Verso una terza guerra civile?
Mentre in Darfur il conflitto pare acquietarsi (anche a causa delle batoste subite dai diversi gruppi guerriglieri foraggiati dall’Occidente a cui è seguito un inarrestabile processo di frazionamento), è nel sud del paese che si è improvvisamente riaccesa la fiamma degli scontri tra clan e tribù. Dall’inizio dell’anno ad oggi, almeno secondo fonti ONU, ci sarebbe stata una media di 150 morti al mese, per un totale di circa 1200 vittime. Decine di migliaia sarebbero gli sfollati. Una situazione che rischia di diventare esplosiva con l’approssimarsi delle decisive elezioni generali dell’aprile 2010 e del referendum previsto per il 2011 col quale le popolazioni sud sudanesi potrebbero decidere per la totale indipendenza. Una partita delicatissima, nella quale le potenze imperialiste (anzitutto USA e Francia) sono parte in causa, e che non decide solo la sorte del regime di Omar al-Bashir, ma del Sudan in quanto nazione sovrana e unitaria.
Veniamo ai fatti. Protagonisti delle violenze, avvenute anzitutto nei tre stati di Jonglei, Lakes e Upper Nile, sono le popolose tribù, a loro volta divise in clan e sotto-clan, dei Misseria (genti di lingua e stirpe semitico-araba e di religione musulmana) e dei Dinka Ngok (neri di lingua nilotica e di religione animista). Entrambi queste tribù sono dedite alla pastorizia e all’allevamento di bestiame che spinge entrambi, ma anzitutto i primi, alla transumanza per nutrire le mandrie. Che il furto di bestiame (o la lotta per l’acqua come inizialmente avvenne in Darfur) sia anche questa volta il casus belli è tuttavia improbabile. Gli scontri più sanguinosi, dopo due anni di conflitto a bassa intensità, si sono infatti verificati nello stato di Jonglei, con duecento persone ammazzare nel solo mese di agosto. Si da il caso che proprio in questo stato si concentrino importanti giacimenti petroliferi (uno dei quali ancora vergine e con la Total che ne detiene i diritti di esplorazione e estrazione). Ma il vero pomo della discordia, in vista del referendum sull’indipendenza che si svolgerà nel 2011, è il controllo della regione di Abyei (stato del Sud Kordofan), il cui sottosuolo custodirebbe ben il 70% del petrolio sudanese, e su cui passa il confine tra il nord e il sud Sudan.
A chi apparterranno i giacimenti di Abyei nel caso le popolazioni sudiste opteranno per la secessione?
Facciamo un passo indietro. Il Sudan ha conosciuto due terribili guerre civili che hanno coinvolto il sud del paese. La prima terminò nel 1972, quando l’allora dittatore anticomunista El-Nimeyri si decise a concedere l’autogoverno regionale. Ma la pace terminò nel 1983, quando le popolazioni del sud scesero nuovamente sul sentiero di guerra, questa volta sotto le insegne del SPLA (Esercito di Liberazione del Popolo Sudanese) di John Garang (un Dinka, la tribù che ha rappresentato lo zoccolo duro della guerriglia sudista). Questa seconda guerra civile ebbe termine dopo 19 anni, nel 2002, quando il SPLA (movimento da tempo diventato una longa manus delle potenze occidentali) e il governo capeggiato dall’attuale Presidente Omar al-Bashir firmarono un primo protocollo d’intesa, detto di Machakos. Ma la vera e propria pace venne firmata a Nairobi il 9 gennaio del 2005. In questo accordo era previsto il referendum sull’eventuale indipendenza come alcune clausole sulla divisione dei proventi petroliferi e l’assetto de facto confederativo del Sudan (gli stati del sud amministrati dal SPLA sono di fatto già del tutto indipendenti da Khartoum). Tornando alla regione di Abyei e a quale autorità federale debba avere la giurisdizione sui giacimenti (e quindi a chi apparterranno dopo il previsto referendum, visto che ad Abyei passa la linea che divide nord e sud Sudan) c’era in effetti in protocollo d’intesa tra il governo centrale e il SPLA. Su questo protocollo hanno ben presto allungato le mani gli occidentali i quali, per mezzo di una Corte permanente di mediazione con sede all’Aia (lo stesso luogo del Tribunale penale internazionale), hanno ridisegnato i confini in questione. Essi assegnano al nord la parte settentrionale di Abyei, quella che comprende l’importante campo petrolifero di Heglig, mentre al sud è attribuita la zona meridionale della regione.
Ovviamente in questi protocolli non si fa menzione dei giacimenti di petrolio, né dell’eventuale secessione sudista che potrebbe essere sancita dal referendum del 2011. Lì si parla dei diritti di pascolo della tribù dei Misseria e di quelli dei Dinka Ngok.
Questa decisione, che assegna buona parte dei giacimenti di Heglig al governo statale del Kordofan del sud, a sua volta legato a Khartoum, nonostante fosse a suo tempo stata sottoscritta dai sudisti dello SPLA, è ora contestata dai sudisti. Di qui gli scontri recenti nella zona, il cui travestimento è quello di incidenti inter-tribali ed inter-clanici per il diritto di pascolo delle mandrie.
La centrale occidentale di disinformazione strategica, ovvero il suo dipartimento africano, la cui efficienza abbiamo visto e vediamo da anni in opera sulla vicenda del Darfur, sta diffondendo la tesi che sia stato il governo di Khartoum, ovvero il “genocida” Al-Bashir, ad avere dato fuoco alle polveri. Nei media inglesi, americani e francesi (che sono quelli che dati gli interessi stretegici in gioco si occupano della questione), copiando in carta carbone ciò che scrivono del Darfur, stanno denunciando il governo centrale, responsabile a loro dire di aver riarmato e aizzato la tribù araba dei Misseria contro i “poveri e oppressi” Dinka. Anche i media della chiesa cattolica, supinamente allineati dietro a questa centrale, sostengono che il colpevole è sempre lui, Al-Bashir, che armerebbe le popolazioni per scatenare il caos, così da avere un pretesto per annullare elezioni e referendum.
A noi pare il contrario. Che con l’emissione del mandato di cattura per Al-Bashir, che dimostra fino a che punto le potenze occidentali vogliano toglierlo di mezzo a ridurre il Sudan ad una serie di loro satrapie, il paese è entrato in uno stato di fibrillazione, per essere precisi di pre-guerra civile. Ciò che agli imperialisti non è riuscito in Darfur, adesso vogliono ottenerlo usando la questione del Sud, ovvero perorando la secessione. Basta ascoltare le interviste ai leaders dello SPLA (che formalmente fanno ancora parte delle istituzioni centrali) , sia sui canali anglofoni che su Al-Jazeera, per rendersi conto che essi hanno già deciso per la secessione e allo scopo si stanno riarmando col pieno appoggio occidentale.
In questo contesto pare addirittura ovvio che le forze raccolte attorno al CNP (Partito Nazionale del Congresso) di Al-Bashir si vadano attrezzando per prevenire manu militari quella che sarebbe una terza e devastante guerra civile. Se gli americani foraggiano e armano, violando i principi più elementari di diritto internazionale, le tribù Dinka, giocoforza Khartoum deve fare altrettanto con i Misseria. Con ogni evidenza si tratta di prove generali della guerra possibile.
Ovviamente vorremmo sbagliarci. Vogliamo sperare che il Sudan possa evitare una terza guerra civile. Il governo di Khartoum, questo è quanto noi ci teniamo ad affermare, non ha alcun interesse a che si entri in un nuovo catastrofico periodo di conflitti. Potrebbe esserne travolto. Né ci sono elementi per far pensare che alle prossime elezioni le forze del CNP perderanno le elezioni. E sarà da vedere se le popolazioni del sud, nel 2011 voteranno per la secessione, accettando di diventare un’enclave americana nel cuore dell’africa, uno stato fantoccio.