Lettera dal carcere modello di Bogotá

L’arresto in Messico e la successiva consegna alle autorità colombiane di Miguel Angel Beltrán Villegas, sociologo e professore colombiano, avvenuti lo scorso 22 maggio, sono un frutto avvelenato della collaborazione segreta tra i governi di Messico e Colombia, collaborazione che prefigura una sorta di nuovo “Piano Condor” in America Latina.

Ci siamo ripetutamente soffermati sull’importanza strategica che il Medio Oriente e l’Asia Centrale rivestono per i progetti imperialistici degli Stati Uniti d’America, che però non intendono rinunciare al controllo di quello che continuano a ritenere il loro “cortile di casa”. Basti pensare alla realizzazione di nuove basi americane in Colombia o all’atteggiamento a dir poco compiacente che l’amministrazione Obama ha adottato rispetto al recentissimo colpo di stato in Honduras.

Miguel Ángel Beltrá è stato accusato dal governo colombiano di terrorismo per  presunti legami con le FARC-EP perché, come scrive egli stesso “ho scritto che le FARC sono una risposta storica alle tante violenze dello Stato”

Di seguito pubblichiamo una lettera che Miguel Ángel ha indirizzato ai suoi colleghi dell’Associazione sindacale dei professori universitari (Asociación Sindical de Profesores Universitarios-ASPU) della Colombia il 20 luglio 2009, invitando a sottoscrivere l’appello che trovate a questo link: http://www.tlaxcala.es/detail_campagne.asp?lg=it&ref_campagne=12 .

 

Cari colleghi e colleghe dell’ASPU,

Sono trascorsi due mesi dalla mia arbitraria incarcerazione in questo settore di «alta sicurezza». Attualmente siamo 73 detenuti (su una popolazione di 6102 prigionieri), isolati in questa zona del carcere nazionale modello che può essere considerata come una «prigione nella prigione», lontana dagli altri settori e nella quale abbiamo diritto solo a un’ora d’aria al giorno.

Qui condivido la mia sorte non solo con comandanti della guerriglia ma anche con noti narcotrafficanti e capi paramilitari che come «Zeus» e «Niche» sono accusati di numerosi massacri di uomini, donne e bambini indifesi. Per fortuna questi ultimi si trovano a un altro piano

Ogni volta che passo attraverso le porte di questo istituto carcerario per un’udienza o un’intervista con i media, gli impressionanti dispositivi di sicurezza rivelano che sono considerato un grande pericolo dalle autorità carcerarie. «Il terrorista più pericoloso delle FARC», secondo le parole di quello stesso presidente Uribe che mi ha condannato senza processo e ha ringraziato il presidente messicano Felipe Calderón per aver collaborato alla mia cattura, nonostante in primo grado e in appello i giudici abbiano insistito sul fatto che la mia incarcerazione aveva avuto luogo in Colombia.

È davvero ironico che mentre il magistrato mi prospetta una condanna di più di quarant’anni per il reato di ribellione e associazione a delinquere a fini terroristici, protegge attraverso la politica di «giustizia e pace» i veri criminali, quelli che hanno seminato il terrore in tutto il paese, offrendo loro di scontare per i loro decenni d’omicidi soltanto 8 anni di carcere in cambio di una confessione. In altri casi la giustizia non si è nemmeno occupata di loro, che hanno conservato in totale impunità cariche pubbliche importanti o posti di alta responsabilità nelle Forze armate.

Nel mio fascicolo non mi si accusa di avere massacrato dei contadini con la sega elettrica, come non mi si attribuisce l’assassinio di giovani provenienti dai settori popolari in seguito presentati come dei «falsi positivi»; non mi si accusa di trattamento crudele, inumano e degradante contro chicchessia; e tanto meno di crimini contro l’umanità: anzi, mi si accusa «di incitazione al terrorismo» per aver denunciato questi fatti e rivelato la responsabilità dello Stato colombiano e delle Forze armate in questi crimini. Sono accusato di essere un terrorista perché sostengo nei miei scritti nei forum pubblici che le FARC sono una risposta storica alla tante violenze dello Stato, perché in questo paese c’è un decreto presidenziale che afferma che non esiste un conflitto armato, benché il numero dei profughi a causa delle violenze superi già i 4 milioni.

Il fatto che si citino le mie attività universitarie come indizi per accusarmi dimostra che si tratta di un chiaro tentativo di criminalizzare un lavoro di docenza e di ricerca che infastidisce il sistema dirigente.

In passato questo stesso genere di accuse è stato mosso contro noti professori universitari come il sociologo Alfredo Correa, accusato di essere un «ideologo delle FARC»; in questo caso le false accuse provenivano da informazioni fornite dai servizi segreti dello Stato, cioè concretamente dal DAS [Dipartimento Amministrativo di Sicurezza], istituzione che dipende direttamente dalla Presidenza della Repubblica. Benché la sua innocenza fosse stata confermata durante il processo, al professor Correa non fu garantito il diritto alla vita: qualche settimana dopo la scarcerazione fu assassinato nelle strade di Barranquilla.

Purtroppo questa politica di vessazioni contro l’università colombiana non appartiene al passato, ma si è anzi amplificata con la politica impropriamente chiamata di «sicurezza democratica». William Javier Díaz è un esempio di queste macchinazioni: membro del Taller de Formación Estudiantil Raíces [TJER-Officina di Formazione Studentesca Radici], che per più di un decennio ha sviluppato seminari sul pensiero sociale all’Università pedagogica e all’Università distrettuale «Francisco José Caldas» con il contributo di accademici e ricercatori riconosciuti, oggi è vittima di una simile montatura giudiziaria, nella quale sulla base di oscuri dati archiviati in un presunto computer sequestrato alla guerriglia viene presentato come un militante delle FARC.

In questo modo lo Stato intende punire noi e tutti coloro che pensano che gli studenti debbano essere in contatto permanente con i problemi sociali non solo del passato, ma anche del presente; che il futuro professionista debba restare in contatto con le dure realtà di un paese continente che sembra oggi risvegliarsi dopo anni di letargo.

L’università, che è il centro per eccellenza di produzione e circolazione del pensiero critico, non può cedere a questa intimidazione proteggendosi dietro la presunta neutralità della teoria o chiudendosi nella torre d’avorio di una conoscenza elitaria estranea a qualsivoglia compromesso con la realtà sociale. Le libertà di pensiero e d’espressione – scriveva il professore universitario nonché attivista dei diritti umani Héctor Abbé Gómez – «È un diritto duramente conquistato attraverso la storia da migliaia di esseri umani, un diritto che dobbiamo conservare. La storia dimostra che la conservazione di questo diritto richiede sforzi costanti, spesso delle lotte e a volte dei sacrifici personali».

In Colombia, L’Associazione Sindacale di Professori Universitari è stata uno strumento di difesa di questo diritto, non solo conservando con la sua lotta l'”alma mater” dai barbari che vorrebbero zittirla ricorrendo alla violenza e alle minacce, ma anche facendo fronte alle politiche neoliberiste che tentano di soffocarla.

La generosa solidarietà che mi avete offerto durante questi due lunghi mesi di reclusione conferma l’impegno che avete mantenuto per decenni a nome della difesa dell’istruzione superiore, e che questa lotta riguarda non solo la mia libertà ma anche la libertà e il rispetto del lavoro scientifico e intellettuale.

Da questi quattro muri che imprigionano il mio corpi ma non il mio pensiero, voglio farvi giungere i miei sinceri ringraziamenti per i vostri gesti di solidarietà e la mia convinzione che in questa lotta andremo fino in fondo per far sì che nel paese il pensiero possa circolare liberamente e non sia minacciato dagli insensati che aspirano a far rivivere i tempi dell’inquisizione, condannando al rogo chi come noi espirme delle idee e delle opinioni differenti.

 

Un abbraccio fraterno.

Miguel Ángel Beltrán Villegas

Carcere Nazionale Modello. Sezione di Alta Sicurezza
Bogotá, 20 luglio 2009

 

Traduzione di Manuela Vittorelli, membro di Tlaxcala.