco voluto in nome del “mercato”, ma sponsorizzato per evidentissime ragioni strategiche.
Nonostante tutto ciò non è difficile prevedere che il peso della rigassificazione, non fosse altro per la sua anti-economicità, resterà ancora a lungo marginale.

Questi richiami agli aspetti tecnici e geografici ci servono per mostrare quanto sia pretestuosa l’argomentazione del partito americano, quanto siano assurde le sue pretese. Tanto assurde da provocare un fuggi fuggi delle stesse multinazionali europee del settore: non solo l’Eni, ma anche le tedesche Basf ed E.on che partecipano con Gazprom al progetto North Stream, tra l’altro presieduto dall’ex cancelliere Schroeder, giusto per sottolineare la frattura che attraversa la classe dirigente tedesca.

L’indecente sezione italiana del partito americano (leggere per credere)

A questo punto ogni persona normale dovrebbe chiedersi: ma di che si impicciano gli americani? Cosa c’entrano con l’approvvigionamento del gas europeo? Si tratta di una merce che non devono né vendere né acquistare, perché sono così prepotenti?
Queste domande, talmente banali da apparire ingenue, non sfiorano neppure la sinistra italiana, tutta intenta a demonizzare Berlusconi quando irrita gli americani, quanto silenziosa, complice e plaudente quando il governo ne asseconda in toto le richieste (vedi Afghanistan).

Leggere per credere.
C’è un quotidiano di questa “sinistra” che il 7 agosto ha dedicato integralmente 5 pagine all’accordo di Ankara con i seguenti titoli:
La banda del tubo – Berlusconi sensale dell’affare del secolo tra Putin ed Erdogan – Joint-venture per far fuori l’Europa e l’America” (pagina 1).
Gas, Berlusconi lega il Paese ai voleri della Russia di Putin” (pagina 4).
Così l’Italia dà a turchi e russi tutto il potere sull’Europa” (pagina 5).
La «guerra dei gasdotti» che spiazza la UE e irrita Obama” (pagina 6).
Donne e gas – La lunga amicizia di Silvio e Vladi” (pagina 7).
La citazione di questi titoli a tutta pagina dà l’idea del contenuto degli articoli che battono tutti sullo stesso chiodo: l’accordo di Ankara lega il futuro energetico dell’Europa alla Russia di Putin, il traditore Berlusconi (ma anche il traditore Erdogan, che però interessa meno alla bassa cucina politica del nostro paese) ha avuto la condanna di Barak Obama. Una condanna, si precisa, “senza appello”.
Domanda da un euro: qual è il nome della testata che ha ospitato questo fulgido esempio di giornalismo? L’“Unità”, ovvero quel giornale, che volendo offendere la memoria oltre che il buon senso, continua a riportare la dicitura “Fondata da Antonio Gramsci nel 1924”.

Che dire? Se la sezione europea del partito americano, particolarmente potente nei palazzi dell’Unione, è trasversale agli schieramenti politici del continente, in Italia brilla per servilismo la cosiddetta “sinistra”. E con il dilagare dell’obamismo sarà sempre peggio.

Perché Berlusconi ha sgarrato?

Se l’opposizione parlamentare fa veramente schifo, resta da capire il perché della politica governativa e di Berlusconi in particolare.
Tenendo conto della situazione energetica italiana, e di quella delle forniture di gas in particolare, l’accordo di Ankara è assolutamente logico. Si prende il gas dove c’è, con accordi diretti con chi lo produce, per trasportarlo dove dovrà essere consumato: cosa c’è di strano? Il linguaggio attuale definisce questi accordi win win, dato che entrambi i contraenti hanno evidenti motivi di soddisfazione.
Abbiamo già detto che il gas russo copre il 27% dei consumi italiani, che corrisponde al 31% di quello importato (c’è infatti da considerare anche la produzione interna, pari al 13% dei consumi). La quota russa è addirittura superata da quella algerina (33,2%), mentre anche Libia (12,5%), Olanda (10,9%) e Norvegia (7,5%) detengono una fetta non disprezzabile. Solo una propaganda sfacciata può vedere in questa situazione una dipendenza assoluta da Mosca.
Lo ribadiamo: dal punto di vista degli interessi nazionali l’accordo di Ankara, che vede in gioco anche il ruolo dell’Eni, è assolutamente logico. Solo il partito americano può negarlo, continuando ad emettere minacce e condanne attraverso i multiformi canali dei suoi mezzi di disinformazione.

Resta però la domanda: perché Berlusconi ha sgarrato, perché non si è allineato ai voleri di Washington, esponendosi così alla pesante condanna della Casa Bianca? Ci sono tre tipi di spiegazione: una gossippara, una economicista, una politica.
Quella gossippara, che riportiamo per dovere di completezza ma anche per mostrare fino in fondo il tipo di lotta ingaggiata dal partito americano, si basa su una sorta di scambio “bionde per gasdotti”, un traffico che porterebbe addirittura la mafia russa nelle stanze dei bottoni dello stato italiano.
Anche qui, leggere per credere la già citata “Unità” che riprende nell’occasione il Nouvel Observateur: “Il feeling italo russo si ferma alla luce del sole? Se lo chiede il Nouvel Observateur di questa settimana riprendendo indiscrezioni provenienti da Bari: la presenza di «intere barche di ragazze dell’Est, russe e ucraine» fatte venire alle feste di Villa Certosa da Tarantini, imprenditore con frequenti viaggi a Mosca dove è consulente societario. «Con queste ragazze c’è la droga – scrive il settimanale francese citando un poliziotto antimafia – E’ la stessa filiera». Insomma attraverso la pista della cocaina seguita dai pm «l’ipotesi di un’infiltrazione della mafia russa al vertice dello stato italiano prende consistenza»”.

La spiegazione economicistica è meno contorta: Berlusconi fa prevalere gli affari sopra ogni altra considerazione. Siccome sono in ballo gli investimenti dell’Eni ed anche la penetrazione di alcuni grandi gruppi italiani in Russia (ma anche in Turchia), ogni altro elemento di valutazione è passato in secondo piano.

E se invece la spiegazione fosse ancora più semplice? Se, cioè, per una volta avessero davvero prevalso gli interessi nazionali? Naturalmente questi ultimi non sono una cosa astratta, ed in una società capitalista corrispondono inevitabilmente a precisi interessi di classe.
Ovviamente, gli “interessi nazionali” così come possiamo intenderli noi sono cosa ben diversa da quelli eventualmente perseguiti dalle forze capitalistiche.

Una domanda provocatoria

Ma – domanda provocatoria – se al posto di Berlusconi vi fosse in Italia un governo socialista ed antimperialista avrebbe dovuto sottoscrivere l’accordo di Ankara, oppure no?

Io ritengo di sì, per almeno 5 motivi.
1. L’accordo garantisce forniture certe di una fonte energetica che sarà fondamentale ancora per molti anni e che è la più pulita tra i combustibili fossili disponibili.
2. Mentre non è vero che esso renda eccessivamente dipendente l’Italia dalla Russia, è certo che la strada opposta avrebbe condotto alla necessità di un elevato numero di rigassificatori, negativi sotto ogni profilo (ambientale, economico, di sicurezza).
3. Dire di no a South Stream avrebbe voluto dire sì all’offensiva della Nato verso est. E’ francamente impossibile non rendersene conto.
4. L’imperialismo americano rimane il principale nemico dei popoli e della pace, il principale presidio dell’ordine capitalistico mondiale. Ad Ankara ha preso un calcio negli stinchi, dovremmo dolercene? 
5. La storia ci insegna che per la lotta antimperialista ed anticapitalista il multipolarismo è meglio dell’unipolarismo. Crea più spazi alle lotte dei popoli e degli sfruttati. Sia chiaro, il multipolarismo è di là da venire, ma se gli Usa avessero vinto la partita dei gasdotti l’unipolarismo a stelle strisce si sarebbe ulteriormente rafforzato.

Conclusione

Tornando alle scelte del governo italiano (certamente contrastate da una parte consistente della stessa maggioranza parlamentare), quel che Ankara fa intravedere è un possibile, parziale, ritorno alla politica estera democristiana, pur in un mutato contesto. La Dc, e poi il Psi, erano assolutamente filo-atlantici, ma nelle maglie della guerra fredda trovavano il modo di sviluppare (ad esempio verso il Medio Oriente, ma non solo) una propria iniziativa, corrispondente a dei precisi interessi. Il tutto avveniva dentro limiti rigorosi, e se qualcuno li varcava anche di poco (Craxi a Sigonella) si trovava il modo di fargliela pagare.
Poi la guerra fredda è finita, e anche quei piccoli margini alla politica estera italiana sono scomparsi. L’impero americano non ammetteva più neppure la più piccola autonomia.
Ma con il fiasco dell’offensiva bushiana e con l’esplosione della crisi economica non siamo forse entrati in una nuova fase? Forse è proprio questo che ci dice l’accordo di Ankara, che può essere letto come un momento di riemersione politica di due sub-imperialismi (Italia e Turchia), che certo non mettono in discussione la fedeltà atlantica, ma che intendono ritagliarsi un proprio piccolo spazio approfittando del momento di passaggio in atto negli equilibri mondiali.

Se adottiamo questa chiave di lettura tutto risulta assai più chiaro. La versione economicista (gli affari prima di tutto!) può benissimo integrarsi con quella politica e, se proprio lo si vuole, perfino con quella gossippara. Quando i pasciuti ministri democristiani trafficavano con il mondo arabo non dimenticavano mai né gli interessi dei maggiori gruppi capitalistici italiani, né la riscossione di laute tangenti. Non per questo possiamo dire che non si muovessero dentro un preciso disegno politico.
Un disegno politico che oggi sta riemergendo secondo le vecchie direttrici di un tempo. Pretendere di ricondurre questo fatto evidente nel classico schema antiberlusconiano è il peggiore degli errori che si possano commettere. Del resto, rimanendo al caso in oggetto, vogliamo forse dimenticare che il memorandum di intesa tra Eni e Gazprom su South Stream fu firmato già il 23 giugno 2007, cioè in pieno governo Prodi?

Ed a proposito di presente e passato, ricordiamoci che mentre si muovevano con una qualche (sempre parzialissima) autonomia sull’altra sponda del Mediterraneo, i governi di centrosinistra della Prima repubblica accoglievano gli euromissili destinati a spianare la strada all’impero americano. Ugualmente, oggi, il premier dell’accordo di Ankara è lo stesso che incrementa le truppe in Afghanistan, che appoggia totalmente Israele, che lavora per la piena americanizzazione culturale e sociale.
E’ dunque un premier da combattere con ogni mezzo, ma stando sempre ben attenti (vedi anche il caso libico) a non diventare strumenti magari inconsapevoli del ben più pericoloso partito americano, oggi forte soprattutto a “sinistra”.