Le incredibili ammissioni del prof. Prodi

 

Mentre lo stupidario ferragostano sfruculiava sui bermuda di Michelle Obama, Romano Prodi ha scritto un articolo che liquida paro paro come fallimentare l’intera esperienza del riformismo europeo degli ultimi vent’anni, sia in salsa ulivista che in versione neo-laburista.

 

Sentite qui: «La causa della sconfitta di questa grande stagione è da individuare nel fatto che, mentre in teoria il nuovo Labour e l’ulivo mondiale erano una fucina di novità, nella prassi di governo Tony Blair e i governi che ad esso si erano ispirati si limitavano a imitare le precedenti politiche dei conservatori, inseguendone i contenuti e accontentandosi di un nuovo linguaggio. Sul dominio assoluto dei mercati, sul peggioramento nella distribuzione dei redditi, sulle politiche europee, sul grande problema della pace e della guerra, sui diritti dei cittadini e sulle politiche fiscali, le decisioni non si discostavano spesso da quelle precedenti. Il messaggio lanciato all’elettore era il più delle volte dedicato a dimostrare che il modo di governare sarebbe stato migliore. Nel frattempo, il cambiamento della società continuava secondo le linee precedenti: una crescente disparità nelle distribuzione dei redditi, un dominio assoluto e incontrastato del mercato, un diffuso disprezzo del ruolo dello Stato e dell’uso delle politiche fiscali, una presenza sempre più limitata degli interventi pubblici di carattere sociale» (Il Messaggero, 15/8).

 

Ohibò! A cosa si deve questa improvvisa (e a dir poco tardiva) ammissione, anzi, questa virata a 180 gradi? Finora, infatti, chi diceva queste ovvietà – ossia che fra una politica genuinamente di destra e la sua maldestra copia “di sinistra”, l’elettorato preferisce ovviamente l’originale e schifa l’imitazione – da Prodi e dai suoi accoliti veniva bollato come un estremista veterocomunista. Adesso che la disfatta riformista ha riportato in auge le destre e disintegrato le sinistre istituzionali, il nostro se ne esce con questa incredibile faccia tosta. Già, perché, fino a prova contraria, per ben due volte a capo del governo – ulivista prima, unionista poi – c’era lui, lo smemorato di Collegno. Il quale sembra contemplare – dall’alto e dall’esterno – il disastro compiuto, come se lui ne fosse estraneo, guardandosi bene dal riconoscere le proprie responsabilità. Evidentemente, a dirigere la baracca da Palazzo Chigi c’era un altro, forse un sosia. Mentre il Professore se ne stava tranquillo a pescare sul greto di un fiume appenninico. C’è solo da sperare che qualche imbecille non spacci tanta sfrontatezza per onestà intellettuale.

 

Pubblicato su Primapagina del 22 agosto