A proposito delle dichiarazioni di Fini sulla strage di Sant’Anna di Stazzema
Pochi ci avranno fatto caso. L’antifascismo istituzionale è retorica allo stato puro da sempre, figuriamoci adesso. E le ricorrenze sono ricorrenze: discorsetti di circostanza, frasi fatte ricombinabili anno dopo anno. Ma anche le frasi fatte hanno il loro significato…
E’ questo il caso di quella pronunciata da Gianfranco Fini, nel telegramma inviato al sindaco di Stazzema (LU) in occasione del 65° anniversario della strage nazifascista di Sant’Anna (12 agosto 1944).
Ecco il testo: «Signor Sindaco, desidero rivolgere a nome mio personale e della Camera dei deputati la più intensa partecipazione per lo svolgimento delle iniziative organizzate per il 65mo anniversario dell’eccidio di Sant’Anna di Stazzema, costata la vita a 560 innocenti in nome di una insensata e barbarica rappresaglia. A Lei e a quanti parteciperanno alla cerimonia di commemorazione invio il più cordiale saluto».
Questo testo, innocente solo in apparenza, contiene una parola decisiva, “rappresaglia”. Ma nel piccolo paese arroccato sulle Apuane meridionali non vi fu alcuna rappresaglia, dato che all’epoca dei fatti non vi erano state azioni partigiane nella zona. Fu solo un massacro, volto a terrorizzare preventivamente la popolazione civile che lì si era rifugiata.
Ci siamo già occupati della questione (vedi Il vero Miracolo a Sant’Anna) a proposito del film di Spike Lee, che servì a qualcuno per riaprire il solito dibattito sulle presunte “responsabilità dei partigiani”.
E proprio dall’articolo di Pier Paolo Filippini, attento studioso della Resistenza in lucchesia, scritto in aperta polemica con la ricostruzione del regista americano, riprendiamo la descrizione sommaria della strage:
«S. Anna di Stazzema fu circondata da tre colonne tedesche, guidate dai repubblichini fascisti (collaborazionisti con il nemico, per dirla tutta) locali alle prime luci dell’alba di sabato 12 Agosto 1944. La strage inizia intorno alle 7; alle 12 circa era tutto finito: 560 morti quasi tutti bambini, donne e anziani. Non fu rappresaglia: i primi di Agosto del 1944 S. Anna era stata definita dallo stesso comando tedesco “zona bianca” ossia località adatta ad accogliere sfollati ed in più, come si evince dalle documentazioni dei comandi tedeschi e delle brigate partigiane che combatterono sulle Apuane meridionali, non c’era, alla fine di Luglio, nessuna attività bellica nei confronti delle truppe di occupazione, che potesse “giustificare” l’eccidio (se mai un’azione contro civili inermi possa essere giustificata).
Tra l’altro, il parroco stesso di S. Anna, Don Giuseppe Vangelisti, interrogato dai componenti l’inchiesta militare alleata sull’eccidio, annotò la completa estraneità ad avvenimenti bellici o la presenza di armi nel paese».
Non fu dunque una rappresaglia. Non che la rappresaglia contro civili possa mai trovare una giustificazione, ma la verità storica è che non si trattò di una rappresaglia. Perché allora l’ex delfino di Almirante, oggi terza carica dello Stato, insiste con questa menzogna?
L’unica spiegazione plausibile sta proprio nel mix dei due Fini, quello col braccio teso nel saluto romano (versione n° 1) e quello con la kippà ebraica (versione n° 2) che trova nel filosionismo la nuova religione razzista da servire.
Il primo Fini dirigeva un partitello nostalgico che al massimo arrivava al 5%, il secondo Fini (benché in costante declino di credibilità politica e personale) è arrivato all’alto scranno di Montecitorio.
Cosa hanno in comune i due Fini, oltre al fatto di doversi esprimere attraverso le parole della stessa persona fisica? L’odio per la resistenza dei popoli, di quella di ieri, di quella di oggi. Se quella odierna la si può denigrare in tutti i modi in nome della superiorità dell’occidente, quella di ieri va screditata in maniera soft. Ed allora anche certe parole hanno un senso.
Denunciare la falsificazione storica è un dovere, ma in questo caso ancora più importante è cogliere appieno lo squallore di un personaggio come Fini, non a caso terza carica dello Stato in questo disgraziato periodo della storia nazionale.