L’obamismo, forma sofisticata di imperialismo

 

L’11 luglio scorso Obama lasciava il G8 svoltosi a L’Aquila per recarsi in Africa. Tappa fondamentale del tour, non a caso, Accra, capitale del Ghana. Il porto di Accra, nel disegno strategico di alcuni ambienti nordamericani, dovrebbe diventare il terminale dove far confluire almeno tre oleodotti strategici dove far confluire il petrolio dell’Africa occidentale, settentrionale, equatoriale  e orientale. Ovviamente questo Obama non l’ha detto nel suo retorico discorso al parlamento del Ghana. Certe questioni sensibili restano appannaggio di ristrettissime cosche affaristiche, protette dalle regole ferree delle diplomazia segreta. Ad Accra ha fatto piuttosto riferimento al fatto che l’Africa, essendo ricca di energia solare, geotermica e di biocombustibili, potrebbe acquisire un ruolo fondamentale per il futuro di tutta l’umanità.

 

Quella di Obama rassomiglia ad una delle usuali trovate demagogiche. Certamente è una metafora. Il petrolio è una voce importantissima, ma solo una voce, dell’agenda imperiale, dello scottante capitolo che ha per titolo “approvvigionamento strategico di materie prime”. La questione africana va infatti bel al di là del petrolio, in quanto questo continente cela nelle sue viscere la gran parte dei minerali indispensabili all’industria capitalistica mondiale. Perdere il controllo dell’estrazione e della commercializzazione di questa materie prime sarebbe letale per le grandi transnazionali occidentali. L’Occidente imperialistico non può permettersi di perdere la partita africana.

 

In questa luce va compresa la pace fatta tra gli americani e i francesi, che hanno messo da parte il loro dissapori africani per fare causa comune, ovvero per far fronte all’invadente e apparentemente inarrestabile capitalismo cinese. Lentamente ma inesorabilmente la Cina, approfittando del caos geopolitico e dell’anarchia strisciante in vari paesi, incuneandosi nelle grandi fessure lasciate aperte dal collasso dell’URSS, non ha fatto che avanzare e conquistare nuove posizioni strategiche.
Ai tempi della guerra fredda l’Africa era infatti una zona franca. Lasciata fuori dalla spartizione sancita a Yalta era in effetti terreno di scontro tra le due superpotenze (con la Cina, almeno dalla metà degli anni ‘60, in una posizione marginale seppure alleata agli U.S.A.). Dall’Algeria all’Egitto, dalla Guinea al Corno d’Africa, dall’Angola al Mozambico, passando per Namibia e Zimbawe, questo continente fu teatro di uno scontro furibondo per interposta persona: da una parte i movimenti anticolonialisti di liberazione, dall’altra le rachitiche e corrotte pseudo-borghesie nazionali. Terminato quel periodo storico con l’implosione dell’U.R.S.S., sembrava che si aprisse agli Stati Uniti una via in discesa. Non è stato così.

 

Sin dagli inizi degli ani ‘90 la Cina, che già da un decennio vedeva fiorire in modo dirompente la sua economia, metteva i piedi in Africa, contendendo ogni spazio all’imperialismo occidentale e alle sue filiali affaristiche e militari. Caduta l’U.R.S.S., di cui la Cina si considerava prima nemica, Pechino ha saputo riorientare la sua strategia. Rompendo la sua alleanza con gli americani il governo cinese è stato veloce nell’occupare gli spazi lasciati vuoti dalla ritirata russa, presentandosi infatti come garante e tutore di quei governi e di quelle forze ostili al neocolonialismo occidentale. E’ plausibile definire questa penetrazione cinese in Africa come imperialistica?

 

La mia risposta è no. O almeno, non ancora. E’ necessario ascoltare gli africani che non abbiano venduto anima e corpo all’Occidente per rendersi conto che la penetrazione cinese è anomala rispetto a quella di tradizione occidentale, prima colonialistica e poi imperialistica. La Cina certo non sarà estranea al pandemico virus della corruzione delle elites locali, ma questo paese non tenta né di occupare manu militari alcun paese, né di farne delle filiali delle proprie aziende, né di costringere queste elites a sottoscrivere contratti economici capestro. E’ evidente che la Cina faccia anzitutto i propri interessi economici e strategici, ma non a spese dei paesi in cui mette piede. La vicenda sudanese, ovvero di come la Cina è riuscita a cacciare la Chevron e le sette sorelle americane è indicativa. Il vecchio regime sudanese aveva dato mandato alla Chevron di stimare le risorse petrolifere del paese e di iniziare a pompare petrolio dai primi pozzi attivi. Viene al-Bashir e dà incarico ad aziende petrolifere cinesi di controllare se l’operato degli americani fosse corretto. E cosa si scoprì? Semplice: che essi agivano da predoni, da truffatori e da ladri patentati. Non solo truccavano al ribasso le quantità di petrolio estratto. La Chevron aveva grossolanamente falsificato, ovvero dimezzato, le stime sulla capacità effettiva dei giacimenti sudanesi. A questo punto il governo sudanese caccia i predoni e stipula accordi di grande convenienza con la Cina (e quindi il conflitto in Darfur diventa devastante). Anche se osserviamo gli accordi stipulati dalla Cina con altri paesi, primo fra tutti il Congo, possiamo vedere che i cinesi si presentano con proposte di contratto incomparabilmente più vantaggiose di quelle occidentali, tutte orientate, appunto, non al saccheggio, ovvero a superprofitti rapidi che lasciano alle loro spalle solo un deserto. D’altro canto la Cina propone (e avvia a tempo di record) grandi progetti infrastrutturali, non solo subordinati allo scambio con Pechino, ma volti appunto ad uno sviluppo endogeno delle economie nazionali.

 

Posto davanti a questa sfida di lungo periodo l’imperialismo americano ha dovuto ammettere di non poter perdere la sua supremazia in Africa. Questo è il senso più profondo dell’attenzione che Obama dedica a questo continente. Che d’ora in avanti non sarà più dimenticato o lasciato in balia delle stesse multinazionali e transnazionali occidentali. Tutte quante devono riallinearsi, d’ora in avanti, ed ubbidire ad un unico comando, quello di Washington.

 

Lo sforzo americano è talmente consistente che, pochi giorni dopo la visita del Presidente, c’è stata quella del Segretario di stato Hillary Clinton, la quale si è dedicata ad un’attività meno spettacolare e più prosaica, ma quanto mai rivelatrice della divisione dei compiti in seno all’amministrazione Americana. Ad Obama i grandi discorsi ideologici, il compito di imbellettare con belle frasi sulla democrazia e i diritti umani la politica imperialistica statunitense, alla Clinton quello di metterli in pratica, tessendo segrete e pubbliche alleanze, mettendo in guardia gli avversari, ricattando gli alleati e obbligandoli a seguire gli ordini.

 

Nel suo nuovo tour africano di fine luglio la Clinton si è incontrata (a Nairobi, che Mogadiscio è troppo pericolosa) col traballante presidente somalo (ex Corti Islamiche) Sharif Ahmed. Quale flessibilità mostrano gli americani! Fino ad un anno fa, in quanto leader delle Corti, Sharif Ahmed era uno dei leader sulla Lista Nera, accusato di connubio con al-Qaida. Dopo che le Corti respinsero l’invasione etiopica (voluta e sostenuta da Washington) e conquistarono il potere (gennaio 2009) gli Stati Uniti hanno iniziato un sotterraneo lavorio di avvicinamento al nuovo governo ad interim, augurandosi che esso vincesse la sfida lanciata dalle milizie radicali islamiste di al-Shabaab.

 

Quello che solo un anno fa sembrava impensabile è avvenuto. La Clinton ha offerto al traballante governo di Sharif Ahmed pieno appoggio, ovvero il raddoppio delle consegne di armi leggere e pesanti alle truppe lealiste, passando esattamente da 40 a 80 tonnellate. Per di più Gibuti (dove c’è una grande base U.S.A.) verrebbe usata come retroterra della lotta, non solo contro le milizie di al-Shabaab, ma anche per minacciare la confinante Eritrea, che è il principale paese che finanzia e sostiene gli oppositori al regime zoppicante di Sharif Ahmed.

 

Questo avvicinamento alle Corti somale non deve essere letto solo come una specie di escamotage tattico, dettato dal puro stato di necessità. Le Corti sono per origini, tradizioni e finalità dichiarate, decisamente antiamericane nonché antimperialiste. Che l’attuale leadership statunitense non abbia esitato ad agganciarle in base al principio del male minore o, se vogliamo, dell’urgenza di fermare il pericolo principale, è tuttavia significativo di come Obama e l’establishment che gli sta dietro valutino la questione islamica e dunque delle profonde differenze con l’approccio bushano. E’ finita la fase per cui il mondo arabo-islamico radicale era considerato un nemico principale, in quanto tale. Per gli obamiani, fatta salva fino a prova contraria la difesa intransigente di Israele, sarà necessario venire a patti anche con frange radicali islamiche, e se inevitabile lasciare che esse giungano al potere qui e lì. Non si contrasta l’onda islamista con la politica del muro contro muro, ma negoziando con loro allo scopo di isolare i settori più antimperialisti e radicali.
Questo insegna la svolta somala di Obama, che avrà le sue ripercussioni in tutto il Medio oriente. Abbiamo già visto in Iran come Washington tenti di trascinare dalla sua parte un settore della Repubblica Islamica evitando l’avventura di un golpe o di una “rivoluzione colorata”. Molto probabilmente questo nuovo approccio avrà conseguenze in Palestina (spaccatura eterodiretta di Hamas?) e in Libano (dove il tentativo si presenta decisamente più complicato visto che invece di spaccare il fronte della Resistenza, con la svolta di Jumblatt, si è spaccato quello opposto).