Considerazioni controcorrente dopo la vittoria degli operai della INNSE

Gli operai della Innse hanno vinto una lotta lunga e difficile. I 49 posti di lavoro sono stati salvati. La controffensiva allo sgombero del 2 agosto è stata abile e vincente. Dal punto di vista sindacale, tanto di cappello ai lavoratori che hanno condotto questa lotta. E tanto di cappello anche dal punto di vista umano, perché è raro di questi tempi vedere una simile tenacia unita ad un’indubbia intelligenza politica.
Ma tutto ciò giustifica l’enfasi riservata a questa vicenda? Più precisamente: è sensata la parola d’ordine “Fare come alla Innse”, già agitata all’unisono dalle varie formazioni della sinistra italiana? La mia risposta controcorrente è no, non solo non è sensata ma potrebbe per certi aspetti essere addirittura l’ultimo rifugio dell’opportunismo parolaio.

 

Una rapida visita ai siti delle formazioni in cui si è frantumata Rifondazione Comunista, compresi quelli delle sue correnti interne, ci consegna un giudizio articolato – naturalmente, tanto per capirci, tra i commenti di Sinistra e Libertà e quelli di Marco Ferrando c’è più di una differenza – ma sostanzialmente monocorde sul significato di questa lotta: un modello da seguire per il rilancio del protagonismo operaio in vista di un autunno che, per definizione, sarà “caldo”.
Non è dunque il caso di disperdere l’analisi nei mille rivoli in cui si suddivide oggi quest’area politica, proprio perché l’aspetto principale sta in questa visione mitica del modello che farà da apripista alla ripresa delle lotte. Che poi ognuna di queste componenti immagini la lotta come strumento per conseguire qualche avanzamento, magari millimetrico, nel mercato della politica è cosa ovvia quanto secondaria.

 

Ma entriamo nel merito. Quel che balza subito agli occhi è la sproporzione tra le dimensioni della vertenza dei lavoratori di Lambrate ed il significato generale che gli si vuole a tutti i costi attribuire. Qui non soltanto manca la classica distinzione tra l’albero e la foresta, ma mentre si analizza solo parzialmente il primo, la seconda resta interamente inesplorata. Altro che “analisi concreta della situazione concreta”!
E così, nel caldo agostano, la vittoria sindacale di un piccolo gruppo di lavoratori diventa il paradigma della futura riscossa del proletariato. Senza voler fare torto a nessuno, citiamo una frase tratta dal commento di “Falce e Martello” (una piccola corrente della sinistra del Prc, presente però nella segreteria del partito). Eccola: “Sicuramente la lotta della Innse insegna una cosa: la classe operaia di questo paese ha ancora le energie per riorganizzare la propria riscossa, sebbene ancora priva di riferimenti politici all’altezza”.

 

Come può la sacrosanta lotta per la difesa del posto di lavoro di quella che è oggi una piccola fabbrica assumere questa valenza generale? Alla Innse i lavoratori avranno un nuovo padrone. Ne avevano uno vecchio (Genta) che voleva rottamare la fabbrica, ne avranno uno nuovo (il bresciano Camozzi) che ha fiutato l’affare. I posti di lavoro restano, e non è poco, ma quale sarebbe l’indicazione generale per la sinistra (per giunta comunista), quella del “cambio di padrone”?
Ovviamente, in una parte di questa sinistra allo sfascio c’è già chi teorizza (vedi il Manifesto) il padrone “buono” o perlomeno “serio”, contrapposto a quello “cattivo” e speculatore; tipologie umane che indubbiamente esistono ma che nel capitalismo si scambiano e si intrecciano in continuazione.
Un’altra parte della sinistra esalta invece la combattività, la radicalità della lotta. Sarebbe tutta qui la chiave della vittoria. Ma è davvero così? Se il principio secondo cui “la lotta paga” è universalmente valido, e non solo nelle forme più o meno classiche della lotta operaia, è questa una spiegazione sufficiente? O non sarà invece una interpretazione consolatoria, giusto per mettere tra parentesi il gigantesco vuoto di analisi e di elaborazione teorica con il quale ancora non si vuol cominciare a fare i conti?

 

Diciamo innanzitutto che la lotta dei lavoratori della Innse è stata tenace, ma si è espressa (specie nella sua fase terminale) in forme assai più mediatiche che radicali. Se le forme di lotta della Innse dovessero venire classificate come “radicali”, come dovremmo definire i sequestri dei manager in Francia, per non parlare di quel che è avvenuto alle acciaierie Tonghua, in Cina (vedi Lotta di classe contro il “socialismo”), dove un manager del gruppo privato Janlog che stava per acquisire e privatizzare l’azienda è stato bastonato ed ucciso dagli operai in rivolta, con il risultato di ottenere la sospensione della privatizzazione e del previsto licenziamento di 10mila operai?
Non che l’uso dei media sia sbagliato. Al contrario, purché si sappia che non sempre può funzionare. Il sistema (che è anche sistema informativo) può tollerare che un caso faccia notizia, specie se è piccolo e gestibile ed alla fine possono far tutti bella figura; viceversa non può tollerare e non tollera che si parli seriamente della condizione operaia nel suo insieme, tanto meno delle forme attuali dello sfruttamento capitalistico. Insomma, viva l’albero (specie se piccolo), abbasso la foresta.

 

Ed è proprio questa logica, al di là dei meriti indubitabili del combattivo gruppo di lavoratori che ha condotto la lotta, la spiegazione più vera della vittoria della Innse, cioè di un’eccezione che non smentisce la regola.
La Innse era ancora una fabbrica appetibile, il gruppo Camozzi ha intravisto l’affare, tanto più che forti sono state le pressioni politiche, arrivate fin dal governo (Gianni Letta) con l’intermediazione dell’ex Fiom ed ex Prc Maurizio Zipponi (ora responsabile Lavoro dell’Italia dei valori).
Alla fine tutti hanno potuto cantare vittoria, ecco la ragione vera dello spazio per una volta concesso dai media.
Le classi dominanti temono indubbiamente il riaprirsi dello scontro sociale, avvertono grandi difficoltà nel gestire una crisi economica che per molti versi è solo all’inizio e non disdegnano certo la mediazione politica, il ricorso agli ammortizzatori sociali, la ricerca dell’accordo ovunque questo sia possibile. Il caso della Innse era appunto uno di questi.
Certo, si può sempre sostenere (Paolo Ferrero su Liberazione del 13 agosto) che alla Innse c’è stata la “capacità di inserirsi nelle contraddizioni che si generano nel campo avverso, ma a partire da un proprio autonomo punto di vista”. Lo si può sostenere, ma a condizione che si abbia al tempo stesso l’onestà di ammettere la particolarità dell’azienda milanese. Altrimenti si cade in una bassa demagogia priva di costrutto. Che è esattamente l’atteggiamento politico e psicologico dell’attuale sinistra.

 

Per una Innse che ha salvato i posti di lavoro ci sono mille aziende di pari peso che chiudono ed altre 10mila immerse nel limbo della cassa integrazione. Ci sono lotte, presidi, occupazioni. Qua e là si utilizzano anche forme di protesta altamente simboliche (magari al posto di un carroponte si “occupa” una torre o qualcos’altro ancora). Ma il tutto è ancora immerso nel mare della passività, nella speranza di una soluzione concertativa, o magari in quella più generale di una “fine della crisi”.
Ai lavoratori è stato insegnato che il capitalismo è “insuperabile”, che è l’orizzonte del presente e del futuro, che l’eventuale lotta avviene dentro questo ambito ben recintato. Questo “insegnamento” è stato da tempo assimilato dal grosso della classe operaia italiana ed europea.
Sicuramente verrà il giorno in cui questa subalternità avrà fine, ma come non vedere quanto si sia oggi lontani da quella prospettiva?
E come non rendersi conto che la rottura con la subalternità potrà nascere solo dentro un processo di rifondazione teorica della necessità/possibilità di fuoriuscita dal capitalismo? Si dirà, va bene, ma intanto i lavoratori della Innse cosa dovevano fare? Dovevano fare esattamente ciò che hanno fatto, quel che invece non va affatto bene è la loro idealizzazione come modello, una scorciatoia che mette al sicuro qualche (buona o cattiva) coscienza al prezzo di illudere i propri stessi militanti sul futuro radioso delle lotte operaie purché si segua quell’esempio.

 

In realtà la lotta della Innse una cosa la insegna: la crisi profonda delle vecchie forme di mobilitazione del movimento operaio. Non è una novità, ma una conferma di quanto è da tempo sotto gli occhi di chiunque voglia guardare in faccia la realtà.
Domandiamoci: in una situazione come quella italiana (e del capitalismo occidentale in genere) quale capacità di incidenza hanno gli scioperi? E le manifestazioni nazionali? Qualunque lavoratore sa che l’incisività di queste azioni è ormai un decimo di quel che era solo 20 anni fa. Le manifestazioni, poi, sono diventate un mero rito di organizzazione, prive di ogni efficacia. Tant’è vero che ormai vengono programmate in base al calendario più che all’agenda delle priorità politiche e sociali, secondo una metodologia che non riguarda solo i sindacati confederali, ma anche quelli di base, come pure le forze della cosiddetta “sinistra radicale”.
Un’avanguardia intelligente come quella rappresentata dai lavoratori della Innse – ma vi sono altri casi anche in Italia – si è dunque posta il problema di imboccare altre strade. Ecco un fatto che richiederebbe una riflessione un po’ più seria da parte di tutti. Ma è proprio questo che viene rifuggito (per motivi magari diversi) da chi esalta acriticamente la lotta della Innse come il nuovo modello da seguire, dimenticandosi che una rondine non fa primavera.

 

La verità è che la fuga dalla realtà della sinistra politica italiana è impressionante. Non c’è qui lo spazio per analizzare le grandi ragioni della profonda crisi del movimento operaio italiano, ed occidentale in genere. Alcune cose sono però sufficientemente chiare:
1. C’è stato un lungo processo di integrazione che alla fine è sfociato in una profonda letargia, che la crisi riuscirà prevedibilmente a scuotere, ma che non è ancora terminato.
2. La realtà sociale è cambiata profondamente. Le classi non sono certo finite, anzi. In particolare non è finita la classe operaia, ma non esiste più qualcosa che rassomigli pallidamente alle vecchie comunità proletarie e lo stesso significato di “movimento operaio”, che pure continuiamo ad utilizzare, è oggi qualcosa di difficile definizione.
3. In questi anni lo sfruttamento è aumentato, così com’è aumentata a dismisura la disuguaglianza, ma questo non ha prodotto un vera risposta, neppure in termini di semplice resistenza. Vogliamo chiederci il perché? Vogliamo analizzare oppure no gli elementi strutturali, insieme a quelli politici ed ideologici di questa ritirata senza fine?
4. Il disarmo ideologico è stato totale e non possiamo attribuirne la responsabilità solo a chi, in particolare dal 1989 in poi, ha percorso fino in fondo la discesa che conduce alla piena assunzione di tutti i vincoli sistemici (le cosiddette “compatibilità”). Esiste anche una responsabilità di chi ha pensato di resistere in una piccola nicchia, facendo convivere l’ideologia della “falce e martello” con la pratica politica del “menopeggio”.
5. Anche chi alla fine il “menopeggio” l’ha rifiutato, che è comunque sempre molto meglio di chi continua pervicacemente a riproporlo (vedi il Prc), è rimasto solo con l’accoppiata “falce e martello”-movimentismo. Per qualcuno prevale il primo elemento (es. Pcl), per qualcun altro il secondo (es. Sinistra Critica), ma il risultato non cambia.

 

Come abbiamo già visto, i soggetti di cui ai punti 4 e 5 sono uniti nella parola d’ordine del “Fare come alla Innse”. Qualcuno sogna la ripresa di un qualche protagonismo operaio per spostare un po’ a sinistra il “nuovo centrosinistra” che dovrebbe prendere forma dopo il congresso del Pd. Qualcun altro pensa alle lotte per utilizzarle come elemento contrattuale per reinserirsi (le regionali del 2010 sono vicine…) in quell’alleanza. Gli altri sperano che la ripresa della conflittualità confermi e/o rilanci la propria specifica identità ideologica. Chi più, chi meno, hanno tutti in realtà ben poco da proporre.
Verrà il tempo della fine della letargia, ma non verrà senza un pensiero forte che incominci ad illuminare la strada di un nuovo possibile percorso.
Senza di esso si può star certi che alla fine prevarranno le potenti ragioni strutturali che alimentano le attuali tendenze xenofobe e razziste, vissute da tanti lavoratori come la risposta più naturale e realistica alla crisi.
Una tendenza che non è possibile contrastare né con il solidarismo buonista, né con un generico appello all’unità di classe. I lavoratori vedono la concorrenza dal basso che arriva da sud e da est e non vedono – per la banalissima ragione che è stata cancellata dall’orizzonte del possibile – alcuna uscita verso l’“alto” di una nuova società che tenda all’abolizione dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Possiamo limitarci a dargli torto moralisticamente?
E’ la ricostruzione di questo orizzonte il compito fondamentale e prioritario in questa fase, proprio se si vuol lavorare alla possibilità concreta di un serio rilancio delle lotte.

 

Questo non vuol essere dunque un ragionamento astratto che guardando lontano si dimentica del presente.
Sui giornali di questa mattina (23 agosto) trovano spazio le previsioni della Cgil sui tagli all’occupazione in Italia per l’anno 2010, secondo le quali c’è il rischio di perdere un milione di posti di lavoro.
A Lambrate se ne sono meritoriamente salvati 49, resta il problema degli altri 999.951 e non per tutti ci sarà il Tg3…